Saliscendi obbligazionario, buone notizie per l’Italia

Saliscendi obbligazionario, buone notizie per l’Italia

Abbiamo assistito in tutti i Paesi emersi a una discesa spettacolare dei rendimenti delle obbligazioni intanto che cresceva il debito pubblico. Si hanno diverse spiegazioni del fenomeno. E la previsione di massima sostiene che in futuro i rendimenti saliranno, ma di poco. Le banche centrali, intanto, praticano e praticheranno delle politiche ultra espansive. Nonostante tutto sembri sotto controllo, c’è chi si preoccupa per quel che potrebbe accadere anche nel caso di un modesto rialzo dei rendimenti sul debito pubblico.

Sale il debito, sale il prezzo

Nei Paesi sviluppati a partire dai minimi del rapporto fra debito pubblico (lordo) e Pil della metà degli anni Settanta – un 20 per cento come media – si è arrivati, nel 2014, al 120 per cento come media. Un rapporto superiore al 100 per cento è quello che si aveva alla fine della Seconda Guerra mondiale. Il debito di oggi non è però un debito di guerra – ciò che è ovvio – e ha altre origini – essenzialmente legate al finanziamento dello Stato sociale.

Una crescita di questo tenore avrebbe dovuto alzare il rendimento richiesto per sottoscrivere il debito pubblico. Invece, i rendimenti dagli anni Ottanta sono sempre scesi e, se depuriamo i rendimenti nominali dall’inflazione, oggi sono intorno allo zero.

Chi si meraviglia per questo andamento ha seguito un ragionamento che – a posteriori – si è rivelato meccanico. Un’attività finanziaria è domandata in misura crescente solo se acquista spazio a danno delle altre. Ciò avviene a prezzi decrescenti. Mangerò meno mele e più pere se il prezzo delle pere scende relativamente a quello delle mele. Nel caso delle obbligazioni sono i prezzi decrescenti, data la cedola che è fissa, che generano i rendimenti crescenti necessari per attrarre gli investitori.

Cerchiamo una spiegazione

Qui si scatena la ricerca (1) intorno alle ragioni per cui un ammontare sempre maggiore di un’attività finanziaria – il debito pubblico – è avvenuta a prezzi crescenti – ossia a rendimenti decrescenti. Si hanno allo stato tre spiegazioni: 1) gli investimenti di oggi costano meno – un sistema informatico costa meno di un’acciaieria – perciò c’è meno domanda per investimenti, e la minor domanda di risparmio finisce nel debito pubblico, contribuendo ad abbassare i rendimenti sul debito di quest’ultimo; 2) i Paesi emergenti risparmiano più di quanto investono, con la differenza che finisce nei Paesi avanzati, con ciò contribuendo a tener schiacciati i rendimenti sul debito pubblico; 3) dopo due importanti crack delle azioni – come quello del 2000 e quello del 2009 – si preferiscono le obbligazioni, che non hanno mai (o non ancora) prodotto delle perdite.

Le previsioni

Che cosa mai possiamo aspettarci in futuro? I rendimenti a lungo termine (sempre reali, ossia senza inflazione) dovrebbero – secondo il Fondo monetario internazionale – salire dal livello corrente, che è intorno allo zero, fino a un massimo del 2 per cento e un minimo dello 0,5 per cento intorno al 2018, ossia i rendimenti reali decennali – come media della previsione – dovrebbero tendere all’1,25 per cento (2).

La ragione dell’ascesa (modesta) dei rendimenti (reali) dovrebbe essere il frutto: 1) di un minor tasso di risparmio dei Paesi emergenti, 2) unito alla fine delle politiche monetarie ultra espansive nei Paesi emersi, e 3) di una leggera ripresa degli investimenti, che domandano risparmio, e dunque ne alzano il prezzo. Il maggior tasso d’interesse pagato dai privati per poter finanziare un volume maggiore di investimenti in macchinari e impianti, spinge (modestamente) in su il rendimento dei titoli del Tesoro.

Se il rendimento reale medio è – secondo i conti del Fondo monetario – pari all’1,25 per cento, e se aggiungiamo a questo l’inflazione obiettivo dei Paesi sviluppati, che è del 2 per cento, ecco che abbiamo un rendimento decennale nominale fra il 3 per cento e il 3,5 per cento. Un’ottima notizia per i Paesi indebitati – ossia in misura diversa tutti –, ma è una buona notizia soprattutto per chi deve aggiustare di più il proprio bilancio pubblico – come l’Italia.

Intanto continua l’espansione monetaria

Si è tenuta mercoledì scorso la riunione della Banca centrale degli Stati Uniti. Al termine della quale è stato comunicato che i tassi a breve restano dove sono e che l’acquisto di obbligazioni del Tesoro e private sarà ulteriormente ridotto. Le previsioni della Banca centrale statunitense sono di una forte crescita dell’economia reale nella seconda parte dell’anno. Il risultato finale non sarà però spettacolare, perché nel primo trimestre si è avuta una decrescita. Anche se si avrà di nuovo crescita non si avrà – secondo la banca centrale – inflazione né effettiva né attesa. Perciò non si ha motivo per alzare i tassi prima del previsto. Gli acquisti di obbligazioni – il Quantitative Easing 3 – dovrebbero terminare con quest’anno.

Intanto che si attendeva la fine della riunione della Banca centrale degli Stati Uniti è uscita – sempre mercoledì – l’indiscrezione che il Fondo monetario internazionale suggerirà alla banca centrale europea una politica ancora più aggressiva per contenere gli effetti negativi della modesta crescita dei prezzi (gli effetti negativi della minor inflazione dunque, la deflazione essendo la flessione del livello dei prezzi). Per ottenere questo risultato il Fondo monetario suggerisce di comprare titoli del debito pubblico, come hanno fatto gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ed il Giappone. La decisione della Banca centrale europea è di acquistare titoli privati, ma non quelli del Tesoro. Se ciò avvenisse, si avrebbe un flusso di acquisti dei titoli dei Paesi “mal messi”. E qui emergerebbe lo scetticismo dei Paesi detti “ben messi”, che non vogliono che la Banca centrale finanzi chi non ha “fatto i compiti a casa”.

Si avrà così una politica monetaria sul lato dei tassi praticati dalle banche centrali degli Stati Uniti e dell’area euro ancora molto espansiva, mentre quella espansiva sul lato dell’acquisto di titoli del Tesoro e privati da parte della banca centrale statunitense dovrebbe terminare, mentre l’acquisto di titoli privati da parte della banca centrale europea dovrebbe iniziare. Insomma i mercati continueranno a ricevere dalla “mano pubblica” liquidità in misura copiosa. Più precisamente, riceveranno prestiti a tassi pressoché nulli, e riceveranno liquidità in cambio di titoli.

Effetti collaterali

Tutto sembra sotto controllo, ma c’è chi si preoccupa. È in corso una discussione riservata, che coinvolge la Banca centrale degli Stati Uniti e l’autorità di controllo dei mercati finanziari, sull’opportunità di introdurre una commissione per l’uscita dai fondi obbligazionari (3). Il timore che prima o poi la politica monetaria diventi meno lasca è all’origine di questa discussione. Se salissero i tassi praticati dalla banca centrale e se quest’ultima smettesse di comprare titoli di Stato, ecco che avremmo un rialzo di tutti rendimenti.

Se questo avvenisse, avremmo degli effetti sui prezzi delle obbligazioni emesse. Per esempio, un titolo della durata finanziaria di dieci anni fletterebbe del 10 per cento, se i rendimenti passassero dal 2,5 per cento di oggi al 3,5 per cento. I sottoscrittori di fondi, temendo di incorrere in una perdita di questo tenore, potrebbero vendere e, se tutti lo facessero, i prezzi verrebbero giù.

Proprio come accadrebbe alle banche che hanno sul lato passivo i depositi a vista e su quello attivo impieghi difficilmente liquidabili. Se i depositi sono ritirati, la banca non ha modo di liquidarli, a meno di indebitarsi con altre banche. Le quote dei fondi comuni sono liquidabili quasi come i depositi a vista, mentre le attività di un fondo non sono liquidabili a prezzi invariati, se tutti si mettono a vendere.

L’idea è perciò quella di mettere sabbia negli ingranaggi, e la sabbia sarebbe la commissione in uscita. Naturalmente c’è chi è a favore della “sabbia” – i fondi che sono esposti sulle obbligazioni – e chi è contro – i fondi che sono pronti a comprare quando il mercato delle obbligazioni finisse con il registrare una caduta dei prezzi.

(1) http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/01/pdf/text.pdf

(2) http://blogs.ft.com/gavyndavies/2014/04/06/the-future-for-real-interest-rates/

(3) http://www.ft.com/intl/cms/s/0/290ed010-f567-11e3-91a8-00144feabdc0.html?siteedition=intl#axzz34j4byD7L

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