Il popolo di Ligabue lo devi vedere dal vivo. E quella della doppia data allo stadio San Siro di Milano, la decima volta del cantautore su quel prato, è un’occasione ghiotta, visto che dall’ufficio stampa annunciano di aver staccato 130mila biglietti in totale.
Le magliette con il faccione di Luciano, tarocche o originali, non si contano. Le fasce con la scritta L-I-G-A-B-U-E a caratteri cubitali neanche a dirlo. Dentro ci sono le teste di almeno due generazioni: i padri e le madri, ormai coetanei dell’ultracinquantenne Liga, e i figli, dai 15 ai 30 anni. Li vedi entrare insieme al Meazza, non sul prato certo. Ma appena la chitarrina del sempre verde Fede Poggipollini muove le prime corde, i seggiolini degli anelli rossi e blu sono belli e abbandonati, e tutti in piedi senza età a saltare e dimenare le mani con gli indici puntati verso il palco. I junior decantano a memoria i pezzi dell’ultimo album Mondovisione, i grandi si scatenano su A che ora è la fine del mondo, Piccola stella senza cielo e grandi classici come Certe Notti e Urlando contro il cielo.
Lui, Luciano da Correggio, classe 1960, lo ricorda pure di essere coetaneo dei padri e delle madri. Dopo sei pezzi, annuncia il permesso speciale concessogli dallo «Scuc, Sindacato cantanti ultracinquantenni» durante i concerti. «Ora cantate voi», dice. «Io mi riposo. La band suona e voi cantate». E così, dopo aver dato l’«un, due, tre», sfida la memoria del suo pubblico, da Marlon Brando è sempre lui (dall’album Ligabue del 1990) a Tu sei lei (da Monovisione, 2013). Difficile tenere il tempo, ma cantano tutti. E lui si riposa, che a 54 anni compiuti da due mesi, anche il rocker dalla pelle più dura cambia. Non solo nei capelli, ormai corti e brizzolati, ma anche nel look. I Camperos ai piedi ci sono sempre ma sono più morbidi, e la giacca di pelle ora è un comodo giubbino di jeans.
Eppure la musica dell’ex bracciante emiliano non invecchia, anzi. I suoi ultimi pezzi sono fatti per le nuove più che per le vecchie generazioni. Così quando canta Con la scusa del rock’n’roll, che fa rivoltare nella tomba Elvis Presley, trasmette le immagini degli inizi della sua carriera: lui con i capelli lunghi al vento, lui con le catene di metallo al collo, lui con gli stivali a punta. Perché Ligabue è un rocker anomalo. Ligabue non è Vasco, Ligabue è conciliante (lo disse lui stesso: «Sono nato cattocomunista»). Unisce, non divide. Fa tornare giovani gli over con Balliamo sul mondo e strizza l’occhio ai teen ager con le maglie legate sopra l’ombelico quando canta la più esistenziale Siamo chi siamo. Usa qualche parolaccia sì (altrimenti che rocker sarebbe?), ma resta un bravo ragazzo quando fa passare le immagini delle foto in bianco e nero dei suoi genitori. Qualcuno potrebbe definirlo addirittura “renziano” con i suoi Sono sempre i sogni a dare forma al mondo, Il meglio deve ancora venire (che lo stesso presidente del consiglio usò come slogan dopo la vittoria alle primarie del Pd) e il selfie con il pubblico alle spalle. Ma forse è Matteo Renzi, più piccolo di lui di 15 anni, a essere “ligabuiano”.
E c’è pure la denuncia contro la corruzione, sin dall’inizio dello show, quando sullo schermo appare la scritta “Expo, Mose e poi?”; e ancora i numeri enormi del costo della politica, che ti fanno venire voglia di un bel fact checking, e le frasi sul potere che logora enunciate da un pantheon che va da Jimi Hendrix all’evangelista Matteo, passando per Indro Montanelli. Ma la voglia di fact checking è già un ricordo quando intona Certe notti dal centro del prato. E il popolo i Ligabue, dai 15 ai 60 anni, dal primo al diciannovesimo disco, dimentica le cifre, si emoziona e torna ottimista. A loro Luciano da Correggio aveva chiesto di aiutarlo a rendere speciale la sua decima volta a San Siro, e loro lo hanno fatto. Certo, qualche over che sperava di cantare a squarciagola Leggero, abbracciato con la figlia 25enne, ci sarà rimasto un po’ male. Ma non si possono mica accontentare tutti.