Prima il picco di consensi alle elezioni europee dello scorso maggio. Poi la conferma ai ballottaggi delle amministrative. Infine gli applausi all’assemblea congiunta delle territoriali di Confindustria Vicenza e Verona.
Bastano questi tre indizi per provare che il Partito democratico ha fatto finalmente breccia, convincendo anche fette di popolazione e aree territoriali tradizionalmente più vicine al centro-destra? Penso proprio di no.
Per alcuni il successo di Renzi è la prova che gli italiani vogliono il riformismo oltre ogni ideologia. Per altri, gli italiani hanno dato fiducia al leader del Partito democratico (non al partito in sé) e votato contro il disfattismo: adesso vogliono vedere i risultati delle riforme.
In altre parole i Democrats devono dimostrarsi all’altezza delle attese che Renzi ha generato. Limitarsi a questo però, vorrebbe dire giocare al ribasso e mettersi al livello delle proposte tecnico-politiche che negli ultimi anni si sono candidate per portarci fuori dal pantano in cui eravamo caduti: tutte sono nate con il supporto di autentici outsider del mondo dell’industria, della finanza, della ricerca, del giornalismo; nessuna è riuscita ad andare oltre l’emergenza. D’altro canto, quando si è sull’orlo del baratro si dà volentieri il voto a chi si presenta o viene acclamato come problem solver (più per disperazione che per convinzione, per la verità), ma scampato il pericolo sarebbe deprimente continuare a farlo (come del resto hanno dimostrato gli elettori italiani a maggio).
Per consolidare il nuovo consenso, il Partito democratico deve diventare la casa di tutti i progressisti contemporanei. È il momento di prendere alcuni dei valori fondanti nella tradizione progressista e, anche con scelte coraggiose e dirompenti, sviluppare una convincente idea di futuro: la «tutela del lavoro», da ripensare nella società del rischio, e la «promozione dei diritti sociali», da ampliare fino a includere il tema emergente delle opportunità.
Ci piaccia o no, il rischio è un tratto tipico dell’epoca in cui viviamo. Lo sa bene il “Lavoro protagonista del Novecento”, tutelato, uniforme e risk free che resiste solo nelle riserve della pubblica amministrazione. Dalle altre parti ha ceduto il passo ai “lavori del nuovo Millennio”, definiti al minuscolo perché privati delle tutele acquisite e consolidate, e al plurale per le incerte identità indotte dalla flessibilità. Se questo è lo scenario, il Partito democratico deve coraggiosamente sdoganare l’imprenditorialità. Il rischio, da sempre considerato elemento distintivo del solo mestiere di imprenditore (che una volta veniva chiamato capitalista), in realtà è diventato esperienza comune in molti altri lavori più o meno stabili, compreso quello operaio, perché a tutti i livelli si richiede di adottare comportamenti imprenditoriali (e quindi di assumersi una parte di rischio).
Per molti anni, la promozione dei diritti sociali si è tradotta in politiche redistribuitive ispirate a sani principi di solidarietà: rimuovere gli ostacoli legati alle origini sociali, dare a tutti la possibilità di essere alla pari ai nastri di partenza, costruire una società più giusta nella quale i diversi potessero diventare uguali. Sarà coraggioso un progetto di futuro in cui promuovere i diritti sociali vuol dire anche creare le condizioni affinché gli uguali possano diventare diversi, esprimendo il meglio di sé stessi e liberando il proprio talento (anche imprenditoriale).
Su entrambi i fronti, al Partito democratico si richiede un deciso cambio di passo.
Sarà dirompente costruire un futuro dove alla tutela dei lavoratori si affianca sempre di più la valorizzazione del lavoro: la prima si ottiene con le azioni in difesa dell’occupazione e dei posti di lavoro; la seconda si sviluppa con la promozione dell’occupabilità, che è il solo modo per poter cogliere le opportunità che il mercato offre o per generarne di nuove.
Sarà dirompente proporre un sistema di welfare in cui non esistono più quegli ammortizzatori sociali così garantiti ed estesi nel tempo da eliminare il concetto di rischio del posto di lavoro e da rendere inutile la ricerca attiva di un nuovo impiego.
Sarà dirompente elaborare un’idea di futuro in cui ogni singolo cittadino possa essere protagonista attivo del proprio destino. Non è difficile.
Applicato ai percorsi professionali, vuol dire assegnare a ogni lavoratore una “dote per la riqualificazione professionale”, da spendere per realizzare o correggere il proprio progetto di vita e di lavoro, lasciando alle istituzioni il solo compito di tracciare le traiettorie dello sviluppo economico e sociale e di creare le condizioni affinché le intelligenze e le aspirazioni di chi lavora (imprenditori inclusi) possano esprimersi al meglio.
Applicato ai percorsi formativi, vuol dire assegnare una “dote individuale per l’Università” a ogni ventenne, indipendente dal reddito della famiglia. Sarebbe come prendere non due, ma tre piccioni con una fava: daremmo ai nostri figli la concreta opportunità di scegliere l’Ateneo che meglio soddisfa le loro esigenze; genereremmo d’emblée competizione virtuosa e differenziazione tra Atenei; creeremmo un forte incentivo all’innovazione continua nella ricerca, nella didattica e nei servizi.
Da progressista contemporaneo sogno un mondo in cui l’ossessione di ogni politico sia aumentare il ventaglio delle opportunità offerte ai propri cittadini nella prima giovinezza e nel corso della vita professionale. Essere governati da gente che la pensa così è un autentico privilegio.
* Professore di Business Organization and Entrepreneurship, dipartimento di Scienze economiche e aziendali “Marco Fanno”, Università degli Studi di Padova