Un ricordo di Demetrio Stratos, a 35 anni dalla morte

Un ricordo di Demetrio Stratos, a 35 anni dalla morte

Il 27 ottobre del 1976 all’Università Statale di Milano era in corso un’occupazione. Era passato poco più di un anno dalla morte di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi, il Movimento Studentesco era confluito da qualche mese nel Movimento Lavoratori per il Socialismo e nell’aula magna occupata si era deciso di organizzare un concerto. Per l’occasione era stato chiamato uno dei gruppi più avanguardisti e politicamente impegnati del momento: gli Area, che in quei giorni stavano lavorando alacremente alla registrazione del disco Maledetti (maudits), avvalendosi anche della collaborazione di artisti stranieri quali Paul Lytton e Steve Lacy.

Da quel concerto, riconosciuto dagli stessi membri del gruppo come uno dei loro live «più strani», sarà tratto l’album Event ’76: un disco dal vivo costituito unicamente da tre tracce: Caos (parte prima), Caos (parte seconda) e Event ’76.

Maledetti era il quinto album del gruppo, che si era costituito nel ’72 intorno alla figura di Demetrio Stratos, ex frontman dei Ribelli. La prima formazione era composta da Victor Edouard Busnello ai fiati, dal bassista Patrick Djivas, dal tastierista Gaetano Leandro, dal chitarrista Johnny Lambizi e dal batterista Giulio Capiozzo, anche se Lambizi e Leandro sarebbero stati presto sostituiti da Paolo Tofani, ex chitarrista dei Califfi, e dal giovane tastierista Patrizio Fariselli, che già seguiva il gruppo durante i permessi del servizio di leva.

Stratos all’epoca era già famoso e si guadagnava da vivere suonando nei locali, anche se quello per lui era un periodo di lieve flessione professionale. Nato nel ’45 ad Alessandria d’Egitto da una famiglia greco ortodossa – il vero nome è Efstratious Demetriou – era approdato in Italia appena diciassettenne dopo una parentesi cipriota per studiare architettura al Politecnico di Milano. La musica l’aveva accompagnato fin dall’infanzia. Da piccolo, oltre ad ascoltare i canti arabi tradizionali, assisteva alle cerimonie accompagnate da melodie religiose bizantine, ma la vera e propria educazione musicale era iniziata al Conservatoire National d’Athènes per poi approdare alla scena beat underground milanese, dove viene scovato nel 1966 dai Ribelli – allora gruppo spalla di Adriano Celentano – durante un’esibizione al Santa Tecla.

Ricky Gianco, loro produttore, ricorda molto bene quando compose insieme a Gianni Dall’Aglio la hit più famosa del gruppo, Pugni chiusi: «ho detto a Demetrio, perché la gente possa apprezzarla, falla normale, almeno all’inizio, poi tiri fuori la potenza vocale… In seguito l’hanno rifatta in molti: i Pooh (purtroppo), Francesco Renga e Piero Pelù, che voleva cambiare il testo (e infatti eliminò la strofa finale, quella che inizia con «mani giunte»), ma nessuno l’ha più fatta come Demetrio».

Per Stratos l’esperienza con i Ribelli si conclude nel 1970. Nel mentre aveva sposato con rito bizantino Daniela Ronconi, conosciuta durante gli anni dell’università, e aveva avuto una figlia, Anastassia, che si rivelò fondamentale per i suoi studi sulla fonazione, grazie all’osservazione della fase pre-verbale della bimba, così giocosa e sperimentale prima dell’adattamento alle regole del linguaggio e della comunicazione funzionale.

Gli Area nascono intorno a una sostanziale comunanza d’intenti che muove da un profondo interesse nei confronti del free jazz, intrecciato con il rock, le radici mediterranee e balcaniche e la musica elettronica: il tutto interpretato con un approccio decisamente sperimentale, che trova un ottimo corrispettivo “grafico” in Gianni Sassi, già collaboratore di Franco Battiato e in quegli anni fondatore dell’etichetta discografica Cramps.

Il loro album d’esordio, che coincide con la prima pubblicazione del catalogo Cramps, è Arbeit Macht Frei, del 1973. Nel ’74 c’è la partecipazione al primo concerto al parco Lambro – la nostra piccola Woodstock – organizzato dalla rivista di controcultura “Re nudo”; nel ’75 c’è il disco Crac! – quello di Gioia e rivoluzioneed eccoci di nuovo, con tante colpevoli omissioni, al 1976, l’anno del terzo e ultimo concerto al parco Lambro, dove gli Area presentano una nuova composizione vagamente ispirata alle teorie di Cage e al romanzo di fantascienza di Norman Spinrad Agente del caos. Ne viene fuori un vero e proprio happening, con i fili elettrici del sintetizzatore di Tofani che vengono portati tra il pubblico per ottenere nuove frequenze e impulsi sonori, un’impostazione spiazzante che viene replicata con radicalità anche maggiore qualche mese più tardi, durante il concerto alla Statale di Milano.

Il 27 ottobre era una serata di pioggia, dettaglio meteorologico che non è un mero escamotage per dare atmosfera. Il bassista Ares Tavolazzi— che nel frattempo era subentrato a Patrick Djivas — e il batterista Giulio Capiozzo erano temporaneamente impegnati altrove, «così Demetrio, Paolo ed io», spiega Patrizio Fariselli, «approfittammo della presenza di Steve Lacy e Paul Lytton per sperimentare dal vivo Caos (parte seconda)», ovvero l’ultima traccia del disco in preparazione Maledetti, un concept album di ambientazione fantapolitica in cui si immagina l’intera coscienza dell’umanità custodita in una banca sotto forma di plasma liquido.

Lo spunto su cui incentrare la performance viene da un aneddoto raccontato da John Cage nel libro Per gli uccelli, conversazioni con Daniel Charles: Cage racconta che un gruppo jazz di Chicago gli aveva chiesto consiglio su come andare nella giusta direzione e lui aveva risposto di improvvisare liberamente, senza badare a ciò che succedeva intorno, compreso ciò che facevano gli altri componenti del gruppo.

L’indicazione era assai controcorrente perché allora, anche tra i gruppi più sperimentali, l’opinione condivisa era che durante le improvvisazioni si dovesse tendere a una fusione organica tra i musicisti, e quindi necessariamente all’ascolto reciproco. E di fatti il gruppo di Chicago seguì le indicazioni di Cage solo per pochi brani, per poi tornare automaticamente a fare come d’abitudine. La sfida viene però raccolta dagli Area, che per non incorrere nella tentazione di ascoltarsi a vicenda, elaborano un gioco: scrivono cinque parole – Ipnosi, Silenzio, Violenza, Ironia e Sesso – su un certo numero di foglietti, poi mischiati e distribuiti come carte da gioco. Ognuno deve interpretare la parola che gli è toccata e ogni tre minuti il direttore d’orchestra – il fratello di Farinelli munito di cronometro – dà il segnale di passare al foglietto successivo. Nonostante qualche impiccio – Paolo Tofani ricorda che a qualcuno erano toccati qualcosa come cinque “silenzi” di fila per cui si era dovuti procedere a un baratto “violenza più ironia in cambio di due silenzi” – il gioco sembra funzionare. Se non fosse che l’approccio eccessivamente sperimentale spiazza completamente il pubblico, numerosissimo, che si aspettava un concerto più tradizionale.

«I ragazzi dell’università», ricorda Farinelli, «avrebbero voluto ascoltare i pezzi che già conoscevano:Luglio, agosto, settembre, (nero), L’Internazionale… persino Lobotomia gli sarebbe andata bene…» e dopo i primi minuti spesi a inquadrare la situazione, non appena il sospetto che la serata sarebbe continuata sullo stesso tenore diventa ragionevole certezza, il pubblico fa valere il suo punto di vista come nella miglior tradizione teatrale: con urla, risate e improperi. La cosa strana però è che nessuno abbandona la sala, e pian piano il frastuono di protesta inizia a dialogare con la performance sul palco: «qualcuno dalla platea cominciò a far tintinnare un mazzo di chiavi», racconta di nuovo Farinelli, «e fu subito imitato da molti altri, contribuendo efficacemente alla “metallicità” del sound generale». Poi, visto che molti erano muniti di ombrelli — ed eccoci alla necessità del bollettino meteo — cominciarono ad aprirli e chiuderli ritmicamente, creando un effetto coreografico che apriva lo spazio dello spettacolo a tutta la platea.

In pratica, dopo l’iniziale titubanza, il pubblico pare divertirsi e gradire la propria partecipazione attiva alla performance. Le perplessità più grandi sembrano persistere tra i parenti del gruppo e gli amici musicisti, i quali, insieme ai critici jazz, presenti più che altro per via degli ospiti stranieri, a fine concerto cercano di svignarsela alla chetichella, quasi senza salutare.

L’unico non abbastanza lesto da guadagnare l’uscita per tempo è Arrigo Polillo, direttore della rivista Musica jazz, che fu udito distintamente biascicare: «Ma questi Area… che strani!».

Un anno dopo Paolo Tofani lascerà il gruppo per intraprendere un cammino spirituale che lo porterà, con l’amico Claudio Rocchi, ad abbracciare la filosofia Hare Krishna e Demetrio Stratos inizierà la sua carriera solista, per poi lasciare definitivamente il gruppo nel ’78 e dedicarsi alle sue ricerche sulle potenzialità della voce, in un’ottica pedagogica che non mira al virtuosismo, ma che ha come scopo dichiarato di creare un sentiero potenzialmente percorribile da chiunque.

Il resto è noto: la diagnosi di anemia aplastica nell’aprile del ’79 e la morte il 13 giugno al Memorial Hospital di New York, proprio il giorno prima del concerto organizzato dai suoi amici musicisti all’Arena civica di Milano allo scopo di raccogliere fondi per le sue cure, concerto che si trasformerà in una commossa celebrazione, con la partecipazione, tra gli altri, di Francesco Guccini, Francesco De Gregori, il Banco del Mutuo Soccorso, La PFM, gli Skiantos e molti altri.

Nel corso degli anni gli omaggi a Stratos non sono mancati e proprio due giorni fa, l’11 giugno, a 38 anni dal concerto, anche l’Università Statale ha fatto la sua parte, con una tavola rotonda organizzata da Paolo Borsa, dedicata a Demetrio Stratos «musicista e ricercatore», che ha permesso a Patrizio Fariselli e Paolo Tofani di tornare nell’aula magna di quel bizzarro concerto e rendere omaggio al loro incredibile frontman.

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