Rosi Mauro, la strega leghista riabilitata dai giudici

Rosi Mauro, la strega leghista riabilitata dai giudici

Era la plenipotenziaria della Lega Nord a trazione bossiana. Oggi resta fuori dai Palazzi romani, ha fondato il movimento politico “Siamo Gente Comune” e fa la volontaria per il Sindacato Padano. Ma la parabola di Rosi Mauro aggiunge un tassello tutt’altro che secondario a una carriera da prima donna. La procura di Milano ha chiesto per lei l’archiviazione dall’accusa di appropriazione indebita nell’ambito dell’inchiesta su The Family. Quella che, deflagrata nell’aprile 2012, inchiodava l’ex tesoriere Belsito e la famiglia Bossi con l’accusa di aver usato i soldi del finanziamento pubblico per scopi privati. Gli inquirenti ipotizzavano che coi denari di via Bellerio la Mauro avesse pagato anche una laurea per sé e per il caposcorta Pier Moscagiuro, il presunto «amante cantautore» inseguito dalla stampa. Lei si è difesa con le carte: ha giustificato i fondi al Sindacato Padano, un’auto venduta alla Lega e altre spese. Secondo i magistrati le tesi «sono accoglibili e comunque tali da rendere assai dubbia la solidità della progettazione accusatoria». Il processo è stato chiesto invece per Umberto Bossi, i figli Renzo e Riccardo e altre sei persone tra cui Belsito. «Non è irragionevole ritenere», si legge nella richiesta di archiviazione, che Belsito abbia utilizzato la Mauro e Moscagiuro «come pretesti per prelevare denaro per se stesso».

Sono passati due anni ma sembrano secoli. In quei giorni di ciclone politico-giudiziario Rosi Mauro diventa l’impresentabile per eccellenza, il volto oscuro della Lega che crolla sotto i colpi di Roma ladrona, capro espiatorio dei mali che rischiano di eliminare il Carroccio dalla scena politica. «La colpevole perfetta», scriveva Marianna Rizzini sul Foglio. Nel calderone finiscono vita privata e cariche pubbliche, illazioni e affetti. Ma la vicenda rappresenta pure il cavallo di Troia con cui i maroniani possono rottamare il vecchio modello familistico di governance, aprendo il cerchio magico e disarmando i pretoriani del Senatùr. Così Rosi Mauro sale sul banco degli imputati: processata dal partito e dall’opinione pubblica, “la Rosi”, come la chiamava Bossi, si ritrova con le spalle al muro. È arrivato il momento per bandire il suo ruolo di vice-capo esecutivo e fermare la scalata al vertice del Carroccio. La questione giudiziaria è solo il coperchio del vaso di Pandora che va aprendosi, coi colonnelli che l’aspettano al varco e le truppe di militanti inferociti dalle notizie di stampa.

La “Nera”, la “Strega”, la “Terrona”, la “Pasionaria”, la “Badante”. L’antologia di soprannomi che i nemici le avevano affibbiato è un corollario di invidie e correnti a via Bellerio. Dalla gabbia dorata di Gemonio alla gogna nel fango coi diamanti di Belsito. La Rosi viene scaricata a tempo di record dai colleghi, incalzata da Maroni e dai barbari sognanti che armati di ramazze si radunavano a Bergamo lanciando l’opa al partito: «Se non si dimette lei la cacceremo noi». Dopo anni di onorata gavetta occupa una poltrona d’onore, vicepresidente del Senato, carica istituzionale che molti ricordano per la votazione convulsa che lei officiò in occasione degli emendamenti al ddl Gelmini. Il triumvirato Calderoli-Dal Lago-Maroni le chiede un passo indietro minacciando sanzioni pesanti. «Non mi dimetto». Ma di fatto viene estromessa. Più volte Renato Schifani la sostituisce nei turni in cui toccherebbe a lei presiedere l’Aula, «ai limiti del mobbing», scriveva su queste pagine Marco Sarti. Espulsa alla velocità della luce dal partito con voto unanime del consiglio federale, resisteva alla vicepresidenza del Senato fino a fine aprile. E profetizzava nel deserto di ex amici: «Ho subito un’ingiustizia e se ne accorgeranno».  

La Rosi non voleva buttare vent’anni di Lega Nord, «migliaia di chilometri e comizi», le fabbriche e il porta a porta. A Milano la ricordano come una «militante attivissima» per poi ritrovarla «odiata e temuta» all’apice del Carroccio quando ormai collezionava nemici interni come figurine. Classe 1962, nata a San Pietro Vernotico (Brindisi) e cresciuta a Squinzano, provincia di Lecce. Dal Salento alla Padania arriva con un diploma di ragioniera in tasca («ero asina a scuola)». Quindi la gavetta: operaia e sindacalista Uil a 21 anni, il Senatùr la nota proprio ad un comizio sindacale e non la molla più. Così lei approda al sindacato autonomista lombardo e nel 1999 diventa segretario del Sindacato Padano, meglio conosciuto come SinPa. I detrattori lo definiscono «un bluff» eppure la Lega, rispondendo a un’interrogazione parlamentare del 2006, attribuiva al sindacato «350.000 iscritti» nonostante nelle intercettazioni si parlasse di 7.000, con la stessa Mauro che nel 2012 ammette: «Abbiamo poche migliaia di iscritti». Tra il valzer di numeri e i misteri sulla rappresentanza, il SinPa ottenne pure una poltrona al Cnel poi annullata col ricorso al Tar della Cgil. Nel frattempo fiumi di comunicati, dichiarazioni stampa e bandiere Sinpa sul pratone di Pontida. Ma anche i soldi che ogni anno arrivavano dalle casse della Lega: almeno 60mila euro nel 2009 e 100mila nel 2010.

Capelli neri, carattere ruvido, «sono troppo diretta». Nella sede milanese di via del Mare la Mauro era la padrona di casa e organizzava la Batelada, classica gita in battello sul lago Maggiore con gli iscritti a cui presenziava pure Bossi. Ma oltre al sindacato quella di Rosi, donna del Sud, è un’irresistibile ascesa ai vertici leghisti, partito maschio e nordico: consigliere comunale a Milano, consigliere regionale in Lombardia, poi nel 2008 senatrice della Repubblica e vicepresidente del Senato. Nel mezzo è anche commissario straordinario della Lega in Emilia e in Liguria. Sempre a fianco del Senatùr, dagli appuntamenti ufficiali allo svago. Celebri le foto in piscina a Ponte di Legno. Consigliera fidata e voce del capo, metodi spicci e piglio decisionista. «Per Bossi ha sacrificato la vita» dice chi l’ha seguita da vicino. Dopo la malattia del Senatùr è tra i pochissimi ad avere accesso alle stanze di Gemonio, sempre presente con l’assenso della moglie Manuela Marrone. Spiana la strada alla dinastia familiare, crea un cordone invalicabile intorno al leader generando invidie e rancori: «La terrona ha rovinato la Lega». 

Nel momento della bufera, quella in cui i ventilatori spargono fango e cifre in libertà, Rosi Mauro sbarca in tv scegliendo la Terza Camera di Porta a Porta: «Mi sono fatta violenza per venire in questa trasmissione». Tailleur blu e crocifisso d’oro al collo, lei che per anni aveva dribblato talk e taccuini sedeva sulla poltroncina bianca lasciando scorrere le lacrime. Un’autodifesa accorata ma combattente, ribatteva punto su punto: i soldi al sindacato, l’attività politica, il ruolo del caposcorta. Erano i giorni in cui si lamentava delle «mezze verità trasformate in trame oscure usate ad arte per costruire una realtà ambigua». Ma i suoi l’avevano già dimenticata, vuoi per il rilancio dell’immagine del partito, vuoi per l’opportunità di sovvertire i rapporti di forza nella Lega. Anche in Parlamento era un florilegio di chiacchiere e richieste di dimissioni. In sua difesa si immolava un pugno di donne in ordine sparso. Le deputate Flavia Perina (Fli) e Anna Paola Concia (Pd), ma pure le senatrici democratiche Franca Chiaromonte e Luciana Sbarbati: «Nel mirino era una donna e riceveva da parte dei mass media e della politica il solito trattamento, amanti, diamanti, storie equivoche. Gli avversari politici non si fanno fuori per via giudiziaria». 

Archiviata prima dal partito che dal tribunale, ora Rosi Mauro si sfoga con Panorama: «Ho passato due anni e due mesi in una gogna mediatica senza precedenti». Nessuno dalla nomenclatura ha alzato la cornetta per chiamarla dopo la notizia dell’archiviazione. Non c’è l’Umberto nè si fanno sentire i nuovi reggenti Maroni e Salvini, da sempre suoi avversari, ma nemmeno bossiani doc come gli ex capogruppo Reguzzoni e Bricolo. Con quest’ultimo il rapporto era talmente stretto che Rosi Mauro è madrina di sua figlia. Tutti spariti quando la regina è caduta. Raggiunto da Linkiesta, il segretario Matteo Salvini non si sbottona: «Ho scelto di non commentare le vicende giudiziarie di Bossi nè quella di Mauro», ma sul risvolto politico e sulla fine della gestione familistica del Carroccio spiega: «Fa parte del passato, grazie al cielo da quel momento è cambiato molto nella Lega Nord». 

Nessuno vuole sentir parlare di riabilitazione leghista per l’ex vicepresidente del Senato. Oggi il timone della nave padana punta altrove, si naviga col vento in poppa delle europee in un clima di pacificazione. E il nome di Rosi Mauro evoca la tempesta del 2012. Racconta una fonte vicina a via Bellerio: «Quest’archiviazione non cambia le carte in tavola. Il problema non è la responsabilità penale ma quella politica, la gestione della Lega di Rosi Mauro era un modello sbagliato e dannoso, un progetto familistico che allontanava tutti gli altri». Niente più Lega, anche se la Mauro fa sapere che «tanti militanti continuano a dirmi di non mollare». “Siamo Gente Comune” recita il suo movimento territoriale fondato «per vivere meglio ogni giorno» insieme ad Arianna Miotti, «una commercialista anche lei per vent’anni in Lega da dove se n’è andata per le schifezze che mi hanno fatto». Archiviare non significa dimenticare.

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