Pizza ConnectionAgli sportelli della banca della ’ndrangheta

Agli sportelli della banca della ’ndrangheta

Per gli inquirenti sono «sistemi creditizi paralleli», di fatto sono vere e proprie finanziarie gestite dagli uomini della ’ndrangheta che incassano e prestano denaro a imprenditori in difficoltà con tassi usurari. La scelta degli imprenditori a cui bussare non è mai casuale, ma anzi, scientifica e ben studiata, sia che ci si trovi a Reggio Calabria, sia nell’hinterland milanese e nel nord Italia.

Nel cuore della Lombardia una “banca autonoma” della ’ndrangheta

È il 4 marzo del 2014 quando gli uomini della Squadra Mobile di Milano, guidati da Alessandro Giuliano e coordinati su mandato dei pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Milano Ilda Boccassini e Paolo d’Amico, arrestano 40 persone con le accuse di riciclaggio, concorso esterno in associazione mafiosa, esercizio abusivo del credito, usura, estorsioni, contrabbando e interposizione fittizia di società e di beni immobili.

Gli uomini della mobile sono sulle tracce di quella che viene definita una vera “banca autonoma” gestita dagli affiliati alla criminalità organizzata calabrese. L’organizzazione è in grado di riciclare facilmente denaro che alcuni imprenditori intendevano sottrarre al fisco, prestare soldi a imprese in difficoltà e reinvestire nell’economia legale. Tra gli indagati figurano infatti anche una decina di imprenditori e alcuni dirigenti degli uffici postali della Brianza.

Personaggio centrale di quell’inchiesta è Giuseppe Pensabene, uomo già noto agli investigatori e orbitante nell’ambito della “locale” di ’ndrangheta di Desio: Pensabene secondo gli investigatori avrebbe addirittura preso il controllo della stessa locale dopo l’ondata di arresti del 2010 in seguito all’operazione “Crimine-Infinito” scivolata sull’asse Reggio Calabria-Milano.

La sede di questa “banca clandestina” è a Seveso, provincia di Monza-Brianza. Da un piccolo ufficio, chiamato dagli indagati “il tugurio”, Pensabene coordina le operazioni e i suoi uomini. La banca della ’ndrangheta è così a disposizione di affiliati e imprenditori: i primi se ne servono per la cassa dei detenuti, i secondi per ricevere prestiti di denaro a tassi di usura che variavano dal 15 al 20% (la soglia massima del tasso ufficiale annuo stabilito dalla Banca d’Italia è attualmente dell’11,32% annuo).

Il capo della Mobile di Milano: «questo sistema criminale finanziario sarebbe impossibile senza l’appoggio di ambienti che non appartengono all’organizzazione, in particolar modo imprenditori e funzionari pubblici»

Dalle indagini emerge come alcune imprese del tessuto lombardo si appoggiassero alla struttura per creare fondi neri attraverso l’erogazione di denaro che gli imprenditori avrebbero ripagato con assegni e trasferimenti con provvigione al 5 per cento. Il sistema, con cifre minori ma al di fuori della legge, si configura identico alla frode sulla compravendita dei diritti televisivi che ha portato alla condanna di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset.

«Qui ogni giorno transitano 30-40-50mila euro», diceva, intercettato, uno dei sodali di Pensabene. E per gestire quel flusso di denaro l’organizzazione criminale si avvale di esperti e professionisti che diventano non solo consulenti ma parte integrante dell’organizzazione stessa. Un esempio è il broker Emanuele Sangiovanni, che intercettato specifica a Pensabene che non vuole fare il prestanome, ma «io voglio veramente fare parte della … della famiglia» ed essere socio. È col supporto di Sangiovanni che l’organizzazione si ritrova già pronte società di comodo in Svizzera.

Scrivono gli investigatori: «Concretamente Sangiovanni Emanuele mette a disposizione dell’associazione mafiosa de qua le sue società svizzere e le sue società italiane, per “schermare” i capitali illeciti nel frattempo acquisiti, presentandosi in sostanza come la “faccia pulita” dell’associazione criminale». Il broker farà di più offrendosi come spallone per portare in Svizzera 173mila euro frutto delle usure di Pensabene e soci. D’altronde, lo ha ribadito anche il capo della Squadra Mobile di Milano Alessandro Giuliano, «questo sistema criminale finanziario sarebbe impossibile senza l’appoggio di ambienti che non appartengono all’organizzazione, in particolar modo imprenditori e funzionari pubblici».

Reggio Calabria-Milano andata e ritorno

C’è stata di recente un’altra indagine che ha scoperchiato un sistema in grado di funzionare come una vera e propria banca con cui vari imprenditori sono venuti a contatto e alcuni che hanno deciso di esserne, per così dire, “azionisti”. È la mattinata del 19 giugno scorso quando gli uomini del Ros e del Comando provinciale dei carabinieri di Reggio Calabria entrano in azione, in collaborazione con la Direzione investigativa antimafia, per arrestare 17 persone e sequestrare aziende e quote societarie per un valore di 8 milioni di euro.

Di nuovo, si legge tra le carte delle indagini coordinate dai pm calabresi Giuseppe Lombardo e Alessandra Cerreti, che gli indagati «hanno dato vita ad un vero e proprio “sistema bancario parallelo”». Sarà uno degli artefici di quello stesso sistema a definirlo tale, mentre comunica con Gianluca Favara, vero e proprio broker della banca parallela gestita dalle cosche: «Porca puttana però, però così dove cazzo lo ritrovi. Ora diventa pericoloso, perché questo figlio di puttana comincia a raccontare il sistema».

Gli indagati «hanno dato vita ad un vero e proprio “sistema bancario parallelo”»

Il “figlio di puttana” che secondo l’interlocutore di Favara avrebbe potuto raccontare “il sistema” è Agostino Augusto, imprenditore della sanità con la sua società Makeall e le sue cinque case di cura, prima finito tra le maglie della giustizia per un giro di fatture false emesse per coprire i conti dello strozzo e in seconda battuta collaboratore di giustizia. Augusto ha permesso prima agli inquirenti milanesi e poi a quelli calabresi di conoscere a fondo il meccanismo di usura prima e di concessione del credito poi che Favara e i suoi sodali hanno messo in piedi, anche grazie alle segnalazioni di funzionari compiacenti che segnalavano imprenditori in difficoltà. A chiedere denaro e a mettersi al servizio di Favara e soci figurava anche un carabinieri della compagnia Duomo.

Non è però il solo Favara, definito dagli inquirenti oltre che autentico broker una sorta di ambasciatore in grado di «dialogare e rappresentare gli interessi, alle volte potenzialmente opposti, di differenti cosche», a tenere in piedi il sistema. Con lui c’è anche uno dei ras della sanità calabrese ritenuto da tempo dagli inquirenti imprenditore espressione dei clan e imputato nel processo “Reggio Nord”. Si tratta di Pasquale Rappoccio, coinvolto tra le altre cose in un’inchiesta sulle forniture sanitarie all’Asl di Locri assieme alla vedova Fortugno, Maria Grazia Laganà, ex deputata Pd.

I due sono determinati a mettere le mani sulle case di cura e sulla società di Augusto, che in difficoltà con le banche si affida al duo Favara-Rappoccio. Come emerge dall’inchiesta, sarà Favara a presentare Rappoccio ad Augusto come un «amico competente per materia», uno che in poco tempo avrebbe fornito alle case di cura di Augusti attrezzature mediche in tempi stretti per l’allestimento di tre case di cura. Una mossa che in realtà segna la corsa di Rappoccio e Favara per accaparrarsi l’impero di Augusto a prezzi stracciati.

Favara si appoggia ai satelliti lombardi della criminalità organizzata calabrese (in particolare alla “locale” di Lonate Pozzolo), ma allo stesso tempo dialoga con il clan dei Rinzivillo di Gela, con il capo della locale di Fondi (provincia di Latina) Antonio Venanzio Tripodo, oppure, come riporta anche il Corriere della Calabria, quando Favara ha bisogno di consigli o di risolvere “questioni” sorte con altri gruppi delinquenziali, o ancora progettare affari come un non meglio specificato traffico di droga da perfezionare con la cosca mafiosa Muià-Facchineri, è il “cordone ombelicale” con la casa madre che torna a farsi sentire e, secondo le indagini, è a Domenico Arena – contiguo al broker della droga Giuseppe Coluccio – che chiede supporto, consiglio e lumi sul da farsi.

È un lombardo doc il «procacciatore di imprenditori in difficoltà da sottoporre ad usura prima, estorsione poi, e infine all’acquisizione di quanto di buono rimaneva nelle differenti società»

Reggio Calabria-Milano andata e ritorno, perché se Favara è operativo dal sud è in Lombardia che si trova colui che viene definito dagli investigatori il «procacciatore di imprenditori in difficoltà da sottoporre ad usura prima, estorsione poi, e infine all’acquisizione di quanto di buono rimaneva nelle differenti società». Si tratta dell’ingegnere Carlo Avallone, lombardo di nascita e di residenza, già finito nel mirino della procura di Novara nel 2003 per una storia di riciclaggio e ricettazione con altri colletti bianchi legati a doppio filo alla ’ndrangheta.

Segnalazioni di operazioni sospette antiriciclaggio da parte di organizzazioni criminali

Fonte: Centri operativi DIA

La conclusione del procuratore capo di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho e dell’indagine è che quella scoperta si configura, appunto, come una vera e propria banca parallela gestita dai clan Condello e Pesce-Bellocco di Rosarno che aveva costretto quattro imprenditori (due calabresi e due lombardi, dalle risultanze della presente indagine) ad attraversare quelle che Cafiero de Raho non esita a definire «forche caudine del credito fornito dai clan» le quali «una volta varcate segnano l’ingresso in un circuito che massacra e distrugge». Questo non solo per il tasso a cui il denaro viene prestato con interessi che arrivano fino al 20%, ma in particolare per il fatto che «l’obiettivo delle cosche – ha spiegato de Raho – rimane sempre quello di appropriarsi delle imprese».

Il modus operandi

Come si scriveva, e secondo quanto emerso dall’indagine riguardante la cosiddetta “banca autonoma della ’ndrangheta” in Brianza, alcuni imprenditori si appoggiavano a questa particolare struttura criminale per creare fondi neri attraverso l’erogazione di denaro che gli imprenditori stessi avrebbero ripagato con assegni e trasferimenti con provvigione al 5 per cento. Il sistema, con cifre minori ma al di fuori della legge, si configura identico alla frode sulla compravendita dei diritti televisivi che ha portato alla condanna di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset.

Nero su bianco lo aveva messo il Gip di Milano simone Luerti: “L’associazione mafiosa oggetto di indagine otteneva la liquidità necessaria per proseguire nella sua illecita attività finanziaria, anche grazie alla complicità di alcuni dirigenti e funzionari di istituti di credito soprattutto postali, i quali omettevano di esercitare i controlli anti-riciclaggio previsti dalla legge”.

Una banca non si crea dal nulla e le risorse si trovano, dimostrano le indagini, oltre che dall’usura in senso stretto, anche con il prestito di denaro a “imprese amiche”, alcune di proprietà stessa degli ’ndranghetisti, e la “compravendita di denaro”. Pensabene, dominus della “banca clandestina” di Seveso andava a rastrellare denaro alle poste. Ha dichiarato il pm di Milano Paolo d’Amico: «Pensabene preferiva utilizzare le Poste, dove mandava i suoi scagnozzi a ritirare anche 100-200mila euro al giorno – ha spiegato ancora d’Amico – e dove i dirigenti conniventi non segnalavano niente all’antiriciclaggio. Bisogna intervenire a livello legislativo, perchè le Poste sono ormai una vera e propria finanziaria».

Il pm D’Amico: «Occorre intervenire a livello legislativo, perchè le Poste sono ormai una vera e propria finanziaria»

E sempre le poste sono un nervo scoperto anche nella vicenda Favara, dove lo stesso investiva nel circolo bancario parallelo i proventi di attività delittuose, concedendo credito a imprenditori in difficoltà, gestendo la restituzione di prestiti come un vero e proprio istituti di credito.

Un passaggio dell’ordinanza di custodia cautelare dell’operazione “’ndrangheta banking”

Insomma sono prestiti “agevolati” quelli della ’ndrangheta, che finiscono per diventare sistematicamente usura, così da scalare le società prese di mira per poi impossessarsene. In alternativa c’è appunto la provenienza delittuosa del denaro da reinvestire. Si pensi che nella sola Milano il giro della cocaina potrebbe fruttare circa 350mila euro al giorno in denaro contante: una manna che non è escluso possa finire proprio in questi circuiti di “credito parallelo”.

Allo stesso modo si verifica come ci siano nell’indagine «persone consenzienti che si prestavano, dietro compenso a porre a loro disposizione i propri conti correnti, attività o la propria opera anche in qualità di funzionari di istituti bancari e altro a riciclare il denaro incassato con le attività illecite mediante il cambio di assegni, cambiali, finanziamenti, muti e/o altre agevolazioni». Fotografie di sistemi illegali che affondano le proprie radici e prosperano su persone inserite in contesti legali permeabili e professionisti compiacenti. La difficoltà di accedere al credito da parte di imprenditori e privati cittadini fa il resto.

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