Privatizzazioni all’italiana

Privatizzazioni all’italiana

Recentemente, il ministro Padoan è tornato sul tema privatizzazioni garantendo che «la cifra di 0,7 punti indicata nel Def è ancora valida». Il Documento di Economia e Finanza 2014 presentato dal Governo Renzi, aveva infatti alzato la stima dei proventi da privatizzazioni per gli anni 2014-17, rispetto alla Nota di aggiornamento al Def 2013 presentata dal precedente governo, stimando proventi annui pari appunto allo 0,7% del Pil (contro il precedente 0,5%), quindi circa 10 miliardi per anno. Il governo ha deciso di alzare l’asticella, indicando un obiettivo più ambizioso, mostrando maggiore coraggio, probabilmente spinto dalla necessità di centrare gli obiettivi di bilancio. Inutile nasconderlo: queste maggiori entrate sono fondamentali per poter rispettare i vincoli di riduzione del debito pubblico imposti dall’Europa.

Correttamente, il Def spiega che attraverso il programma di privatizzazioni si vuole non solo ridurre il debito pubblico (anche perché, a volere essere pignoli, la cessione di un bene pubblico va a ridurre il patrimonio pubblico così che il debito netto resta il medesimo), ma vuole anche ridurre la spesa improduttiva e i contributi statali oltre che recuperare efficienza nelle imprese interessate. Il Def elenca le principali società che si vuole – quantomeno in parte – privatizzare. Alcune a partecipazione diretta dello Stato, come Eni, St Microelectronics e Enav; altre, invece, a partecipazione indiretta tramite Cassa Depositi e Prestiti, come Sace, Fincantieri, Cdp Reti e Tag; altre, infine, a partecipazione indiretta tramite Ferrovie dello Stato, come Grandi Stazioni. Oltre alla cessione di quote di queste società, nel Def si fa riferimento, in termini un po’ più generici, alla cessione, non meno importante, di parte del patrimonio immobiliare pubblico.

Si inizierà con Poste Italiane e Enav. Il governo ha recentemente approvato due decreti che aprono la strada alla privatizzazione proprio di queste due società. Per Poste, l’asset più prezioso con un valore stimato di circa 10 miliardi, si pensa a una quotazione sul mercato attraverso una offerta pubblica di vendita di circa il 40 percento del capitale rivolta agli investitori, anche piccoli risparmiatori. Questa prima operazione dovrebbe portare nelle casse dello Stato circa 4 miliardi. Francesco Caio, da poco nominato amministratore delegato, sembra la persona giusta per portarla a  termine con successo. 

La strada scelta dal governo per Enav (di cui si vuole alienare il 49% del capitale) non è invece ancora del tutto chiara. Sarebbe opportuno che il governo segua quanto già deciso per Poste: strategia questa ben diversa da quella invece scelta nel 2013 dal governo Letta. Quest’ultimo, infatti, registrò circa 12 miliardi di proventi da privatizzazioni tramite la vendita a Cassa Depositi e Prestiti di Sace e parte di ENI. Peccato però che, con circa il 70% del capitale, lo Stato è il principale azionista di Cassa Depositi e Prestiti. Ecco perché, in quell’occasione, un editoriale di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera aveva come titolo “Privatizzare un po’ per finta.”

Due aspetti del piano di privatizzazioni descritto nel Def destano non poche preoccupazioni.

Il primo è legato alla stima dei ricavi dalle dismissioni. Dieci miliardi l’anno per quattro anni non sono molti, specialmente se rapportati all’intero patrimonio pubblico (o al debito, cha ammonta a più di 2000 miliardi!). Tuttavia, non sono neanche pochi, rispetto alla lista di società elencate nel Def. Basti pensare che del colosso Eni, che capitalizza un po’ meno di 70 miliardi, il Tesoro possiede oramai poco più del 4%, dopo averne ceduto circa il 26% a Cassa Depositi e Prestiti nel 2013. Il rischio è che, per raggiungere gli obiettivi prefissati, si faccia ricorso alla contabilità creativa, attraverso ad esempio la cessione di altre società pubbliche a Cassa Depositi e Prestiti, a valori non necessariamente di mercato. Si auspica che questa non sia la strategia scelta, perché anche se Cassa Depositi e Prestiti è formalmente al di fuori del perimetro del bilancio dello Stato, è pur vero che raccoglie il risparmio postale in regime di monopolio, e beneficia di una garanzia pubblica. Inoltre, sembra difficile che così si possa ottenere quel miglioramento di efficienza delle imprese alienate, obiettivo non secondario del programma di privatizzazione.

Il secondo aspetto che non convince è legato alla dismissione del patrimonio immobiliare, potenzialmente parte importante del programma di privatizzazioni per raggiungere l’obiettivo di 10 miliardi l’anno per quattro anni. Il DEF fornisce anche qualche numero in termini di obiettivi: “introiti non inferiori a 500 milioni l’anno.” Renzi eredita dai precedenti governi una società pubblica, Invimit, cui lo Stato dovrebbe trasferire proprietà immobiliari, anche di proprietà del Ministero della Difesa. Invimit è una Sgr (società di gestione del risparmio), costituita nel Maggio 2013, il cui mandato è molto ampio. Si legge per esempio nel suo sito web: “valorizzare il patrimonio anche in termini reddituali; realizzare investimenti diretti e indiretti per ampliare le economie di scala nella gestione di tale patrimonio; curare l’eventuale cessione dei beni tendendo conto delle condizioni del mercato.” I due corsivi sono i miei, e suonano come i primi campanelli di allarme. 

Naturalmente, Invimit dovrà raccogliere capitali sul mercato. E qui i dubbi aumentano. Chi saranno gli investitori? Risparmiatori interessati a massimizzare il proprio obiettivo di rischio-rendimento o, piuttosto, soggetti semi-pubblici con altri obiettivi? O, magari, gli uni e gli altri, con i primi potenzialmente ostaggio degli interessi dei secondi? Nel primo bilancio di Invimit, riferito all’anno 2013, si legge che i primi accordi sono con Inps e Inail. In particolare, Inail ha sottoscritto integralmente, per un investimento di 1400 milioni di euro, il primo Fondo di Fondi, i3 Core. Il rischio è che i lavoratori e i pensionati italiani, attraverso enti come Inps e Inail o le casse previdenziali, siano costretti ad acquisire le quote dei fondi gestiti da Invimit a cui lo Stato gira il suo patrimonio immobiliare, spesso improduttivo e costoso. Classica ricetta per disastri, dal sapore vagamente argentino. Per il momento, registriamo che il bilancio di Invimit contabilizza più di 700mila euro di perdite, con un costo del personale pari al 52% delle spese amministrative e un Presidente – Vincenzo Fortunato – e un amministratore delegato – Elisabetta Spitz – tra i dipendenti pubblici più pagati d’Italia e con un lungo cursus honorum in vari ministeri, agenzie e enti pubblici. E, giusto per fare dormire sonni ancora meno tranquilli ai lavoratori e pensionati italiani, nell’ultima relazione annuale della Covip (Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione) il Presidente – Rino Tarelli – ha invitato le casse di previdenza e i fondi pensione a investire molto più nell’economia reale italiana. Come dire, “a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

Per alienare il patrimonio immobiliare pubblico sarebbe invece preferibile seguire una procedura di mercato. Per esempio, si potrebbero individuare pacchetti di immobili da privatizzare, e indire aste aperte a investitori domestici e esteri, specializzati in questo genere di operazioni. Naturalmente, lo Stato e gli enti anche locali preposti dovrebbero prima stabilire con chiarezza quali i vincoli e le destinazioni d’uso di questi immobili. 

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