Sono una delle band più amate-odiate delle scena indie italiana, con loro non ci sono vie di mezzo. Il nuovo disco, L’Italia peggiore, è uscito il 2 giugno, il giorno della festa della Repubblica, una data che non sembra scelta a caso. Nel manifesto del nuovo disco scrivono: «Questa è quella che molti considerano l’Italia peggiore. Il paese dei giovani sfaccendati, degli eterni ragazzi a casa di mamma, dei pericolosi ribelli con mire terroristiche, degli artisti che impietosiscono perché, anche loro, sono giovani disoccupati. Siamo noi l’Italia peggiore, è una questione di punti di vista». Li abbiamo intervistati per parlare del nostro Paese, di politica, di musica, di capitalismo, di una generazione smarrita e di molto altro.
Siete uno dei gruppi più amati-odiati della scena musicale italiana. Non riuscite a suscitare sentimenti d’indifferenza o vi detestano o vi adorano. Cosa ne pensate?
Che è una bella fortuna. Cerchiamo di metterci in gioco, a volte la spariamo grossa, a volte ci prendiamo e altre volte semplicemente le cose vanno da sole.
Perché L’Italia peggiore, volevate far luce sui lati negativi del nostro Paese?
Non siamo tipi da inchiesta. Come sempre cerchiamo di parlare delle cose che vediamo intorno, delle persone incontrate in questi due anni di tour e in questi mesi di pausa e scrittura. È un modo per raccontare uno strano paese in cui chi fa le cose per dare ancora più possibilità, più diversità, per cercare di combattere il malaffare e l’insipienza delle istituzioni, viene bollato come “Italia peggiore” da gentaglia del calibro di Brunetta. È un omaggio a chi, malgrado i Brunetta, fa dell’Italia un posto dove poter vivere con gioia non solo oggi, ma anche domani.
Mi raccontate come avete registrato questo disco?
La scrittura dei provini è iniziata a fine 2012, anche se in realtà non c’è un periodo preciso in cui è davvero ripartito tutto. Durante l’estate 2013 abbiamo avviato la pre-produzione e a ottobre siamo entrati in studio. È stato un lavoro abbastanza lungo per i nostri tempi, solitamente siamo più rapidi, più “buona questa”. Abbiamo cercato di curare al meglio possibile ogni canzone portandola esattamente dove volevamo e questo ha richiesto diversi mesi, tra soddisfazioni e giramenti di palle. Come per il precedente in studio, abbiamo lavorato con Francesco Brini dello Spectrum Studio (già collaboratore di Swayzak e grande producer) che ha curato l’estetica del suono e il mix, e con Matteo Romagnoli di Garrincha Dischi: con Matteo sono ormai tre anni di proficua collaborazione e di forte amicizia, è la persona che sa più di tutti guidare il casino che le nostre cinque teste producono.
C’eravamo tanto sbagliati è un singolo che non le manda certo a dire, come Mi sono rotto il cazzo, contenuta nell’album precedente, è un brano d’accusa, di protesta, un brano arrabbiato ma anche liberatorio, me lo raccontate?
È una canzone semplice, forse la più semplice che abbia mai scritto (dice Lodo). Rispetto a Mi sono rotto il cazzo, di cui è più un contraltare che un proseguimento, l’occhio è puntato non sul mondo, ma sul mio intimo. Su ciò che non sopporto perché fa parte di me e del mio percorso di crescita, della mia profonda inadeguatezza e dell’incapacità di leggere e accettare l’ipocrisia di molte convenzioni sociali. È la canzone di un disadattato che cerca una via semplice per comunicare con un mondo che costantemente gli sfugge e nella fuga gli ricorda le sue miserie. E quel disadattato sono io.
In Dozzinale riappare la figura di una donna superficiale che già avevamo visto in Quello che le donne dicono. È di nuovo una critica a una certa tipologia di donne?
No, le donne non c’entrano, sono i rapporti che sono una merda.
Ne La rivoluzione non passerà in tv cantate : «un giovane è come il Natale o lo è tutti i giorni oppure non lo è mai, scegli se invecchiare, perderti con stile o rubare a chi ti venderai». Questa canzone parla della difficoltà che la nostra generazione ha nel riuscire ad avere e immaginare un futuro?
Lo smarrimento credo sia un sentimento che ci appartiene, più per epoca che per generazione. Dentro questa grande confusione sembra di stare sospesi in un’eterna adolescenza, senza sbocchi su strade certe, non a caso la via della creatività, incerta per natura, in questa epoca ha salvato parecchie vite. Quale scelta vera ci danno? Io ne vedo tre. Invecchiare, rassegnarsi ad abbandonare sogni e ambizioni e accettare di essere un ingranaggio di un meccanismo in cui non si crede. Perdersi con stile: mandare affanculo il mondo e pure sé stessi, stentare, bere, non importarsene e scappare, forse facendosi anche del bene, ma solo per sé. E rubare a chi ti venderai: entrare nel grande gioco e provare a fare in modo di prendere tutto quello di buono che ti può dare, fino a farlo fallire. Non so cosa sia meglio, e non so esattamente dove sto io adesso.
Il pezzo Il sulografo e la principessa ballerina dice: « i padroni che esistono ancora e pure gli operai, i proletari, i tiranni, le stragi di stato». È davvero così?
Certo. E se la rosa non si chiamasse rosa non avrebbe forse lo stesso profumo? Cambiano i nomi, le sigle, gli orpelli, e spesso il padrone vero diventa impersonale e si chiama mercato. Eppure le dinamiche profonde dei rapporti di potere tra classi sociali sono nel solco del capitalismo novecentesco. Forse la cosa che più è cambiata è la repressione, non più solo militare e squadrista, ma anche forte sul piano dei mutamenti veloci della comunicazione e della propaganda. Il monologo sulla violenza in Sacco e Vanzetti è illuminante circa questa dinamica. Il capitalismo immateriale ha preso il posto di quello materiale e finiamo per essere schiavi non più della prepotenza e avidità dei padroni in carne e ossa, ma di meccanismi bancari e mercantili. Questo lo rende più pericoloso perché più incontrollabile.
Forse più tardi un mango adesso parla anche di come sono visti gli italiani all’estero?
Forse si, anche quello, ma soprattutto parla della felicità.
Questo è un grande paese è un pezzo che snocciola le assurdità del nostro paese che solo noi italiani possiamo capire, ma non c’è veramente nulla da salvare?
È già tanto se riusciamo a salvarci noi stessi.
Veramente la musica non è una cosa seria?
Se lo fosse non la faremmo e non la ascolteremmo. La frase va letta nel contesto della strofa «La musica ti salva, ti riduce in miseria, la musica ti uccide, la musica non è una cosa seria». Io non volevo fare questo nella vita e per ora mi capita così, e per quanto cerchi leggerezza e disinteresse verso questo mondo rimane sempre una spinta interiore che mi chiede di rischiare tutto e mettere in campo quello che ho. Quando sali su un palco è sempre questione di vita o di morte.
Il live di Turisti della democrazia era uno spettacolo fra il teatrale e il cabaret, con il nuovo live continuerete su questa linea?
Ci piace divertirci e far divertire quando siamo su un palco. Cerchiamo di mettere insieme tante cose, di ridere, di cantare e suonare, di affrontare anche argomenti più seri cercando di evitare di salire in cattedra, cerchiamo di dialogare con le persone che sono lì con noi. Cerchiamo di far stare bene chi viene ad un nostro concerto, che torni a casa più felice di quando è arrivato.
Che cosa vi siete portati dietro dopo il successo di Turisti della democrazia, che cosa vi è rimasto e com’è cambiato il vostro approccio alla musica?
Ci siamo portati dietro un’esperienza unica e irripetibile, persone e storie che ci hanno cambiato la vita, che ci hanno insegnato tanto su questo paese.
In Sono così indie prendevate in giro la scena della musica italiana e un certo modo di voler essere snob, esiste ancora questo atteggiamento da radical chic o è solo un luogo comune?
Mi prendevo in giro soprattutto io (dice Bebo) che ho scritto quel testo, che tutta quella roba l’ho fatta e vissuta. Non ho mai pensato a quel mondo come ad un mondo snob, anzi, era sinceramente partecipativo (magari eccedendo anche nel presenzialismo) ma era un mondo ricco di curiosità, in cui io ero uno sbarbino e attorno a me succedevano cose stupende e la mia passione per la musica era l’unica cosa che valesse la pena seguire e alimentare davvero. Ora non lo conosco così bene, ho mutato in buona parte i miei interessi, faccio altro. I concerti continuano ad esserci, i locali fanno ancora belle programmazioni, ma diciamo che non conosco ora cosa voglia dire frequentare quel mondo, magari ci incrociamo più facilmente a vedere Paerson Sound o al Club 2 Club.
Bologna era una città molto viva e all’avanguardia a livello musicale ma sembra che negli ultimi anni qualcosa si sia spento e che ci sia stata una migrazione verso Milano. Esiste ancora una scena musicale bolognese?
Bologna è ancora vivissima, È un porto nel quale tanta gente si incontra più o meno per caso e qui ancora nascono tante belle cose musicali. Poi in tanti vanno altrove per questo. È un porto, ma qui c’è lo studio di Garrincha Dischi — la nostra etichetta — e il Locomotiv club che contribuiscono a movimentare culturalmente la città. C’è la Fabbrica, la Trovarobato, radio come Città del Capo e Fujiko, l’Estragon, il Covo, band bolognesi acquisite come i Massimo Volume e giovani talenti di origini bolognesi.
L’Italia peggiore in tour, clicca qui per sapere tutte le date