Bahrein, l’economia dell’era post-petrolio

Bahrein, l’economia dell’era post-petrolio

È l’incubo dei signori del Golfo. A Riyad come ad Abu Dhabi, a Kuwait City come a Doha, un interrogativo terrificante grava sugli emiri: che cosa succederà ai loro regni, quando il petrolio finirà? O, in alternativa, quando il prezzo del greggio calerà in modo significativo e duraturo? Per cercare di intuirlo bisogna guardare al Bahrein. 

Questo staterello del Golfo Persico, costituito da un arcipelago di una trentina di isole, una popolazione di appena 1,3 milioni di abitanti e un reddito pro capite di circa 36mila dollari, è famoso in Italia soprattutto per il circuito del Gran Premio di Formula 1 della capitale, Manama. In realtà il Bahrein rappresenta, a detta degli esperti, la prima economia post-petrolifera del Golfo

«Il Bahrein non è il solito emirato arabo arretrato e gonfio di petrodollari», dice a Linkiesta un imprenditore italiano attivo anche a Manama, che preferisce non rivelare la propria identità. «Chi pensa che sia una specie di Kuwait sull’acqua si sbaglia di grosso».

Manifestazioni filo-governative a Manama, la capitale del Bahrein (JOHN MOORE/Getty Images)

I numeri lo dimostrano: soltanto l’8% del Pil del Paese è generato dal settore idrocarburico, contro una media regionale del 28 per cento. Certo, il petrolio conta ancora molto: rappresenta la prima voce dell’export e la più significativa fonte di entrate per lo Stato. Tuttavia il Bahrein è un’economia fortemente diversificata e la più libera di tutta la regione del Medio Oriente e Nord Africa (Mena) secondo l’Heritage Foundation (e al tredicesimo posto nel mondo, tra USA e Regno Unito); rispetto ad altri Paesi del Golfo, il settore finanziario e manifatturiero hanno un peso assai superiore. Per esempio, la produzione di alluminio è significativa, e il regno è, insieme alla Malesia, uno dei più importanti centri della finanza islamica. Ancora, si punta sempre di più sul turismo, internazionale ma anche arabo. I costumi relativamente liberali del Bahrein (riguardo l’alcol, ad esempio) attraggono molti sauditi, che devono solo attraversare i 12 km del ponte King Fahd per raggiungere Manama.

«Il Bahrein non è il solito emirato gonfio di petrodollari»

Non è un caso, insomma, se a detta del World Investment Report 2014 delle Nazioni Unite gli investimenti stranieri diretti (Fdi) in Bahrein sono in continuo aumento: da 156 milioni di dollari nel 2010 sono saliti a 781 del 2011, per raggiungere quasi il miliardo l’anno scorso. Ancora, oltre a essere membro del Gulf Cooperation Council (GCC), il ricchissimo club delle petromonarchie del Golfo, il Bahrein ha stipulato accordi economici e commerciali con oltre 60 Paesi fra cui Cina, India e Singapore, oltre a un accordo di libero scambio con gli USA. Da più di un decennio, inoltre, Manama sta puntando fortemente sul manifatturiero, offrendo facilitazioni allettanti per le imprese che decidono di produrre in Bahrein ed esportano nella regione e non solo. In generale, il Paese ha cominciato prima di altri ad affrancarsi dalla tirannia dei petrodollari: insieme all’Oman, infatti, è l’unico stato arabo del Golfo a non far parte dell’Opec

La foto del re Hamad bin Issa al-Khalifa su un carro armato mentre le forze dell’ordine disperdono una manifestazione anti governativa a Manama, nel 2011 (JOSSEPH EID/Getty Images)

Le ragioni di ciò affondano nella storia. In Bahrein l’industria petrolifera si è sviluppata abbastanza presto, e perciò è arrivata alla sua maturazione ben prima di quelle di altri Paesi vicini. Basti pensare che «durante la Seconda guerra mondiale il Bahrein forniva già carburante agli alleati, e gli americani decisero di costruire lì un impianto di produzione petrolifera» spiega a Linkiesta Dave Winkler, storico della Naval historical foundation e autore del saggio “Amirs, Admirals and Desert Sailors: Bahrein, the U.S. Navy, and the Arabian Gulf” (Naval Institute Press).

E se nel 1980 le esportazioni nette di petrolio del Bahrein si aggiravano intorno ai 40mila barili al giorno, nel 2012 non hanno superato, secondo l’Energy information administration americana, i 5mila giornalieri. Se si considera poi che le riserve provate di greggio sono a dir poco esigue (persino l’Italia ne ha di più), è facile capire perché Manama abbia deciso di scommettere su altri settori per assicurare la propria ricchezza.

Manifestazioni anti-governative a Manama nel 2011 (JOHN MOORE/Getty Images)

Negli ultimi anni sono stati varate importanti riforme economiche, che per esempio hanno liberalizzato il mercato del lavoro (sclerotico in gran parte della Mena). Ancora, in Bahrein c’è una delle forze-lavoro meglio istruite della regione. In fondo è stato proprio questo piccolo regno il primo nel Golfo a creare un sistema di istruzione pubblica, nel 1919, e a permettere alle donne di studiare, nel 1928Il risultato è che, secondo il rapporto sullo Sviluppo umano 2011 delle Nazioni Unite, il tasso di alfabetizzazione fra gli adulti è del 91%

Come negli altri stati del Golfo, anche in questo caso dietro il successo economico c’è la casa reale, nella fattispecie Hamad bin Isa Al Khalifa, al potere dal 1999. Secondo un cablo  del 2004 dell’ambasciatore americano a Manama (divulgato da Wikileaks), il re sarebbe il “fulcro del Paese” e “un politico abile e intuitivo”. Un giudizio probabilmente corretto: in fondo è stato lui, nel 2001, a voler trasformare l’emirato in una monarchia costituzionale con un parlamento eletto, seppur di soli 40 membri. Khalifa bin Salman Al Khalifa, lo zio di Hamad, è primo ministro dal 1970 e presiede un gabinetto di ventitré membri nominato dal monarca; dodici di questi fanno parte della famiglia reale Al Khalifa. 

Una donna manifesta contro le forze dell’ordine nel 2011, l’anno della Primavera araba del Bahrein (JOHN MOORE/Getty Images)

Ma definire Hamad un sovrano illuminato sarebbe esagerato. L’evidente opulenza e la libertà economica che tanto piacciono ai businessmen di tutto il mondo non sono accompagnate da libertà politiche e sociali altrettanto sostanziali. Soprattutto dopo l’ondata della Primavera araba, che a partire dal 2011 ha investito anche il Bahrein, le violazioni dei diritti umani sono state sistematiche. L’ong di Washington freedom house classifica il Paese come non libero, e secondo l’ong di New York Human Rights Watch il sistema giudiziario locale svolge un ruolo essenziale nella repressione di ogni forma di dissenso politico. 

«La detenzione e la tortura vengono applicate sistematicamente contro chiunque si batta per la democrazia»

«Le violazioni dei diritti umani sono aumentate in modo significativo dal 2011, a causa dell’impunità dei responsabili», dice a Linkiesta Said Yousif Al Muhafdha, vice presidente del Bahrain center for human rights. «La detenzione e la tortura vengono applicate sistematicamente contro chiunque si batta per la democrazia». 

In effetti, secondo l’International Centre for prison studies, nella regione Mena il Bahrein è il Paese con la maggior popolazione carceraria in rapporto alla sua popolazione complessiva. Quando scoppiarono le prime proteste nel 2011, il re arrivò a chiedere l’intervento del Gcc, che mandò truppe saudite ed emiratine per soffocarle. E benché il numero dei manifestanti uccisi non sia paragonabile a quello registratosi negli altri Paesi al centro della Primavera araba, il Bahrein è stato l’unico Paese a chiedere l’intervento di forze armate straniere. 

Una madre piange abbracciando il figlio ferito durante gli scontri del 2011 a Manama (JOHN MOORE/Getty Images)

Non è una coincidenza. La durezza della repressione nasce anche da profonde inquietudini geopolitiche, legate a un ingombrante vicino: l’Iran. Infatti oltre metà della popolazione del Bahrein (esclusi i tanti stranieri che lavorano nel regno) è sciita, mentre il potere politico ed economico è completamente in mano alla dinastia sunnita degli Al Khalifa. E sebbene alle proteste di febbraio e marzo 2011 partecipassero anche molti giovani sunniti, erano gli sciiti i veri protagonisti; oltre a maggior democrazia e libertà, chiedevano uguaglianza, e la fine di quello che continuano a definire un vero e proprio apartheid. Ma garantire gli stessi diritti ai suoi sudditi sciiti significherebbe, agli occhi di Manama, permettere anche una maggiore influenza nei suoi affari interni da parte di Teheran. 

«Il Bahrein è un alleato molto importante per Washington da oltre cinquant’anni»

Un rischio troppo alto per la monarchia del Bahrein, minuscola ma di enorme importanza per gli equilibri geopolitici della regione. Il regno non solo si trova nello Stretto di Hormuz, la “giugulare dell’Occidente” attraverso cui passa circa il 20% del petrolio mondiale, ma ospita la Quinta flotta degli Usa. «Il Bahrein è un alleato molto importante per Washington da oltre cinquant’anni, – spiega Winkler – soprattutto grazie alle buonissime relazioni che l’emiro Isa bin Salman Al Khalifa, al potere dal 1971 al 1999, aveva allacciato con i vari ufficiali di alto livello della marina americana attivi nel Paese dagli anni Cinquanta». 

Uno shiita passa davanti a un murales contro il Grand Prix della Formula 1. «Stai gareggiando sul sangue dei martiri?», si legge (Getty Images)

Dal punto di vista americano non è difficile vedere l’importanza strategica della base nell’arcipelago del Bahrein. «Qualunque sconvolgimento nel flusso di petrolio dalla regione potrebbe danneggiare l’economia mondiale. – continua Winkler – Da parte sua, Manama ha sempre visto la presenza degli Stati Uniti come garante della stabilità di cui gli stati arabi del Golfo hanno bisogno per assicurare la propria prosperità»

Ed ecco che il re del Bahrein (sotto protettorato britannico fino al 1971) può permettersi di collezionare rapporti sulle violazioni dei diritti umani senza che la comunità internazionale proferisca verbo. L’anno scorso Manama ha persino negato il visto d’entrata allo Special rapporteur sulla tortura delle Nazioni Unite, che doveva verificare gli abusi sofferti dai manifestanti in carcere. Ma sullo scarso rispetto per i diritti fondamentali dei suoi cittadini, sia Washington che Londra chiudono un occhio. L’importante è che il greggio continui a scorrere, e che l’Iran sia tenuto sotto controllo.

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