Letti dalle sponde del Potomac i giornali italiani fanno ancor più impressione. Che cosa ha ottenuto Matteo Renzi dal vertice europeo? La Repubblica e il Corriere della Sera sono entrambi convinti della stessa cosa: lo scambio tra più riforme e più flessibilità, un gioco a somma positiva, win-win come dicono nei pensatoi di Washington. Può darsi che ci siano accordi presi dietro le quinte, parole segrete, giuramenti notturni con Angela Merkel, ma se non è così, allora le decisioni assunte finora andrebbero interpretate in modo un po’ diverso:
1) l’Italia rispetti le regole (tutte, dai parametri di Maastricht al six pack che realizza il fiscal compact);
2) l’Italia faccia le riforme strutturali che servono ad aumentare il prodotto potenziale grazie al quale il fiscal compact potrebbe diventare meno pesante. È una sequenza logico-politica; nessuna equazione, nessuno scambio. Tanto che la Ue non ha risposto alla richiesta formale del ministro dell’economia Pier Carlo Padoan di rinviare il pareggio del bilancio al 2016. O meglio, c’è una risposta tecnica non politica e, stando a quel che si sa, formalmente la data fatidica resta ancora il 2015. La Cancelliera, del resto, al di là della operazione simpatia, ha risposto a Renzi: «saremo più flessibili, come sempre».
Visto dal Potomac, il binomio flessibilità-riforme andrebbe sostituito con il trinomio crescita, deflazione, debito. La relazione in questo caso è meno crescita, più deflazione uguale più debito. Dove il punto davvero critico è il primo. l’Italia è da tempo a sviluppo zero virgola; non solo, la recessione ha abbattuto la stessa capacità di crescere, così che per recuperare lo stesso livello ante-crisi ci vorrebbe una accelerazione del tutto irrealistica. «Il debito non è la sola preoccupazione dei mercati, tutti sanno che l’Italia ha un insieme di problemi che la rendono un ambiente difficile se non ostile per il business e non orientato alla crescita», ci spiega Nicolas Veron considerato da Bloomberg uno dei 50 più influenti economisti, cofondatore di Bruegel, il think tank di Bruxelles insieme a Jean Pisani-Ferry e ora visiting Fellow al Petersen Intitute for International Economs di Washington.
Dunque, è chiaro che riforme orientate alla crescita, secondo la formula di rito, sono la via maestra da seguire. Ma per arrivare alla meta ci vorranno anni. Il Fondo monetario internazionale nel 2012 aveva calcolato che un mercato del lavoro flessibile, un esercizio della giustizia rapido e chiaro, una burocrazia snella ed efficiente, infrastrutture moderne, servizi orientati al cliente, un sistema finanziario aperto, banche più capitalizzate, una minore pressione fiscale, un costo del lavoro ridotto, ecc. ecc., insomma un’Italia diversa potrebbe aumentare il pil fino a 4-5 punti, innalzando davvero il prodotto potenziale. Ma in ogni caso i primi effetti si vedrebbero dopo due o tre anni. E intanto, aspettando Godot? Nel frattempo con crescita piatta e prezzi in discesa, il debito continua automaticamente a salire, imponendo altre manovre fiscali il cui impatto è negativo sul prodotto lordo.
Dalle rive del Potomac, insomma, sembrano chiare due cose: a) l’Italia non può forzare le regole Ue, b) ha bisogno di tempo e di spazio di manovra per portare a termine le riforme e farle funzionare. Ci vorrebbe uno stimolo, un kick alla congiuntura, con la garanzia che l’eventuale momentaneo peggioramento del deficit verrebbe compensato nello stesso anno fiscale. Facile a dirsi, ma nessuno ha una formula che funzioni. Negli Stati Uniti la maggior parte degli economisti è convinta che la crescita fiacca e la debole creazione di nuovi posti di lavoro dipenda dalla modestissima ripresa del settore immobiliare. La casa, sempre lei, dove tutto è cominciato sette anni fa e da dove tutto potrebbe ripartire. In Italia l’ultimo governo Berlusconi aveva provato a rilanciare un sostegno per ristrutturare il patrimonio edilizio, operazione necessaria anche dal punto di vista ambientale e dal sicuro impatto sulla crescita. Una scelta di buon senso naufragata di fronte alla dittatura del senso comune (la speculazione, la devastazione del territorio, le mani sulle città).
La debolezza della domanda aggregata sta diventando un problema in più. Mancano gli investimenti anche per colpa di imprenditori che hanno perso la voglia di rischiare e mancano i consumi perchè la gente ha pochi soldi in tasca e si tiene quelli che ha per timore del futuro. Gli economisti lo chiamano atteggiamento precauzionale e si sta verificando di nuovo con gli 80 euro in busta paga concessi da Renzi. Finora il comportamento collettivo dà ragione alle simulazioni compiute nell’autunno scorso da Fabrizio Saccomanni e Enrico Giovannini con l’aiuto della Banca d’Italia. Allora venne ipotizzato l’effetto sui consumi e sul pil di un aumento secco in busta paga e il risultato fu deludente, spingendo il governo Letta a scartare una misura con impatto negativo sui conti pubblici ed effetto zero sulla crescita. Saremo condannati così a fare i compiti a casa, sempre rimandati a settembre, pieni di debiti (scolastici) per colpa del debito (pubblico) e della sfiducia (privata).
La luna di miele renziana, intanto, comincia ad esaurire la sua spinta propulsiva. Le elezioni europee nonostante i campanelli d’allarme, hanno dato ancor più potere alla Germania che nomina il proprio candidato, il federalista ben temperato (e allineato) Jean-Claude Juncker. Le salmerie seguiranno e tra le salmerie, inutile farsi illusioni, c’è l’Italia, non per pregiudizio nordico, ma perchè non ha i numeri per contare davvero. Sulle sponde del Potomac, dove Machiavelli è non solo riverito, ma ancora studiato a fondo, sanne bene che l’astuzia dela golpe non serve se non si ha anche la forza del lione.