Russia, Iran, Egitto, Turchia: capitali della censura

Russia, Iran, Egitto, Turchia: capitali della censura

Uno Stato in cui il diritto di parola fosse appannaggio di pochi oligarchi, o di una aristocrazia (per quanto illuminata), e che non consentisse alla maggioranza del popolo (demos) d’esprimersi, non potrebbe definirsi democratico. Perché la democrazia – la Grecia insegna – si fonda su alcuni, solidi, pilastri: uguaglianza di fronte alla legge, il diritto di tutti i cittadini ad avere uguale influenza, e infine la libertà di espressione (isonomia, isocrazia e isegoria)

Oggi, dopo millenni da questa luminosa teorizzazione, e malgrado esperimenti politici d’ogni sorta, il diritto a esprimersi liberamente non è sempre garantito in molte democrazie. E soprattutto è fortemente osteggiato in quelle “ibride”, in cui si è avviato un processo di democratizzazione delle istituzioni o una serie di “aperture democratiche” senza che però ciò coincida con il raggiungimento di forme di organizzazioni istituzionali pienamente democratiche.

Bavagli, censure, licenziamenti, filtri, pressione economica, prigione preventiva: negli ultimi anni, a discapito di demagogiche politiche di riforme, e per respingere la spinta di movimenti di dissenso trasversali di critica della democrazia rappresentativa, le restrizioni sui social, sulla libertà di espressione e sulla libertà di stampa si sono intensificate. Dopo oltre due millenni l’isegoria dell’età di Pericle continua a spaventare. O forse è il concetto stesso di democrazia classica a essere considerato un ostacolo al potere politico? Russia, Turchia, Iran ed Egitto sono casi di democrazie ibride che con la libertà di espressione fanno a pugni

Russia: dalla “democrazia sovrana” al bavaglio dell’opposizione

La crisi ucraina ha rafforzato la Russia, che ora s’affaccia orgogliosa e forte anche del suo ruolo nello scacchiere regionale. Di fronte alle accuse mosse dall’Occidente  di “deficit di democrazia”, la Russia si rinchiude in sé stessa e imbavaglia l’opposizione. È a partire da queste basi che lo scorso Aprile il Parlamento russo (la Duma) ha cominciato a discutere una legge sull’antiterrorismo. In base a questa legge qualunque blog o pagina web o pagina Facebook che abbia più di 3.000 visualizzazioni al giorno verrà trattata alla stregua dei media tradizionali ovvero sarà iscritta nel registro dell’Autorità delle Comunicazioni (Roskomnadzor) con tutti gli estremi del proprietario (nome, cognome, indirizzo, e-mail etc).

La mossa è chiara: spaventare e sorvegliare chiunque voglia esprimere liberamente la propria opinione in rete. Il giro di vite sulla libertà d’espressione in Russia s’è infatti accentuato negli ultimi anni. Nel Dicembre del 2013 la Duma ha adottato una legge che permette di bloccare senza alcuna sentenza di tribunale siti internet o pagine Facebook che invitino a partecipare a manifestazioni non autorizzate. Un altro testo di legge già approvato nello stesso periodo mira a vietare la diffusione d’informazioni che gettino una luce negativa sulle forze armate o che minino l’autorità dello stato e si studia anche una misura per estendere lo statuto di “agenti al soldo di forze straniere” a tutti i media che percepiscano più del 25% dei finanziamenti da persone morali non russe.

Così s’è arrivati a licenziare Galina Timtchenko, redattrice capo del più importante sito d’informazione indipendente russo (Lenta.ru, 12 milioni di visitatori al mese) ed ora rischia grosso anche la TV Dojd, ultimo canale televisivo nazionale indipendente, già escluso da diverse piattaforme e minacciato più volte di chiusura, mentre i tre maggior siti di notizie dell’opposizione, assieme al popolare blog dell’attivista politico Alexei Navalny, sono stati già bloccati dall’autorità delle comunicazioni. La Russia ha addirittura creato un suo proprio wikipedia (www.ruxpert.ru) che fornisce una versione nazionalista, putiniana e giustificazionista della storia e delle vicende politiche della Russia.    

Turchia: giornalisti perseguitati, rete imbavagliata

Il premier turco Recep Tayyip Erdoğan non ha mai amato la libertà di espressione e in particolar modo i giornalisti. Non è un caso che da quando ha preso le redini del potere nel 2002 la Turchia è scivolata dal 99esimo al 154esimo posto per quanto riguarda il rispetto della libertà di stampa. Negli anni, il governo dell’Akp ha continuato indisturbato a zittire e imprigionare giornalisti, intellettuali, deputati dell’opposizione, avvocati, professori universitari, studenti, attivisti, musicisti, artisti. E in genere chiunque, attraverso la propria attività, muovesse una minima critica all’operato del governo.

Le proteste di Gezi Parki non hanno migliorato la situazione anzi hanno provocato una recrudescenza del giro di vite liberticida. Il rapporto congiunto della Confederazione dei Sindacati Progressisti di Turchia (DİSK) e del Sindacato dei Giornalisti turchi (Tgs) parla chiaro: l’oppressione governativa che s’è abbattuta sul movimento di contestazione legato a Gezi Park ha provocato il licenziamento di ben 94 giornalisti mentre altri 37 sono stati obbligati a dimettersi. Nel 2014, sono 319 i giornalisti che si sono ritrovati a spasso per diversi motivi legati alle proprie attività di giornalismo. Dopo la chiusura del quotidiano Karsi Gazete e del canale televisivo Arti1, anche il quotidiano nazionale SoL (organo di stampa del Partito Comunista di Turchia) ha sospeso la sua pubblicazione cartacea e così pure il quotidiano nazionale Radikal che oggi sopravvive solo online.

In periodo pre-elettorale l’Alto consiglio della radio e della televisione (RTÜK), nella solerzia di voler far rispettare una specie di tregua elettorale, ha effettuato addirittura 176 sospensioni di 22 media. Twitter e YouTube hanno subito pesanti interventi in questi due ultimi anni. Il 27 Marzo scorso le autorità hanno bloccato di nuovo l’accesso a YouTube in seguito alla diffusione di una serie di intercettazioni legate ad affari di corruzione in cui si trovavano coinvolti diversi membri del governo (tra i quali lo stesso premier).

Dopo un ricorso presentato alla Corte Costituzionale quest’ultima però ha deciso che impedire l’accesso a You Tube è una chiara violazione della libertà di espressione garantita dall’articolo 26 della Costituzione della Repubblica turca. Emblematico il caso di censura in merito agli ostaggi turchi nelle mani dei combattenti dell’ISIS in Iraq: 48 ore dopo le lamentale del premier, la Nona Corte Penale di Ankara ha vietato la pubblicazione di qualunque informazione  sugli ostaggi. Il paese preso a modello da diversi paesi del mondo arabo-musulmano come esempio di connubio perfetto di democrazia e tradizione islamica continua a negare un diritto fondamentale: quello del diritto alla (libera) parola. Ovvero uno dei pilastri sui quali si basa una sana democrazia.

Iran: con il conservatore moderato Rohani libertà di stampa non migliora

In Iran qualcosa sembrava essersi mosso con l’arrivo alla presidenza della Repubblica Islamica d’Iran del conservatore moderato Hassan Rohani. Un anno dopo la sua elezione si deve constatare che la situazione in merito alla libertà di stampa non è affatto migliorata nonostante le aperture democratiche e le promesse di riforme annunciate a inizio mandato. L’Iran, classificato 173esimo su 180 paesi in quanto a rispetto della libertà di stampa, resta infatti una delle cinque più grandi prigioni al mondo per giornalisti (attualmente in prigione ce ne sono 58 tra giornalisti, bloggers e netizens). Diversi media sono stati sospesi provvisoriamente o definitivamente chiusi. Gli oppositori politici, all’indomani della contestata rielezione di Ahmadinejad, sono stati arrestati nel 2009 ed alcuni condannati a pene che vanno fino a venti anni di prigione. Un caso particolare è quello della giornalista e cineasta Mahaz Mohammadi, recentemente spedita nella prigione di Evin per scontare una pena di cinque anni dopo un processo arbitrario e nonostante le sue precarie condizioni di salute. Le aperture e le promesse democratiche di Rohani non hanno sortito alcun effetto sul versante della libertà di espressione. 

Egitto: dopo destituzione Morsi svolta liberticida 

Nonostante l’adozione di una Costituzione che garantisce libertà d’espressione e di opinione e che difende espressamente la libertà di stampa e l’indipendenza dei media, il governo nato dalla destituzione del presidente Morsi nel Luglio dell’anno scorso sembra intenzionato a perseguire sistematicamente tutti i media che si trovino nell’orbita dei Fratelli Musulmani. Da questo punto, la televisione satellitare Al-Jazeera è diventata un obiettivo prioritario e le cose sono peggiorate dal dicembre scorso quando il governo cioè ha deciso di inserire l’associazione dei Fratelli Musulmani nella lista delle organizzazioni terroriste.

Questo è il quadro teorico che fa da cornice alla condanna caduta come una mannaia lunedi 23 Giugno scorso sui tre giornalisti di Al-Jazeera Peter Greste, Mohamed Adel Fahmy e Baher Moahammed. Mohamed Adel Fahmy, responsabile della redazione di Al-Jazeera al Cairo e Peter Greste, australiano, sono in prigione da più di 160 giorni e sono stati condannati a 7 anni di prigione. Alcuni giornalisti, tra cui due britannici ed un’olandese, sono stati condannati in contumacia a 10 anni. Pene dunque pesantissime, sproporzionate rispetto alle attività compiute, che gettano una luce inquietante sulla società e le istituzioni del dopo-Morsi. Tutti sono accusati di appartenere a un’organizzazione terrorista e di aver diffuso notizie false per sostenere la confraternita. Anche qui, come è accaduto negli ultimi anni in Turchia con l’iniqua legge sull’antiterrorismo, i giornalisti vengono considerati alla stregua di terroristi e per questo motivo vengono messi nelle condizioni di non nuocere all’establishment. Licenziati, arrestati o addirittura uccisi come afferma il rapporto del CPJ (Committee to protect journalists) che enumera 6 giornalisti e 65 arrestati nel dopo-Morsi. 

Rivoluzioni, cambi di regime, movimenti di contestazione, “democrazie esportate” (si pensi all’Iraq di al-Maliki che mentre cade sotto i colpi degli jihadisti dell’Isis si permette anche il lusso di bloccare YouTube, Facebook e Twitter) e altri tipi di “transizioni democratiche” non cancellano un dato fondamentale: il diritto alla parola, la libertà d’espressione, non viene garantito ma è apertamente osteggiato. Paura di perdere consenso, o il controllo sugli organi di informazione, anche se in società “liquide” le informazioni riescono comunque a passare nonostante i diversi tentativi di imbavagliare la rete e i social. Dopo migliaia di anni dalle teorizzazioni greche la parola resta ancora lo strumento politico più potente (e odiato)

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