La rivoluzione quotidiana della sharing economy

La rivoluzione quotidiana della sharing economy

Di grandi novità, nell’economia collaborativa (per gli anglofoni sharing economy), in realtà non ce ne sono. Le nonne che facevano da balia ai figli delle vicine esistono dalla notte dei tempi, così come le mamme che caricano in macchina più di un compagno di classe dopo il suono della campanella. La novità, qui, è la tecnologia, che rende collaborativa anche l’economia tra sconosciuti (e non solo tra dirimpettai). Smartphone, applicazioni, geolocalizzazioni, computer ci hanno trasformato in un grande condominio. Nel nome della condivisione di servizi e prodotti. E se ormai queste formule, dal carpooling agli appartamenti condivisi, hanno raggiunto in Italia il 15% della popolazione avviandosi verso l’esplosione del fenomeno, normative, tassazioni e amministrazioni invece non sono pronte. E devono adeguarsi.

Il via al trend della sharing economy lo ha dato la newyorchese Rachel Botsman nel 2010 con il libro What’s Mine is Yours: How Collaborative Consumption Is Changing The Way We Live (Ciò che è mio è tuo: come il consumo collaborativo sta cambiando il modo in cui viviamo), che spiegava come soprattutto in tempi di crisi l’esplosione dei social media avesse generato nuovi modelli di consumo. «Non ho bisogno di un trapano», scrive Botsman, «ma di fare un buco nel muro». Non importa di chi sia il trapano e soprattutto non c’è bisogno di comprarlo. «Da consumatori passivi siamo diventati creatori di una nuova formula di consumo», spiega Botsman davanti al pubblico di TED nel maggio 2010. «La tecnologia ha messo in circolo la fiducia tra sconosciuti in una maniera che prima risultava impossibile». Così «nasce un mercato redistributivo, in cui l’accesso (a un bene o a un servizio, ndr) è meglio della proprietà». 

Dal trapano, anche in Italia in pochi anni siamo passati ai passaggi in macchina, alle cene a casa, all’affitto di case, stanze e spazi di lavoro, allo scambio (swap) dei vestiti in cui non entriamo più, alle corse al parco in compagnia. Non solo semplici innovazioni per smanettoni, hipster o alternativi, la sharing anche nel nostro Paese ha ormai superato la curva degli early adopters ed è diventata pure un volano economico. 

Le piattaforme collaborative attive, secondo una ricerca dell’Università Cattolica di Milano, nel nostro Paese sono 260, di cui 160 dedicate allo scambio e alla condivisione, 40 all’autoproduzione e 60 alla raccolta fondi. E nomi come AirBnb, l’intermediatore americano degli affitti brevi tra privati, e Uber, la app californiana che nella sua versione pop permette a chiunque di dare un passaggio a qualcun altro, cominciano a spaventare (e non poco) corporazioni e associazioni di categoria. Soprattutto perché le valutazioni delle due si aggirano ormai tra i 10 e i 12 miliardi di dollari. E su Uber ha messo gli occhi anche Google, investendo più di 250 milioni di dollari.

«Siamo arrivati a un numero sufficiente di utenti per poter dare il via a un fenomeno diffuso», spiega Federico Capeci, direttore generale di Duepuntozero Research del gruppo DOXA, che sulla sharing economy ha condotto un sondaggio da cui viene fuori che il 15% degli intervistati usa e conosce le piattaforme di economia collaborativa. E non è un caso, forse, che sullo stesso sondaggio condotto in vista di Expo 2015, il 23% degli intervistati dica che vorrebbe proporsi come guida, il 16% sarebbe disposto a cucinare per i visitatori di Expo e il 20% si improvviserebbe come autista mettendo a disposizione la sua auto. Per alcuni, certo, restano diverse paure, come la qualità dei servizi, la mancanza fiducia verso gli sconosciuti, lo scetticismo nel mettere in condivisione qualcosa di personale. E poi c’è anche il digital divide, che penalizza (e non poco) l’accesso alle piattaforme digitali. «Siamo arrivati al punto in cui bisogna diffondere la sharing economy con comunicazioni e regolamentazioni», dice Capeci. «L’Italia ha la condivisione nel suo Dna».

Sarà forse per questo che in pochi anni per un gigante come AirBnb il mercato italiano abbia già raggiunto il terzo gradino del podio a livello mondiale per numero di annunci attivi alle spalle di Stati Uniti e Francia. «Sessantamila spazi messi a disposizione», racconta Matteo Stifanelli, 28enne Country Manager per l’Italia, «non solo nelle grandi città come Roma e Milano, ma anche nelle regioni sul mare, nei paesi e nei piccoli borghi». A Milano, ad esempio, durante la settimana del Salone del mobile del 2014, quando gli alberghi in città erano completamente pieni, «su 5mila annunci attivi, ne erano rimasti liberi solo 200». Cosa che fa dire a Stifanelli che «a livello culturale siamo pronti. Il fenomeno è cresciuto trasversalmente, non solo tra i più giovani. I nostri host hanno un’età media di 42 anni, i viaggiatori di 36. La diffusione si deve a una serie di fattori, tra cui una legislazione positiva che rende legale l’affitto a breve termine, anche non professionale». Fin qui tutto bene: chiunque, quindi, può mettere a disposizione di altri il proprio appartamento per un breve periodo. I problemi nascono con il pagamento del viaggiatore (di cui il 10% va ad AirBnb), perché come tutte le entrate il proprietario deve dichiarare quello che l’“ospite” paga, e bisogna quindi pagarci le tasse. Federalberghi, d’altronde, più volte ha accusato la piattaforma americana di “concorrenza sleale”: «Ci piacerebbe che a questo fiorire di case AirBnb corrispondesse un fiorire di partite Iva», ha detto il presidente Bernabò Bocca. 

«Federalberghi combatte l’abusivismo, ma noi lo facciamo altrettanto», risponde Stifanelli. «Da parte nostra l’utente viene responsabilizzato a pagare le tasse: in diversi punti del sito viene infatti ricordato che bisogna pagarle. E nel momento in cui diventi un host, accetti di rispettare la legge e di pagare le tasse. Di certo, però, non possiamo fare controlli fiscali. Ma se ci sono infrazioni certificate, ci riserviamo il diritto di rimuovere l’utente dalla nostra piattaforma». Ecco perché, dicono da AirBnb, «chiediamo alle istituzioni che si arrivi a delle linee guida di modo che il cittadino che affitta per un breve periodo la sua casa sappia in maniera semplice come comportarsi».

Il tema della regolamentazione di AirBnb, d’altronde, non è solo un caso italiano. Si stima che a New York regolarizzare fiscalmente AirBnb potrebbe fruttare a Bill de Blasio circa 20 milioni di nuove tasse. Ad Amsterdam, dopo un primo blocco, il servizio ora è stato sottoposto a una tassa turistica ed è ripartito con il limite di affitto per un periodo di due mesi l’anno per ogni host. Un provvedimento simile è stato preso a Berlino, dove l’amministrazione locale ha regolamentato i limiti dell’affitto a breve termine per ridurre il numero di appartamenti adibiti all’affitto turistico.

Più complicata sembra invece la posizione di Uber. Prima del lancio di uova e fumogeni durante il Wired Next Fest di Milano, la app di San Francisco, oltre al servizio premium Uber Black, aveva lanciato in via sperimentale il servizio low cost UberPop, che permette a chiunque di registrarsi come autista usando il proprio veicolo. Se per il Black le auto sono guidate da autisti con licenza Ncc (Noleggio con conducente), UberPop è invece simile al carpooling. «Si colloca nello stesso mercato di formule collaborative di carpooling», spiega Benedetta Arese Lucini, general manager di Uber Italia, «ma differentemente da Blablacar si concentra sul mercato urbano. La piattaforma di Uber via app rende il contatto tra utente e guidatore istantaneo e per trasparenza il rimborso spese è basato sulle tabelle che si trovano sul sito Aci. Come Blablacar e altri sistemi che stanno spuntando in tutto il mondo, UberPop vuole facilitare il modo in cui la gente si muove, portando più scelta e aiutare anche chi deve utilizzare la macchina a coprire le spese».

Il 21 maggio scorso, dopo l’incontro alla Prefettura di Milano con i rappresentanti sindacali delle auto bianche, il prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca e il sindaco Giuliano Pisapia, il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi ha dichiarato che «qualsiasi app o innovazione che eroghi un servizio pubblico non autorizzato compie un esercizio abusivo della professione: non è permesso e non si può fare, che si chiami Uber o in qualsiasi altro modo». Che serva una regolamentazione per UberPop, quindi, è sotto gli occhi di tutti. Dividere le spese per il tragitto, come già avviene con Blablacar o altre piattaforme (tra le ultime, Fondovalle Taxi, il sistema siculo con il quale gli automobilisti con posti liberi a bordo delle proprie auto tramite Facebook si mettono in contatto con le persone che devono raggiungere Palermo dall’hinterland o viceversa), è consentito. Lucrare sul servizio no. Blablacar, ad esempio, comunica in anticipo all’utente il rimborso da pagare per il tragitto. Letzgo, invece, suggerisce il rimborso da dare, ma è l’utente poi a decidere se e con quanto contribuire. Anche Uber funziona con la tecnica del rimborso, applicando però il 20% in più per la percentuale dovuta alla piattaforma.

«UberPop è un servizio tra privati in un gruppo chiuso di utenti che decidono di condividere dei percorsi», dice Arese Lucini. «Come tale non è ancora regolamentato, tranne accenni di decreti ministeriali che promuovono l’uso di tecnologie per facilitare la mobilità. Siamo sempre stati aperti e ci stiamo già sedendo con diverse autorità nazionali e locali per confrontarci sul definire il quadro regolamentare che faciliti lo sviluppo di queste soluzioni innovative a beneficio degli utenti». Anche in questo caso, Uber non è un problema tutto italiano. Tra gli ultimi, il Belgio ha vietato la app, facendo indignare persino il  commissario europeo all’agenda digitaleNeelie Kroes.

E le soluzioni innovative, soprattutto con la crisi economica, pare che anche gli italiani non se le vogliano fare scappare. In Italia BlaBlaCar esiste da maggio 2012 e lo scorso anno ha visto crescere l’offerta di passaggi del 247%, con periodi di picco, come le vacanze natalizie del 2013, in cui sono stati offerti oltre 250mila posti auto per un totale di 20 milioni di chilometri percorsi. AirBnb, invece, per far fronte alle richieste crescenti in Italia, ha dovuto aprire una sede a Milano. E Car2go, il marchio tedesco del car sharing, in dieci mesi tra Milano, Roma e Firenze ha raggiunto quota 110mila iscritti.

Proprio da Milano è partito ShareExpo, comitato di esperti del settore sharing guidato dall’università cattolica di Milano, che ha redatto un documento in cui chiede ai Comuni coinvolti nell’Expo del 2015 di individuare nuove regole per far emergere i protagonisti del consumo collaborativo, considerato che una normativa trasparente gioverebbe anche allo sviluppo di queste piattaforme, limitate spesso dalla mancanza di fiducia dei potenziali utenti. «Bisogna fare uscire le pratiche collaborative dalle zone grigie trovando soluzioni per ammortizzare l’impatto su quelle categorie che da queste innovazioni possono perdere benefici, ad esempio i tassisti», si legge nel documento. Punto fondamentale: bisogna «separare, dal punto di vista fiscale, la posizione di chi usufruisce di questi servizi in maniera temporanea e di chi, invece, li utilizza come nuovo lavoro».

E sì, perché c’è chi può usare UberPop per arrotondare e chi invece può sfruttarlo per fare il tassista abusivo; o anche chi usa Airbnb per arrivare a fine mese e chi può farlo in maniera semiimprenditoriale come affittacamere abusivo. Le piattaforme, ovviamente, dicono di essere solo intermediatori e non agenti della Guardia di Finanza. Quindi chiedono alle amministrazioni di collaborare e vigilare. «Se non vogliono essere un ostacolo all’innovazione anche l’atteggiamento delle amministrazione deve cambiare», ha commentato Gianni Dominici, direttore generale del Forum PA, durante gli stati generali della pubblica amministrazione dello scorso maggio che proprio alla sharing economy hanno dedicato un panel di discussione, «favorendo le iniziative e la collaborazione tra i privati e gli operatori sociali».

Expo 2015, in effetti, potrebbe essere una buona rampa di lancio per lo sviluppo della sharing economy nel nostro Paese. Dal comitato Share Expo, che sta preparando un documento di indirizzo che analizzi criticità e potenzialità dell’economia condivisa esistente, arrivano le prime proposte: dalla creazione di una piattaforma online con un rating personale che cresce ogni volta che un visitatore usa i servizi collaborativi a un biglietto condiviso per entrare nell’area Expo utilizzabile da più soggetti, fino agli Expocoin, una forma alternativa di pagamento per facilitare gli scambi di stanze, posti in macchina, cene e garage.

Perché oltre i giganti Uber e AirBnb, il mondo della sharing economy brulica in effetti di piccole realtà di consumo collaborativo. Lungo tutta la penisola, da Nord a Sud, sono spuntate in poco tempo oltre 260 social street (di cui 37 solo a Milano), quartieri che grazie a Facebook si trasformano in “strade sociali” per scambiarsi passaggi in macchina, mettere in comune l’abbonamento a Internet, organizzare gruppi di acquisto solidale. La crisi, assottigliando i portafogli, di certo ha fatto la sua parte. Tanto che c’è anche chi, in una città come Milano in cui trovare un parcheggio a volte è come un miraggio nel deserto, ha deciso di mettere in comune anche il proprio garage. Tramite un’app, ovviamente: Parcheggiami, una sorta di AirBnb dei posteggi per le auto. Chi cerca un parcheggio non deve fare altro che cercare quello libero più vicino e prenotarlo online. In questo modo, i proprietari dei preziosi spazi possono aumentare le entrate a fine mese senza tanta fatica, gestendo in autonomia il prezzo, la disponibilità e le persone da accettare. Ma c’è anche il Tir sharing:visto che il 30% degli autotrasportatori italiani gira a vuoto perché spesso si ha il carico all’andata ma non al ritorno, c’è chi ha pensato di sfruttare il viaggio di rientro “a vuoto” per spedizioni o traslochi a basso costo. E l’elenco è ancora lungo: gli spazi di coworking sono ormai una realtà per molti freelance che non possono permettersi un ufficio tutto per sé, così come il food sharing, che mette in condivisione i prodotti alimentari vicini alla scadenza ma ancora commestibili, o il social eating, per condividere la propria cucina.

Secondo The Economist, la diffusione del consumo collaborativo non è altro che una risposta alla crisi economica che stiamo vivendo: «Non è certamente una coincidenza se molti servizi peer-to-peer siano stati fondati tra il 2008 e il 2010, nell’immediato della crisi globale finanziaria. Alcuni vedono la condivisione, e il su mantra “l’accesso vince sul possesso”, come un antidoto post-crisi al materialismo e al consumismo». E molto ha a che fare anche con una maggiore attenzione all’ambiente e agli sprechi.

«Il modello di sviluppo per come lo conosciamo è in crisi», dice il Country Manager Italia di AirBnb, «la sharing economy propone proprio nuovi modelli di consumo. E non sono solo i teenager a essere coinvolti, ma persone di diverse età. In questo modo si arriva a fine mese con meno fatica, creando maggior valore a partire da quello che già si possiede». Ma per farlo evitando proteste e scioperi, servono nuove regole. Quando sono state pensate quelle già esistenti, applicazioni, geolocalizzazioni e smartphone erano solo fantascienza.

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