Un tempo era considerato solo un lavoro per giovanissimi alle prese con il primo impiego, ma oggi dietro le cuffie dei call center italiani ci sono anche molti 35-40enni, magari con figli e famiglie. Nuovi e vecchi impiegati di uno dei lavori più bistrattati del nostro Paese: circa 80mila in tutto tra dipendenti e collaboratori che chiamano e rispondono ai telefoni delle 190 aziende italiane più rilevanti (in tutto sono 2.270), delle quali solo dieci rappresentano il 67% del settore. Le voci dei call center si sono date appuntamento in piazza della Repubblica a Roma per il 4 giugno per chiedere il miglioramento delle condizioni di lavoro e per manifestare contro la delocalizzazione sempre più frequente verso Paesi dove il lavoro costa di meno. Perché se il lavoro nei call center c’è (basta guardare gli annunci), è anche vero che è pagato sempre meno. Per un giorno, i servizi di assistenza clienti e i numeri verdi potrebbero squillare a vuoto.
A guardare i dati, il settore non sembra andare male. Solo nel 2014 ha raggiunto un valore di oltre un miliardo di euro, con un aumento del 5,6% rispetto al 2013. Dietro questi numeri c’è una galassia di piccole imprese oltre che servizi per le aziende e la pubblica amministrazione, dall’inbound (servizi informativi, customer care, gestione dei numeri verdi ecc.) all’outbound (telemarketing, ricerche di mercato, sondaggi ecc.). Negli anni, quasi la metà delle aziende si è concentrata al Sud (47%), dove i call center rappresentano a oggi uno dei pochi bacini occupazionali, seguito dal Nord (39%) e dal Centro (14%). E alla galassia dei servizi corrisponde una galassia di condizioni lavorative diverse, soprattutto in assenza di una politica industriale di settore e di un sistema degli incentivi a termine che creano aziende non interessate all’occupazione effettiva ma al proprio guadagno.
Settore che, nella fase iniziale, si era sviluppato senza regole condivise. Dal 2006 è cominciato prima un processo di omogeneizzazione del comparto inbound con la trasformazione di 26mila collaboratori a progetto in dipendenti a tempo indeterminato e l’individuazione di un contratto unico. La firma del contratto nazionale per i collaboratori a progetto dell’outbound è arrivata invece solo nel 2013, stabilendo un compenso minimo garantito con la possibilità di incrementare i guadagni con il raggiungimento di obiettivi prefissati. I contratti è a tempo indeterminato, invece, che oggi sono il 60%, fanno riferimento al contratto nazionale delle telecomunicazioni.
Ma la congiuntura economica ha messo in discussione la crescita sana del settore. Sono aumentate le crisi aziendali. E davanti alla richiesta di una riduzione dei prezzi da parte dei committenti, le imprese hanno risposto prima con interventi sui processi di lavoro, poi con lo sviluppo di nuove tecnologie e in alcuni casi con la delocalizzazione. Quante volte vi è capitato che dalla vostra compagnia telefonica risponda una ragazza che parla a fatica l’italiano? L’offshoring ha riguardato circa il 10% del mercato italiano dei call center, soprattutto in Paesi non europei. «Le attività prevalentemente delocalizzate», spiegano da Assocontact, organo di Confindustria a rappresentanza delle imprese che operano nel settore dei call center, «sono quelle di outbound e backoffice, ma sono in crescita anche le attività di customer care».
Anche le stesse gare pubbliche sembrano soluzioni al ribasso. Assocontact lo scorso aprile ha invitato a boicottare la gara per l’appalto del call center 020202 del Comune di Milano. Contro il bando di gara di Palazzo Marino l’associazione ha anche presentato ricorso. «È stata prevista una remunerazione di 45 centesimi per minuto lavorato, che corrisponde a 18 euro per unità di personale, a fronte di un costo per l’azienda che raggiunge i 17,79 euro», spiega il presidente di Assocontact Umberto Costamagna. «Ritengo un grave errore continuare a non considerare che i prezzi, non solo quelli delle gare pubbliche, devono tenere conto dei costi reali del personale e non degli eventuali sgravi che le imprese possono ottenere. Il rischio è l’avvitamento pericoloso in una spirale al ribasso che sicuramente non aiuta né il settore nel suo complesso né le nostre imprese».
Proprio a fine maggio del 2014 è stato costituito l’Osservatorio nazionale dei call center ed è stato istituito un tavolo di lavoro al ministero dello Sviluppo economico per affrontare i problemi dei nostri call center. Tra le questioni più calde, c’è la sopravvivenza di Almaviva Contact, che impiega circa 10mila dipendenti, di cui 6mila solo in Sicilia, e che da anni arranca tra contratti di solidarietà e spostamenti del personale. Una delle richieste in gioco è quella dell’applicazione al settore dell’articolo 2112 del codice civile, che serve a garantire che alla fine di una commessa i posti di lavoro siano mantenuti nel passaggio dall’azienda uscente a quella subentrante.
Cgil, Cisl e Uil, che hanno organizzato lo sciopero del 4 giugno, nei giorni precedenti hanno invitato tutti i lavoratori a postare i propri selfie, con un cartello in mano “Anche io sarò in piazza il 4 giugno”. Oltre alle foto, sui social è circolato anche un video che ritrae una lavoratrice a cui tolgono la sedia, i computer e la scrivania. «Per dare il senso di come si sentono gli operatori oggi». Con i lavoratori in piazza ci saranno molte delle aziende del settore, anche loro a rischio sopravvivenza.