Paninari contro facebookiani, lo scontro generazionale

Paninari contro facebookiani, lo scontro generazionale

Giovani e vecchi non si sono mai capiti. È sempre stato così. La frase “i giovani di oggi non si accontentano mai, vogliono tutto e subito” potrebbe essere applicata a genitori (e ragazzi) di epoche diverse, dagli anni Sessanta a oggi. Il che rende bene l’idea su come le generazioni successive marcino più spedite rispetto a quelle precedenti. I giovani corrono, i vecchi – o almeno la maggior parte di loro – arrancano a stargli dietro. È accaduto per la generazione x e per la Net Generation, e accade ora anche per quella che Federico Capeci, direttore generale di Duepuntozero Research del gruppo DOXA, nel suo ultimo libro chiama #Generazione 2.0 (Franco Angeli): 8 milioni di ragazzi «che sono stati adolescenti in un momento preciso nella cronologia tecnologica, quando cioè blog, forum, social network, wiki e siti di condivisione video o foto hanno iniziato la loro inarrestabile crescita, che ancora oggi è in atto». Sono quelli che sono nati tra il 1984 e il 1996, «soggetti “inondati dal Web 2.0 in un momento fondamentale della propria crescita individuale e sociale, cioè tra l’adolescenza e gli anni dell’università». Ma anche soggetti “inondati” da una valanga di stereotipi, dalla mancanza di valori all’individualismo sfrenato, fino alla “generazione perduta” di montiana memoria. Sempre connessi, smartphone perenne in mano, abituati a condividere più o meno tutto e a non aspettare troppi minuti per ricevere una risposta. È quello che l’autore del libro definisce lo STILE, acronimo di Socialità, Trasparenza, Immediatezza, Libertà, Esperienza. Bastano anche solo pochi anni di distanza, e quelli che erano i paninari non riescono a capire i facebookiani.

Nelle 160 pagine del libro, Capeci ha raccolto dieci anni di studi e più di 15mila interviste. Dalle quali viene fuori che «i giovani degli adulti non se ne importano così tanto», dice l’autore. «L’approccio verso l’altro oggi è pragmatico, senza il vissuto che avevamo noi della generazione precedente, che dovevamo cambiare qualcosa e combattere contro qualcuno. I ragazzi hanno piena consapevolezza di vivere in un mondo che gli adulti non possono capire, e chiedono agli adulti di non inserirsi in questi spazi, soprattutto sui social, in maniera maleducata». Sono giovani che «hanno grande voglia di proporre, ma non di scontrarsi contro qualcuno».

E gli adulti? 
Non riescono proprio a comprenderli, utilizzano solo stereotipi sbagliati per classificarli. Perché se prima il divario generazionale c’era, tra quelli che avevano vissuto la guerra e quelli che non l’avevano vissuta, tra un prima e un dopo, oggi questo divario non c’è. Adesso i genitori pensano di essere moderni come i loro figli, vivono nel loro stesso mondo ma non lo sanno leggere. Fanno gli amici, sono su Facebook, ma spesso lo usano in modo sbagliato per controllare i propri figli. Negli Stati Uniti, ad esempio, è nato un sito dal titolo “Oh Crap. My Parents Joyned Facebook” per convincere i genitori ad abbandonare Facebook. Il messaggio è questo: «Congratulazioni! I tuoi genitori sono appena entrati su Facebook. La tua vita è ufficialmente finita». E c’è una bella differenza tra la vita come appare sui social e la vita come realmente è: non si può pensare che quella su Facebook sia la vera vita di un ragazzo. Stessa cosa vale per i datori di lavoro che prima di un colloquio guardano i profili Facebook e Twitter del candidato. Io dico loro: “Non dobbiamo chiedere ai ragazzi di alterare la propria identità digitale e magari di non postare le foto di una serata tra amici”. Ma bisogna saper dividere la vita professionale da quella privata. Quindi usare Linkedin in un modo, Facebook in un altro. Diciamo che i profili social oggi sono quello una volta era il colore della cravatta.

Dal libro #Generazione 2.0 di Federico Capeci (Franco Angeli)

Ma come si comporta un ragazzo della generazione 2.0 sul posto di lavoro?
Siamo di fronte alla prima generazione in assoluto che mette la meritocrazia come primo valore nella scelta delle aziende per cui lavorare. Non il posto fisso, né lo stipendio, né la carriera. Questo implica che i ragazzi debbano avere un ambito entro il quale misurarsi, ma attraverso progetti limitati e non a lungo termine. Non guardano troppo lontano, questo sì, perché la rete li ha abituati al qui e ora. E hanno anche ragione. Ma hanno bisogno di continui feedback e condivisione rispetto alle visioni e alle strategie delle aziende per le quali lavorano, così come sono abituati ai like o ai commenti su Facebook. Il commento, anche negativo, fa parte di questo modo di pensare. Cosa che richiede anche trasparenza da parte del datore di lavoro. 

Questo implica quindi una forma mentis diversa, plasmata sul Web 2.0, che i “vecchi” non hanno.
Il Web 2.0 ha comportato un cambio psicologico, sociale, culturale ma anche neurologico. La massima esplosione neuronale avviene durante l’adolescenza. L’esperienza dei social, dei blog, dei forum rimane per tutta la vita e cambia il modo di pensare e di agire, con una connotazione globale e collettiva. Non basta più il piumino Moncler per essere figo. Oggi è più difficile essere figo e influente sui social, dipende da come gli altri ti giudicano. Quelli della generazione 2.0 sono ragazzi che devono avere una solidità personale senza pari: si sperimentano in diverse situazioni, si rapportano con 400 amici, cambiano profilo più volte, si improvvisano giornalisti per rispondere a un blog. 

Eppure gli adulti dicono che i giovani d’oggi non abbiano grandi personalità, che siano privi di valori e ideali.
La gente dice falsità enormi. Ma bisogna guardare i dati. Si dice che i ragazzi non abbiano più vita sociale, che non escano più di casa e che passino tutta la loro giornata davanti al computer. Ma se poi prendi i dati Istat sul tempo speso dai ragazzi fuori casa, viene fuori che sono in linea o addirittura poco più alti di quelli delle generazioni precedenti. L’unica cosa che cambia è la fruizione di radio, tv e stampa su carta, perché per informarsi usano Internet. Che implica una fruizione diversa, non passiva, ma collegiale, interattiva, collettiva. Altra cosa falsa è che ci sia una connessione tra Internet e fenomeni come il bullismo. Non c’è una ricerca seria che dica che i fenomeni di bullismo sono aumentati nel tempo. Quella che è aumentata è la consapevolezza che il bullismo esista. Sono situazioni che sono sempre esistite e non sono connesse all’uso di Internet. Prima restavano nel giardino della scuola media, ora finiscono in un video postato sui social, e per questo sono più pervasive. 

La cosa bella è che su Internet non si è mai soli, c’è sempre qualcuno pronto a difenderti, la community può schierarsi dalla tua parte. E poi i fatti sono molto più evidenti, visibili, perché si viene taggati. Cosa che può aiutare polizia, genitori, parenti. Quanto ai valori, non è vero che non ne hanno: non ci sono grandi ideologie sì, ma ci sono impegni concreti, presenti, da attuare e condividere nella community. 

Emerge però una quasi mania della condivisione. Nel libro è scritto che i ragazzi 2.0 non hanno un diario segreto chiuso con il lucchetto, che condividono tutto. Ma è vero?
I ragazzi condividono moltissimo, ma solo qualcosa che diventa un’esperienza. Non i fatti. Fa parte del gioco e questo sfata l’idea che siano individualisti. Certo non hanno un manifesto come in passato, ma sono una collettività.

Il problema è che sono pochi. E alla fine nell’opinione pubblica i vecchi vincono su di loro.
Mai nella storia i giovani sono stati così pochi rispetto agli altri. Soprattutto in Italia, dove sono il 14% della popolazione. Per questo non interessano a nessuno. Negli Stati Uniti, la generazione dei Millennials conta 80 milioni di individui, e governi e aziende nutrono una sorta di ossessione per loro. Da noi i politici, di destra e di sinistra, li tirano fuori solo quando gli serve uno slogan. Certo l’immigrazione aiuta a ringiovanire la popolazione, ma anche i flussi migratori si stanno arrestando come vediamo dai dati. E aumentano i giovani che vanno all’estero. 

Però da Grillo a Renzi, con il coinvolgimento della Rete, c’è stato forse un tentativo di avvicinamento alla generazione 2.0. 
Dal punto di vista tecnico, non politico, mi sembrano solo tanti spottoni pubblicitari. Se lo S.T.I.L.E è un parametro di valutazione dei proclami politici, ancora non ci siamo. Dal punto di vista della Socialità non ci siamo. Dov’è la condivisione? È tutto top down. Di Trasparenza non ne parliamo nemmeno. Sull’Immediatezza, invece, questo sì, devo dire che sono stati fatti passi avanti. Per quanto riguarda la Libertà, si parla ancora di tessere, di stare con me o contro di me. Manca anche l’Esperienza, come si è potuto vedere dalla campagna elettorale appena finita. Non basta twittare o fare un blog per essere vicino ai giovani e rispettare lo S.T.I.L.E. Bisogna imparare a dialogare con loro.

Serve quindi una nuova semantica per capire i giovani.
Bisogna dare senso alle parole in un contesto diverso. Occorre rivedere le logiche. Parlare di amicizia come la intendiamo noi nell’era di Facebook non ha senso, così come è diverso il significato di condivisione. A genitori, fratelli maggiori, datori di lavoro serve prendere il dizionario in mano e imparare i nuovi contenuti di questa generazione plasmata sul Web 2.0.

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