A scuola di esplorazione urbana

A scuola di esplorazione urbana

Un rudere con le frasche che irrompono da una finestra rotta e magari un ardito gioco di luce per un occhio amatoriale può costituire una foto di sicuro effetto da condividere su Instagram. Magari con una bella citazione malinconica. Ma se a livello dilettantesco può sembrare vetero-romanticismo, l’esplorazione urbana propriamente detta è una cosa molto seria, che ci permette di fare i conti con qualcosa che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni ma difficilmente mettiamo a tema: lo sterminato patrimonio delle architetture abbandonate.

Foto di Stefano Barattini

L’esplorazione urbana ha molti nomi – Urban exploration, Urbex, UE, Infiltration o Reality Hacking – che in genere indicano la perlustrazione di strutture costruite dall’uomo, abbandonate o nascoste, quasi sempre accompagnata da un’attività di documentazione fotografica. 

“Take nothing but photographs, leave nothing but footprints”

Il guru dell’esplorazione urbana è considerato Jeff Chapman, alias Ninjalicious, un esploratore di Toronto, scomparso prematuramente nel 2005. Fondatore del sito Infiltration, Ninjalicious è noto per aver fornito all’attività una sorta di codice di condotta: una guida con indicazioni – non prelevare nulla dai luoghi, non avventurarsi mai da soli – e una sorta di manifesto etico, che in linea di massima riprende il motto dell’organizzazione ambientale Sierra Club: “ Take nothing but photographs, leave nothing but footprints”, solo che, nella versione di Chapman, sarebbe auspicabile non lasciare nemmeno le impronte.

Da Walt Whitman a Facebook

L’espressione “urban exploration” è stata coniata nel 1996: compare nella fanzine “Infiltration” curata dallo stesso Ninjalicious, ma è ragionevole credere che una sorta di esplorazione urbana esista da quando esistono le città.

Tra gli antesignani di cui abbiamo notizia, lo sfortunato Philibert Aspairt, considerato il primo cataphile: un portiere dell’ospedale Val-de-Grâce che nel novembre del 1793, mentre la Parigi di superficie viveva giorni movimentati, si addentrò per un motivo non chiaro nelle catacombe. Il suo corpo fu ritrovato soltanto 11 anni più tardi. A onor del vero fonti autorevoli considerano controversa la sua stessa esistenza, ma nel dubbio gli si può rendere omaggio presso la tomba a lui dedicata proprio nelle catacombe parigine, sotto rue Henri Barbusse.

Un altro autorevole precursore è il poeta Walt Whitman, che lavorò per il Brooklyn Standard ad alcuni articoli sul tunnel abbandonato di Atlantic Avenue a New York, celebrato una ventina d’anni prima come il primo tunnel sotterraneo mai realizzato e che lui descrive in toni malinconici, come un luogo “oscuro come una tomba, freddo, umido e silenzioso”. Negli anni ’20 fu poi la volta delle passeggiate dadaiste per Parigi, e negli anni ’50 delle esplorazioni di tunnel da parte degli studenti del MIT di Boston. Ma è solo negli anni ’90, con la diffusione di internet, che il fenomeno cresce di dimensioni e inizia a assumere connotati più unitari. E se all’inizio era tipico soprattutto dei paesi anglosassoni, ormai è diffuso in tutto il mondo, tanto che il Giappone, sempre all’avanguardia, ha un termine tutto suo per indicare l’esplorazione urbana: haikyo, cioè rovine.

Foto di Stefano Barattini

Grazie alla rete sono nati dunque siti, communities e forum, come Forbidden Places o UER, che permettono di conoscere altri appassionati, costituire dei gruppi di esplorazione e scambiarsi indicazioni topografiche.

Esplorare in gruppo è sempre consigliabile. Fabio, curatore, insieme a Maggy, del sito PaesiFantasma, mi spiega che i pericoli possono essere di molti tipi, anche banalissimi, come una vipera nell’erba alta: «una volta, esplorando un vecchio borgo medievale, per un pelo non ho messo il piede su una botola che apriva a un pozzo profondo… di pericoli possibili ce ne sono a decine, il consiglio è di andare sempre almeno in tre e avere un minimo di equipaggiamento di sicurezza, come un casco». E considerando che l’esplorazione di aree abbandonate non è il tipico discorso da bar, internet è sicuramente una risorsa utilissima, sempre che si condivida lo schema e la filosofia di base.

No trespassing

In realtà, a prescindere dalla guida di Chapman, ogni esploratore ha sviluppato nel corso dell’attività una propria modalità operativa. Il comandamento che sembra però mettere d’accordo tutti gli esploratori non dilettanti è quello di non rubare, che si lega a un altro assioma, non citato da Chapman, ma fondamentale: non dare mai indicazioni pubbliche sull’esatta ubicazione dei luoghi esplorati. I malpensanti possono leggerci una componente egoistica, che in alcuni casi è certamente presente, ma il motivo principale è molto semplice: evitare che i luoghi vengano saccheggiati. Per il resto, come è naturale, ognuno elabora una propria visione dell’attività esplorativa, privilegiando secondo le proprie inclinazioni l’aspetto documentale, quello fotografico, o quello avventuroso.

Alessandro Tesei è curatore del sito Ascosi lasciti e ha recentemente realizzato un documentario su Fukushima. Per lui conta molto la storia del luogo e l’esperienza soggettiva della visita, le sensazioni che si provano. Come fotografo e videomaker riconosce all’aspetto fotografico una sua importanza, ma la ritiene marginale. Mi spiega che il termine “urbex” non gli piace: «tende a settorializzare il fenomeno e a legarlo alla fotografia, a un uso prettamente estetico che si ciba della bellezza della decadenza». Non si ritiene immune dal “fascino della decadenza”, ma ciò che è importante per lui «è riappropriarsi delle sensazioni tipiche dell’infanzia. Crescendo, si tende a diventare più razionali, e a relegare questo tipo di esperienze a semplici giochi da bambino, mentre io sono certo che sia la curiosità il motore del mondo».

Vengono in mente quelle prove di coraggio, che abbondano in letteratura e televisione, in cui un gruppo di ragazzini, come rito iniziatico, deve mettere piede nella casa abbandonata o stregata: ne parla Harper Lee e anche Zerocalcare.

Cresciuta in un paese di «poco più di mille anime», con cascine e ville abbandonate, Maggy ha sviluppato la sua passione proprio durante l’infanzia, ma intraprende l’attività di esploratrice con regolarità da “solo” dieci anni. «Domani devo visitare ben otto paesi abbandonati» mi spiega mentre mi accompagna a fare un’esplorazione nel vercellese.

Ricerche in loco

Partita dal presupposto di dover fare un’esperienza diretta dell’esplorazione, ero andata come prima cosa all’ ex manicomio di Mombello (Limbiate), che nel mondo dell’Urbex è originale come una vacanza in Salento.

Mombello è l’esempio perfetto del perché si debba essere cauti nel rivelare le ubicazioni.

Si tratta di un complesso gigantesco: quasi una decina di edifici di cui ormai soltanto la villa Crivelli è ancora attiva, con all’interno un Istituto tecnico agrario. La villa Pusterla-Crivelli è stata un tempo una dimora napoleonica e ha ospitato il matrimonio fra Paolina e il generale Leclerc, ma dai fasti della Repubblica Cisalpina, in pochi decenni la struttura è diventata il nucleo principale dell’ospedale psichiatrico Antonini, che secondo alcune fonti – come il film di Bellocchio – ha potuto vantare tra i suoi “ospiti” il figlio illegittimo di Benito Mussolini.

Chi ha visitato Mombello anni fa ricorda camicie di forza, medicine, un arredo ancora intatto. Oggi il luogo è completamente devastato, rimangono alcuni letti e poco altro. Per chi non è abituato a visitare luoghi dismessi resta un’esperienza interessante, per la grandezza del complesso e per i suoi famosi sotterranei, di cui io percorso solo brevissimi tratti. Ma il suo fascino non può competere con quello di luoghi in cui, come dice Stefano Barattini, esploratore e fotografo, «si siano preservate tracce di quotidianità».

Un piccolo assaggio di queste tracce di quotidiano l’ho avuto in un castello piemontese. Ho accompagnato un gruppo di esploratori, guidato da Maggy, in un breve tour in zona Vercelli. La prima tappa è stata il castello di Vettignè, frazione di Santhià, per la cui visita avevamo chiesto il permesso alla proprietaria, Enrica, che gestisce un bed & breakfast adiacente al castello. La seconda tappa invece è stata un’esplorazione vera e propria, con tanto di ricerca accurata dei PoE (punti di entrata). Il castello doveva essere stato una dimora signorile ancora utilizzata fino almeno agli anni settanta. Al suo interno alcuni mobili, tanti libri, tante riviste, molte delle quali dedicate ai cavalli, da buona famiglia della nobiltà campagnola.

Maggy procede con la sicurezza dell’esperienza. Per lei l’aspetto fotografico è più che altro un obbligo, per documentare e aggiornare il sito, ma è chiaro che il suo primo scopo è esplorare. La sua è una passione così radicata che è riuscita a incentrare la sua tesi di laurea in psicologia del lavoro sui luoghi abbandonati.

Qua e là si notano tracce del passaggio di altri esploratori: utensili disposti troppo ordinatamente, aspirapolvere abbandonate in posizioni troppo “artistiche”. Ma è evidente che si tratta di un luogo ancora poco conosciuto. Diverso è il discorso per alcuni borghi fantasma, come Craco in Basilicata, diventato meta turistica e set cinematografico.

Fenomenologia della città fantasma

Le ragioni che trasformano una cittadina in una ghost town sono svariate, dalle più bizzarre – come Jonestown, in Guyana, che divenne una città fantasma dopo il suicidio di massa della comunità che viveva lì – ai tracolli dell’economia locale, come Gary, nell’Indiana, città natale di Michael Jackson e fratelli, che ha iniziato a spopolarsi dopo che la sua fabbrica d’acciaio ha tagliato il 90% dei posti di lavoro. Spesso le calamità naturali giocano un ruolo determinate: dopo ben 30 inondazioni, la città di Pattonsburg, nel Missouri, fu abbandonata e interamente ricostruita a pochi chilometri di distanza con il nome di New Pattonsburg; in altri casi è invece l’umana inettitudine a farla da padrone, come è accaduto a Centralia (Pennsylvania), quando nel 1962, in seguito dell’immissione di rifiuti ardenti in un pozzo dismesso usato come discarica illegale, la vena carbonifera prese fuoco. L’incendio nel sottosuolo è ancora attivo e si calcola che lo sarà ancora per centinaia di anni.

Cittadine di questo tipo negli Stati Uniti se ne trovano parecchie. Per chi non teme la vertigine del catalogo, qui si può trovare un elenco abbastanza esaustivo, ma la ghost town per antonomasia è probabilmente Bodie, in California: una città del Far West, con bordello e quartiere cinese, di quelle sorte rapidamente durante la caccia all’oro e che ora è una città fantasma a tutti gli effetti, con tanto di pagina fan su Facebook e shooting fotografico degli U2.

Un caso particolare è costituito da Detroit, che di certo non è una città fantasma, ma è stata definita dal New York Times «il più stupefacente esempio contemporaneo di collasso urbano». Qui la disoccupazione ha prodotto danni peggiori dell’uragano Katrina: se New Orleans, infatti, dopo la catastrofe si è svuotata “solo” del 29%, le persone che hanno abbandonato Detroit negli stessi anni sono quasi il doppio, ben 237.500. In tutto ciò, c’è chi ha fatto di necessità virtù, e i molti luoghi abbandonati della città sono stati sfruttati per organizzare tour a pagamento, un po’ come accade in un film un po’ tamarro del 2011, intitolato appuntoUrban explorer, ambientato però nei sotterranei di Berlino, tra affreschi nazisti ed ex agenti della Stasi.

Il “tempo puro”

Naturalmente anche l’Europa vanta il suo vasto catalogo di città abbandonate, come la celebre Pryp’jat’ , in Ucraina, o il villaggio olimpico di Berlino, costruito nel ’36, ritratto anche da Sylvain Margaine – curatore del sito Forbidden-Places – nel suoLuoghi dell’abbandono. Secondo Margaine «l’esplorazione urbana è l’archeologia dei tempi moderni», e nel suo libro ritrae dalle chiese sconsacrate alle stazioni ferroviarie, dalle prigioni agli ex ospedali psichiatrici: persino un cimitero di locomotive arrugginite.

Spesso gli esploratori però hanno una loro tipologia di luoghi preferita: Emanuele Bai, che è appassionato d’arte e utilizza i luoghi abbandonati soprattutto come location per servizi fotografici a tema, preferisce le ville, perché spesso, più di altri luoghi, si sono mantenute integre nell’arredo e perché sono molto scenografiche e a volte splendidamente affrescate; la prima passione di Fabio sono invece i paesi, e poi i cimiteri e le chiese: «Napoli ha tra le più alte concentrazioni di chiese e monumenti al mondo e un culto funebre molto particolare, forse proprio per questo prediligo tali abbandoni».

Stefano invece, conformemente ai suoi interessi di natura storica – è un accanito studioso delle due guerre mondiali –, è interessato soprattutto agli ex ospedali psichiatrici. Per lui la storia del luogo è fondamentale: procede sempre con una documentazione preventiva e i suoi shooting sono piuttosto ampi, perché lo scopo per lui non si esaurisce nella bella foto a effetto, ma ambisce a ricostruire, per quanto possibile, la memoria storica del luogo. Ma nessuno ama fossilizzarsi: Emanuele mi spiega che anche le colonie sono location molto valide, perché racchiudono diverse tipologie di spazi: le aule, i bagni, le cucine.

Foto di Emanuele Bai

Ma cosa, dei luoghi abbandonati, desta tutto questo fascino? Secondo l’antropologo Marc Augé «la vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte talvolta riesce a ritrovare». La sua riflessione si concentra principalmente sulle rovine storiche e sulla dialettica tra l’eloquenza degli ex luoghi e la freddezza dei non luoghi della modernità. 

Ninjalicious, che non era un antropologo e nemmeno un filosofo, pone l’accento, più prosaicamente, sul concetto di avventura: «l’esplorazione urbana è gratuita, divertente e non fa male a nessuno. Incoraggia le persone a creare le proprie avventure, come quando erano bambini, invece che acquistarne di preconfezionate». Ma al di là del fascino nei confronti del passato, al di là dell’aspetto avventuroso, l’esplorazione urbana pone l’attenzione su un grande rimosso della società post industriale: un patrimonio inestimabile di edifici e luoghi che il più delle volte entrano nel nostro campo visivo senza essere tematizzati. Commenta Alessandro: «una delle cose che più mi colpisce è la noncuranza nei confronti di ciò che ci circonda, e l’abbandono è figlio della noncuranza».

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