Il mondiale in Brasile è il sogno di ogni calciatore. Fortunati – e bravi – i 23 azzurri che ce l’hanno fatta; agli altri non resta che guardare e tifare. Tra questi, anche gli oltre 9mila atleti che militano in serie D, un mondo fatto di sacrifici, di strette di mano, di procuratori senza scrupoli, di società che falliscono e di stipendi non pagati. Tutta colpa di una legge malfatta – la 91 del 1981 – che una commissione sta tentando invano di riformare, ma di cui la politica sembra disinteressarsi.
La vita del dilettante sui campi di calcio
«Nella prossima vita rinasco attaccante». Lo dice sorridendo, Filippo Catenacci, ma non troppo. Un terzino come lui sa bene quanto sia importante “buttarla dentro”. In serie A come in serie D. Sì, perché nonostante siano considerati “dilettanti”, gli atleti della D fanno la stessa vita dei loro colleghi professionisti, solo con meno certezze e con il dubbio di cosa fare una volta annunciato il ritiro. Cinque allenamenti a settimana – il mercoledì col doppio turno – e la partita alla domenica. Due mesi di preparazione estiva e pressioni da parte di allenatori e dirigenti. Racconta Filippo: «Quando ero più giovane avevo allenatori che chiamavano i miei genitori per sapere se ero a casa il venerdì sera. Poi controllavano cosa mangiavo, se fumavo e come mi vestivo. Ancora oggi è vietato indossare le infradito anche quando fa caldo, e ovviamente niente cellulare durante ritiri, viaggi in pullman e negli spogliatoi».
A 30 anni e con un figlio sulle spalle, fare il calciatore non è semplice. Filippo lo sa bene: dopo cinque anni nelle giovanili dell’Inter e qualche presenza in nazionale under 16 al fianco di ragazzi come Montolivo e Chiellini, inizia una carriera da professionista in C2 – oggi Lega pro e domani serie C unica – prima di approdare nella categorie dei dilettanti. Una realtà a sé, dove, per legge, giocare a calcio non è considerato un lavoro. In ballo, infatti, non c’è un vero e proprio contratto, bensì un accordo economico che il calciatore concorda con la società di anno in anno. Si va da un minimo di 7.500 euro a un massimo di 25mila euro lordi per un totale di dieci mensilità (giugno e luglio non sono pagati).
Il fisco per il calciatore dilettante – tabella lordo/netto
Con queste premesse è facile intuire il clima di precarietà che si respira nell’ambiente. Difficile, se non impossibile, trovare un secondo lavoro che garantisca stabilità economica. Poche sono le squadre che si allenano di sera lasciando così la possibilità di un part-time. Se nelle categorie più basse, come in promozione ad esempio, tanti sono i giocatori che riescono a fare del calcio una passione, in serie D questo non accade. Ci sono multe per chi arriva in ritardo, le vacanze sono vincolate (due giorni l’ultimo dell’anno e nessuna settimana bianca), non esistono venerdì o sabato sera e i ritiri estivi cominciano pochi giorni dopo le squadre di serie A. E poi i viaggi e l’incertezza del domani: valigie sempre pronte per cambiare città e compagni di squadra.
«Una volta giravano molti più soldi. I controlli erano nulli e c’erano calciatori che guadagnavano in nero anche 100mila euro l’anno. La società dichiarava i 7.500 come minimo da accordo economico pattuito e poi grazie agli sponsor garantiva stipendi da favola ai giocatori». Così Enzo Guagnini, un passato da calciatore dilettante e poi di amministratore per diverse società. «Tutti sapevano come funzionavano le cose. Anche i finanzieri, che spesso ci confessavano di non voler effettuare controlli perché altrimenti sarebbero state grane per tutti». Da qualche anno però, il tempo delle valigette piene di soldi sembra essere finito. Le società sono nel mirino del fisco e soprattutto gli sponsor «che prima facevano saltar fuori 200mila euro dal nulla» oggi non pagano più. Di scritto c’è ben poco. I dirigenti si devono fidare dei “pagherò” degli imprenditori, e i giocatori devono fidarsi della parola dei dirigenti. Nemmeno la firma dell’accordo economico basta per stare tranquilli perché in questa serie, dato che non si tratta di professionismo e quindi di lavoro, non sono previsti fondi di garanzia. Dice Catenacci: «L’anno scorso ero al Voghera e non mi hanno pagato le ultime cinque mensilità. Ho fatto vertenza economica ma sapevo che se avessero fallito io non avrei visto un euro. E così è andata». Per iscrivere una squadra al campionato bastano 25 mila euro e sono sempre più le società che alle prime difficoltà interrompono i pagamenti, convincono i giocatori a finire la stagione in cambio di false promesse, e poi dichiarano il fallimento.
Per chi è più “vecchietto” non è poi nemmeno così facile trovare posto in squadra: nuove regole impongono alle società di schierare tra le proprie file ben quattro giovani – quest’anno un classe ‘93, due del ‘94 e un ‘95. Diverso è nei professionisti, dove si incentiva a livello economico la squadra più giovane ma, per evitare patologie di sistema, è possibile riscuotere i soldi della federazione solo se vengono raggiunte determinate posizioni di classifica.
Per chi è giovane, invece, il problema è avere un buon stipendio minimo (a volte si tratta solo di poche centinaia di euro) e l’aver a che fare con i procuratori che, spesso e volentieri, “piazzano” il giocatore nelle società che gli garantiscono percentuali più alte di guadagno, pensando più al loro bene economico che al bene del ragazzo. «I genitori si comprano facilmente con poche lusinghe», dice Filippo, «ma una volta smesso di studiare per andare a giocare chissà dove, il ragazzo viene di fatto abbandonato a se stesso dal procuratore. Il problema è che quando sei giovane non puoi farne a meno, altrimenti i dirigenti ti rigirano come vogliono, tu pensi di aver portato a casa un buon accordo ma in realtà ti hanno fregato».
Infine c’è il problema “del dopo”. Non potendo beneficiare di una pensione, una volta smesso di giocare inizia una vera e propria seconda vita. In molti provano a rimanere nell’ambiente come allenatori o direttori sportivi, altri provano la carriera dei procuratori. Ma i più ricominciano da zero. Un tempo, quando gli stipendi erano più alti (anche se in nero) era possibile iniziare un’attività in proprio (tabaccheria, bar, ristorante ecc.), oggi bisogna accontentarsi di piccoli lavoretti. Spesso i ragazzi hanno come unica competenza quella di giocare a calcio, la scuola è ormai lontana e non hanno mai fatto l’esperienza di un secondo lavoro. Nell’ambiente c’è anche chi vorrebbe un percorso di reintegrazione al mondo del lavoro, un po’ come accade per i reduci di guerra. Un canale privilegiato per un certo periodo di tempo in settori specifici e inerenti allo sport, in grado di riabilitare e ricollocare. Per fortuna accade anche che alcuni giocatori vengano poi assunti dagli stessi presidenti delle società, che sono spesso degli imprenditori.
Le tutele dei calciatori
Nonostante gli sforzi e i passi in avanti fatti dall’Aic – il sindacato dei calciatori – e dal suo presidente, ex calciatore della Roma, Damiano Tommasi, la serie D è il vero “settore della giungla”. A definirla così è Claudio Lombardo, oltre 20 anni di professionismo in serie B e C e con alle spalle anche una presenza in serie A con la maglia dell’Inter: «Le tutele sono davvero minime, regole ce ne sono ma le scappatoie per evitarle sono infinite. Ti devi fidare di strette di mano e della parola dei presidenti ma, anche se firmi qualcosa, quello che ti aspetta è una roulette russa». Per prima cosa pesa l’assenza della previdenza pensionistica. Se nel professionismo i minimali imposti dall’Enpals – L’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo – è di 20 anni di contributi, nella serie D non è così in quanto, come detto, non è considerato un lavoro. Per questo tutti gli atleti dilettanti hanno una loro pensione integrativa privata di cui non possono fare a meno. Da qualche anno poi si riscontra un dato molto singolare: se fino a qualche tempo fa i calciatori non pensavano a smettere prima di una certa età molto avanzata, oggi questa soglia si è notevolmente ridotta, e sempre più atleti decidono di interrompere la carriera precocemente (circa 30 anni) per poter lavorare e versare dei contributi, magari continuando a giocare in categorie più basse, meno impegnative e che garantiscono comunque un premio partita in nero per arrotondare.
Importante è poi ricordare la già accennata mancanza di tutela verso i fallimenti delle società e i relativi mancati pagamenti degli stipendi. Ma le difficoltà non si esauriscono qui: cruciale è il tema dell’assicurazione sanitaria. «L’assicurativa per l’infortunio è fittizia!», racconta Catenacci. «Quando ti fai male le società aprono l’infortunio e, anche se sarebbero obbligate, per lo meno moralmente, ad aiutarti, così non è. La verità è che tutti i calciatori dai 23–24 anni in su hanno una loro assicurazione personale che costa dai 500 ai 1.000 euro l’anno». Il pagamento di una somma per l’assistenza e l’assicurazione sanitaria, per la legge sul rimborso spese vigente nei dilettanti, è legata al fatto che venga esplicata una prestazione, perciò è facile che, una volta subito l’infortunio, le società, oltre a non pagare per l’assicurazione, riducano – o smettano – di pagare lo stipendio, in quanto la prestazione viene interrotta.
Certo non sono esclusi contenziosi e si ricordano casi di sentenze favorevoli ai giocatori per il riconoscimento di lavoro subordinato di fatto, ma solitamente le società ne escono pulite. Ancor più spesso capita che il calciatore non faccia nemmeno reclamo per non passare da “rompiscatole” e per la paura così di restare a casa la stagione successiva. Continua Catenacci: «Quando mi sono fatto male al crociato durante la stagione al Voghera la società ha iniziato a pagarmi metà stipendio. Non avevo alternative, prendere o lasciare». Le assicurazioni private in grado di coprire un infortunio per una partita di calcio di serie D sono molto costose. Per questo motivo è facile sentire di giocatori che mentono sulla natura del loro infortunio, sfidando i controlli dell’assicurazione. Le assicurazioni che le società stipulano al momento del tesseramento infatti, sono pagate dalla federazione che però stabilisce delle franchigie molto alte e difficilmente raggiungibili, come il danno permanente superiore al 6%.
Infine, l’altra grande questione è il diritto allo svincolo. Il cartellino di un ragazzo è in mano alle società che, anche in mancanza di un contratto o un accordo, non si può svincolare al termine dell’anno. In molti gridano alla vergogna: un giocatore di una società dilettantistica, dopo i 18 anni, dovrebbe poter giocare dove vuole. L’Aic su questo ha dato battaglia e famosa è la campagna che raffigura i giocatori incatenati. Il sindacato dei calciatori ha ottenuto di abbassare il limite del vincolo ai 25 anni di età, ma le società su questo non vogliono mollare ed è facile capire il perché: i cartellini hanno per loro un’importante funzione patrimoniale. Lombardo ricorda come questa legge sia nata per tutelare la società e creare in realtà un sistema virtuoso per il quale le squadre si impegnassero a far crescere nei migliori dei modi i loro ragazzi e vedere poi riconosciuto, anche economicamente, il loro sforzo. Ma il forte rischio è che il calciatore rischia così di restare incastrato in una società senza un accordo economico né tantomeno la possibilità di scendere in campo. Ricorda Lombardo: «Nei professionisti prima si fa il contratto e poi nasce il tesseramento, invece nei dilettanti accade il contrario». Non di rado il giocatore, per potersi svincolare e cambiare squadra, è costretto a dover pagare anche cifre importanti.
In realtà una possibilità per far valere l’opzione di svincolo ci sarebbe: si tratta della cosiddetta “carta 108” che i giocatori possono richiedere alla società la quale, però, difficilmente sceglie di rilasciarla. «Punti i piedi per averla? Non fai più parte della squadra».
La legge del 1981
«Fino al 1981 nello sport non esisteva la figura del professionista». A ricordarlo è l’avvocato Enrico Crocetti Bernardi, un’autorità nel diritto dello sport. La legge indica come professionista soltanto quello sportivo retribuito che presta la sua attività a favore di una associazione o società sportiva. Il riconoscimento da professionista viene dato dalla singola federazione rispettando le direttive del Coni. «La definizione introdotta dalla legge 91/81», dice Crocetti, «è importante in quanto è bene ricordare che il professionista è considerato un lavoratore subordinato a tutti gli effetti, con i suoi diritti e i suoi doveri, e con tutte le tutele come ad esempio, in campo assistenziale o previdenziale. I giocatori non professionisti invece – come sono anche tutti i giocatori di pallavolo – non posseggono nulla. Sono – così si dice – sportivi senza tutele». A volere la legge 91/81 fu Sergio Campana, allora presidente del sindacato calciatori, per regolarizzare quello che negli anni Settanta era diventato uno sfruttamento di manodopera.
«Una legge però malfatta», continua l’avvocato, «qualsiasi studioso di diritto del lavoro sa che è lavoratore subordinato chi esegue una prestazione secondo delle direttive in cambio di una controprestazione economica. Non dovrebbe contare quindi se il lavoratore presta la sua attività di lavoro sportivo per una società dilettantistica o per una società di capitali con fine ovviamente lucrativo. Dovrebbe contare solo come viene esplicitata l’attività sportiva».
Nonostante da qualche anno sia pronto un progetto di legge per cambiare la legge 91/81, i governi sono sembrati poco interessati a una materia molto spigolosa e ai confini della legittimità di ordine costituzionale. «Per quale ragione hanno fissato il tetto massimo a 25mila euro e non, ad esempio, a 30 o 50?», si domanda l’avvocato. «La risposta è che è stata una decisione politica per il semplice motivo di non permettere a un un calciatore di serie D di guadagnare di più rispetto a uno di serie C. Ma tutto questo è assurdo. In serie D di basket si possono guadagnare anche 100mila euro perché c’è un tetto imposto dalla federazione e la competitività e il sistema ne beneficiano».
Crocetti ricorda anche come all’estero, in tutti i Paesi simili al nostro, è professionista colui che vive con il lavoro prestato: se chi guadagna 20mila euro l’anno gioca in terza categoria, allora è un professionista. Al contrario, chi gioca in categorie più alte guadagnando un salario minimo perché studia ancora all’università, allora è considerato un dilettante. In sostanza è nella retribuzione, secondo l’Europa, il discrimine tra dilettantismo e professionismo.
«Non può essere una federazione che ci dice chi è professionista o dilettante. È il mercato del lavoro che ci dice se sei un professionista o non lo sei», conclude Crocetti, «dovrebbero cambiare la legge 91/81 e levare tutti i riferimenti alle indicazioni delle federazioni, dicendo che chi campa con lo sport è un professionista. Punto. Poi si può discutere del tipo di contratto, sia esso un rapporto di lavoro subordinato, autonomo, parasubordinato. Questa è tutto un’altra questione che coinvolge il diritto dello sport e il diritto del lavoro per indicare come svolgere l’attività». Secondo l’avvocato, i giocatori top player sono di fatto già dei lavoratori/imprenditori per la rapidità con cui cambiano squadra e quindi lavoro. Un po’ come accade per gli attori o i cantanti.
In altre parole la federazione, decidendo chi è professionista e chi non lo è, ha instaurato involontariamente un sistema distorto. Per questo motivo in molti credono sia giusto modificare e ristrutturare la la legge 91/81 abolendo in primis questa distinzione. Se l’impegno chiesto a un dilettante è simile di fatto a quello del professionista, anche le tutele dovrebbero valere anche per loro. Sarebbe già come vincere un mondiale.