Quella del processo all’Italia dopo un’eliminazione dai Mondiali è pratica comune. Tanto quanto quella della salita sul carro del vincitore, in caso di successo. A volte fastidioso, spesso pretestuoso, il processo stavolta serve come momento di riflessione. Perché se esci per due volte di fila al primo turno di una Coppa del mondo, vuol dire che il problema del nostro pallone è strutturale e non solo tattico.
Basta imitazioni: serve un nostro modello di gioco
Cominciamo dalla questione tattica, però. La lezione imparata dalla gestione Prandelli è chiara: sappiamo solo imitare e non innovare. La “Tiki-Italia” voluta dal dimissionario ct della Nazionale ha rappresentato il tentativo di fare dell’Italia un modello di gioco che uscisse dalla speculazione del catenaccio-contropiede, per produrre qualità tramite il possesso palla. Un progetto naufragato nel giro di tre gare. Non solo perché questo tipo di gioco è ormai stato sdoganato dalla Spagna e quindi gli avversari sanno come arginarlo. Ma anche perché non siamo abituati a farlo, questo gioco: il possesso palla è un’arte che si coltiva fin dalla più tenera età. Ovvero dalle giovanili.
Lo avrete sentito dire tanto, nelle ultime ore. Forse perché non è una critica casuale. Riprendiamo il filo del discorso iniziato qualche riga più su. Il tiki-taka, dicevamo. Chi ha mai sentito parlare della Masia, la celebre scuola calcio del Barcellona, sa che lì il gioco del possesso palla, degli inserimenti e degli scambi in velocità viene insegnato fin da subito, così che quando un ragazzo arriva in prima squadra sa quello che deve fare. Certo, si può criticare questo modello dicendo che i giocatori in questo modo vengono fatti con lo stampino, ma almeno c’è una progettualità (termine caro al politichese di Giancarlo Abete: ne avremo anche per lui, tranquilli). La stessa progettualità che viene seguita nell’Ajax, tanto per citare la scuola olandese dal quale il tiki-taka è stato generato.
Qui non stiamo dicendo che il possesso palla è il migliore di tutti e che dobbiamo applicarlo per forza. Diciamo che bisogna rifondare il tutto, partendo dal basso. Smettendola di appigliarci al solito «tanto l’Italia nelle difficoltà si esalta sempre». Falso, negli ultimi otto anni al Mondiale non è stato così e le abbiamo prese da avversari che si sono evoluti, persino il Costarica. Un tempo avevamo i migliori difensori al mondo. Oggi usciamo da Brasile 2014 con tre gol subìti in altrettante gare. Questo perché nelle scuole calcio, come al solito procedendo per imitazione, i maestri insegnano la marcatura a zona anziché a uomo, come invece fecero per nostra fortuna a loro tempo gli insegnanti di Gentile e Cannavaro. In Europa invece si marca a zona: e allora facciamolo anche noi. Marcello Lippi, al Mondiale tedesco, lo aveva capito e sfruttato: guardate nel 2006 quanti gol abbiamo fatto su angolo/punizione. Ora i gol su calcio piazzato li prendiamo, vedi alla voce Godin.
Nel calcio moderno, lo si dice fino allo sfinimento, bisogna correre. Contro la Costarica eravamo già piantati come olmi. Il prossimo ct che ci guiderà (se ci qualificheremo) a Euro 2016 dovrà rivedere la preparazione: l’ultima è stata sbagliata, perché siamo arrivato senza benzina. Ma non è da escludere un fatto: i nostri giocatori – o meglio, quelli che giocano in Serie A – salvo alcuni casi non sono abituati a preparazioni pesanti, di quelle che prevedono carichi di lavoro importanti, per reggere una competizione lunga come può essere il Mondiale. Un problema che, evidentemente, nasce nei ritiri estivi e che si riflette sull’andamento fisico di tutta la stagione. Ormai a luglio non si fa più il “fondo” e quando si tratta di correre la benzina finisce presto. Gli stranieri che popolano la Premier League fanno la fortuna del Belgio, che corre e guarda caso fa gol sempre a fine partita; come deve essere un caso che il nostro “straniero” Marco Verratti sia stato il più dinamico contro l’Uruguay. Quanto ci è costata la preparazione? Tra ritiro e macchinari la Federazione ha speso 4 milioni 700mila euro. Per tre gare e poi via, a casa.
Riavvicinare la gente al calcio (e agli stadi)
Tema più importante di quello che sembra. I nostri giocatori lo avvertono, ma basta vedere gli spalti delle nostre gare ai Mondiali: c’è poco entusiasmo attorno alla Nazionale. Sembra quasi che ce ne ricordiamo ogni quattro anni, salvo poi essere sempre in minoranza negli stadi di Coppa del mondo rispetto ai tifosi avversari. Questione di cultura, certo. Ma anche di una progressiva disaffezione del pubblico, a cominciare dai club. La Federcalcio ha provato ad ovviare al calo di consenso, creando una sorta di “Club Italia” con tanto di gadget per chi va a vedere la Nazionale, sulla scia di quello che fanno altre federazioni. E come al solito, abbiamo imitato gli altri, mettendo una toppa anziché riformare. Partendo dalla dimensione nazionale, nel senso della Serie A. I litigi sui diritti tv non fanno altro che arricchire le nostre squadre (che devono però coprire tanti buchi di bilancio) a discapito del tifoso, costretto a vedersi la partita a casa piuttosto che andare in stadi vecchi e fatiscenti. Juventus a parte, nella massima serie lasciamo che sia la provincia (vedi alla voce Udinese) a sperimentare gli stadi di proprietà, per vedere l’effetto che fa. Le grandi non hanno capitali di investire: troppo rischioso.
Il calcio è un’azienda: bisogna investire per ottenere risultati
In Italia non abbiamo un modello che permetta al nostro pallone di fare soldi. A meno che non si tratti di vendere i nostri talenti all’estero (ancora Verratti), o recuperare soldi vendendo i marchi sportivi dei club a società fittizie, ottenendo così mutui dalle banche. Il calcio è un’azienda, non ce ne vogliano i romantici del pallone. Si può leggere Eduardo Galeano e allo stesso tempo fare attenzione ai bilanci. Bisogna investire e devono farlo tutti, dalla Federcalcio ai club. Si parla tanto della Germania e un motivo ci sarà. Dopo il fallimento a Euro 2000, la Federazione ha investito nei settori giovanili, mentre i club hanno speso per strutture dentro e fuori dal campo. I risultati li conoscete benissimo. Non tutto il modello tedesco è applicabile, per la diversità tra le economie italiana e tedesca. Eppure, non tutto è perduto. In Italia ci sono delle oasi felici. Tra i settori giovanili Torino, Atalanta, Fiorentina e Chievo spiccano. E poi c’è il modello della Serie B, che grazie al marketing associativo, alla piattaforma B Futura per gli stadi nuovi e al salary cap appare più organizzata (e bella: gli stadi registrano aumenti di presenze) della Serie A.
Basta con la politica (e le amicizie) nel pallone
E allora, perché non mettere Andrea Abodi a capo del calcio italiano? L’attuale numero uno della Lega di Serie B, che ha fatto della cadetteria un fiore all’occhiello del nostro calcio, è in corsa per la poltrona. Un nome nuovo, fresco, fuori dai gangli della politica. Ovvero, quella che di solito regola il turnover delle scrivanie più ambite in Italia. Stavolta potrebbe essere la volta buona. Giancarlo Abete ha fatto un passo indietro e in molti lo stanno lodando. Ma le dimissioni dell’ex deputato della Dc (che però manterrà gli incarichi in Uefa e Coni, ndr)sono un atto dovuto, che deve seguire ad ogni fallimento. L’11 agosto è convocato il consiglio federale, che ratificherà le dimissioni di Abete. Finirà così il mandato del fratello di Luigi, ex presidente di Confindustria e attuale numero uno di Bnl.
L’occasione agostana sarà quella di mettere un uomo di campo e non uno con molti contatti, alla Malagò per intenderci. Ma molto dipenderà dai presidenti di Serie A: loro la poltrona la vogliono dare a uno gradito. Cioè a uno con idee conservative piuttosto che innovative. Un concetto che a priori escluderebbe già Abodi, ma anche Francesco Ghirelli, che in Lega Pro sta portando avanti interessanti progetti di riforma. Ma Ghirelli ha rapporti poco sereni (diciamo così) con il presidente della vecchie Serie C, Mario Macalli. Lo stesso vale per Abodi, poco gradito inoltre a Galliani e Lotito. I quali invece vorrebbero Carlo Tavecchio, capo della Serie D con tante deleghe e amicizie. Un uomo del sistema insomma. Mica come Demetrio Albertini, vice presidente uscente della Figc e nome caldo delle ultime ore. Lui piace all’Aic, il sindacato dei calciatori, perché negli anni passati da numero due di Abete ha cercato di far passare riforme importanti attraverso il gesso federale, prima tra tutti quella delle squadre B (come accade già in Inghilterra) da usare come serbatoio per i giocatori poco usati in rosa. E poi vorrebbe far scendere la Serie A a 18 squadre, cosa che gli stessi presidenti di Lega non vogliono: perché avere meno club e più sani? Una follia. L’11 agosto sapremo se il calcio italiano, almeno lassù, avrà voglia di provare a cambiare verso o meno.