Il calcio italiano è a un bivio, l’ennesimo della sua lunga storia. L’11 agosto verrà deciso il nuovo numero uno della Federcalcio. Che avrà un compito difficile, difficilissimo. No, non ci riferiamo alla nomina del nuovo commissario tecnico della Nazionale. Quella è solo la punta dell’iceberg. Il prossimo capo del calcio italiano dovrà guidare in rinnovo di un sistema arrivato ormai al collasso. Ma tra spinte alla tabula rasa e paure di restaurazione (vedi alla voce Tavecchio), sembra che ancora una volta a pesare sulle prossime elezioni agostane saranno gli appoggi che contano piuttosto che le abilità dimostrate sul campo. Con il rischio che lo status quo vinca sul rinnovo. Una divisione anche geografica: a Roma i “vecchi” che gravitano attorno al palazzo della Figc, a Milano gli innovatori che sembrano tagliati fuori dalla corsa.
«Largo ai giovani, ecco Tavecchio». Il tormentone estivo lambisce palazzi romani e redazioni dopo la disfatta mondiale e le richieste di rifondazione. Il riferimento è a Carlo Tavecchio, manager classe 1943 attualmente presidente della Lnd e vicepresidente vicario della Federcalcio, in pole position per la poltrona di Abete. «Un ragazzo del vivaio Figc», punzecchia Ivan Zazzaroni. Settantuno anni il prossimo 13 luglio, Tavecchio è originario di Ponte Lambro, comune dell’Alta Brianza di cui è stato sindaco in quota Democrazia Cristiana dal 1976 al 1995. Politico diccì proprio come il collega Abete, già deputato forlaniano a Montecitorio per tre legislature. Ma la scalata sportiva di Tavecchio parte dal consiglio regionale lombardo della Lega Nazionale Dilettanti, di cui nel 1999 diventa presidente nazionale e dominus. Dal 2007 è pure vicepresidente della Figc, nel curriculum si notano una consulenza per il Tesoro e altri incarichi in commissioni ministeriali. Ultimo, non per importanza, un libro dedicato alla nipotina Giorgia: “Ti racconto…Il Calcio”.
Ex dirigente bancario con in tasca un diploma di ragioneria, a via Allegri Tavecchio è considerato «uomo dell’apparato» nonché profondo conoscitore del mondo del pallone. Lui glissa e si abbottona ma è il vero candidato da battere per la poltrona di Abete. L’attuale sistema di votazione lo proietta presidente con buona pace dei rottamatori: per vincere gli bastano i voti di dilettanti (34%) e Lega Pro (17%) del sodale Mario Macalli, senza considerare l’appoggio di una fetta dei presidenti di Serie A guidati da Claudio Lotito, amico-alleato che nei palazzi del calcio si muove con disinvoltura acquistando sempre maggior peso specifico. Proprio il presidente della Lazio avrebbe organizzato un summit a Forte dei Marmi per discutere della questione con Galliani, Cairo e Preziosi. Finora l’alt più rumoroso è arrivato da Barbara Berlusconi: «Il governo del calcio va rifondato, spazio a quarantenni preparati. Il calcio italiano, così come percepito all’estero, significa difesa dello status quo». Altri patron di serie A osservano silenti in attesa di fiutare gli sviluppi, ma resta un dato di fatto: la massima serie, traino e vetrina del calcio tricolore, pesa solo per il 12% nello scacchiere elettorale della Figc.
Così Tavecchio si concede le prime uscite tv mentre le agenzie di stampa rilanciano i suoi piani per l’avvenire: «Immagino una cantera azzurra con l’ausilio di team manager in grado di far crescere il movimento». E ancora: «La nuova Figc non può permettersi un ct che guadagna 2 milioni». Gli arriva pure l’endorsement del “poltronissimo” Franco Carraro, per decenni plenipotenziario del palazzo sportivo: «Stimo Tavecchio, è persona poco glamour ma molto solida». Il know-how che in molti gli riconoscono deriva dalla lunga stagione al comando della Lega Nazionale Dilettanti, oggi cassaforte strategica di consenso per raggiungere il vertice della Federazione. «Il cuore del calcio», si legge sul sito ufficiale Lnd e non è un modo di dire. La Lega Dilettanti è il paese reale del pallone italico: ha in pancia 1,3 milioni di calciatori dall’attività ufficiale a quella amatoriale e ricreativa, 15.000 società e 70.000 squadre impegnate in 700.000 partite stagionali, 1 miliardo e 500 milioni di euro tra tesseramenti e iscrizioni ai campionati. Bastano questi numeri per capire che la Lnd rappresenta «la quasi totalità del calcio italiano».
Nel mare magnum emerge anche qualche dettaglio come quello dei campi sintetici delle società, che devono essere omologati. Nella Lega Nazionale dilettanti c’è un unico laboratorio autorizzato a testarli, pratica richiesta periodicamente. L’azienda “fortunata” è la Labosport di Roberto Armeni, figlio del capo della Commissione impianti in erba sintetica della Lega Dilettanti. Conflitto d’interessi?Interpellato da Report, Tavecchio rispondeva: «Non voglio che mi venga in mente di andare alla Rai e vedere quanti amici, conoscenti, parenti e amanti ci sono. Poi andare in Federazione, scendere le scale e arrivare fino al Coni e vedere quanti ce ne sono. Io ce n’ho uno, dicasi uno». Intanto La Repubblica fa i nomi di tre marchi che ricorrono quasi sempre nella realizzazione dei manti di erba sintetica degli impianti certificati. Il primo, Limonta Sport, versa 200.000 euro nelle casse della Lega dilettanti in qualità di sponsor e, secondo quanto riferisce il quotidiano, l’amministratore delegato Paolo Limonta «è amico di vecchia data» di Tavecchio. Fatto sta che l’azienda citata, Mondo Spa e Italgreen «insieme detengono il 90% del mercato del sintetico in Italia».
Campi sintetici a parte, i critici puntano il dito su altri guai che andrebbero a lambire la corsa del superdirigente. Spunta infatti un’interrogazione parlamentare dell’ex deputato Pdl Amedeo Laboccetta che, partendo dallo statuto della Figc secondo cui «sono ineleggibili coloro che hanno riportato condanne penali passate in giudicato per reati non colposi a pene detentive superiori a un anno», andava all’attacco del presidente della Lega Dilettanti. «Carlo Tavecchio – si legge nell’interrogazione – annovera condanne penali per anni uno, mesi tre e giorni ventotto di reclusione, oltre a multe e ammende per euro 7.000». I provvedimenti, spiegava Laboccetta, si riferiscono a «falsità in titolo di credito continuato in concorso», «violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto», «omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali», «omissione o falsità in denunce obbligatorie», «abuso d’ufficio» e «violazione delle norme per la tutela delle acque dall’inquinamento». Un curriculum giudiziario che adesso fa mormorare più di qualche addetto ai lavori.
Pagnozzi dalla delusione Coni al riscatto in Figc
In posizione defilata, ma pur sempre in lizza per il governo della Figc, ci sarebbe anche Raffaele Pagnozzi detto “Lello”, avellinese classe 1948. Navigato manager sportivo dalle ottime conoscenze, frequenta i corridoi del Comitato Olimpico Italiano dal lontano 1973. Il cursus honorum a Largo de Bosis è lungo: segretario generale del Coni per vent’anni, amministratore delegato di Coni Servizi, segretario dei comitati olimpici europei, capo missione della squadra italiana alle Olimpiadi, commissario straordinario della Figc, ma anche giornalista professionista e capo della segreteria del Ministero del Turismo. Pure la sua vita privata scorre nel segno dello sport: appassionato di basket e vela, sua figlia ha sposato l’ex capitano della Lazio Alessandro Nesta. Per anni al lavoro in silenzio nelle stanze dei bottoni, il suo profilo finiva sotto i riflettori in occasione delle Olimpiadi al seguito della delegazione azzurra, come quando a Londra 2012 firmava una lettera di protesta ufficiale indirizzata alla regia olimpica che non aveva inquadrato Napolitano durante la sfilata degli atleti italiani nella cerimonia d’apertura.
A febbraio 2013 fa rumore la sua sconfitta nella corsa alla presidenza del Coni, che ora è di Giovanni Malagò. Pagnozzi era il delfino dall’uscente (e potente) Gianni Petrucci, sostenuto da presidenti di federazione e grandi elettori che tifavano per una «rassicurante continuità» al governo dello sport italiano. «La rottamazione mal si concilia con il Coni perché abbiamo dimostrato che non siamo fermi», dichiarava al Corriere prima della rivoluzione. Partito col favore dei pronostici, evidentemente ha sottovalutato «il grande malcontento» ed è stato battuto al fotofinish proprio dal rottamatore Malagò (55 anni), che pure vanta amicizie trasversali nel mondo politico, imprenditoriale e finanziario del Belpaese. Niente dinastia al trono di Largo De Bosis, Pagnozzi ha dovuto arrendersi davanti al rampante manager romano. E adesso la rivincita potrebbe arrivare con la poltrona di via Allegri, che Lello conosce bene dopo essere stato commissario straordinario Figc negli anni Novanta. Stavolta magari ci sarebbe il campo libero da Malagò che, al momento senza un suo candidato forte, dichiara: «Sulla Federcalcio il Coni è impotente». Andrà effettivamente così?
Abodi, un candidato di Serie B
Se è vero che la poltrona di numero uno della Figc sta a Roma, una fetta (ricca, ma di soldi) che decide chi ci si deve sedere sta a Milano. Le sedi della Lega di Serie A e B, ad esempio. La scelta del numero uno passa da loro, ma più che a livello di voti (la massima serie pesa per il 12%) contano le volontà dei presidenti dei grandi club dopo l’elezione. E allora, se queste avranno un peso, Andrea Abodi è uno che può considerarsi tagliato fuori.
Il presidente della lega di Serie B non si fa illusioni. Il 30 giugno scorso, all’ingresso della sede della Federcalcio, si è limitato a dire: «È giusto che parlino i candidati». Un chiaro riferimento a Tavecchio, che poco prima si era concesso ai microfoni in via Allegri. Ma anche la consapevolezza, da parte di Abodi, di sapere che anche se venisse eletto difficilmente incontrerebbe il favore di Claudio Lotito e Adriano Galliani. Già, perché Abodi è un riformatore. Non è un nome come quello di Roberto Baggio, proposto per la panchina di ct soprattutto da molti tifosi sui social. A differenza del “Divin Codino”, Abodi rappresenterebbe una candidatura giustificata dai risultati. Però a Baggio non lo hanno nemmeno fatto lavorare. Nominato presidente del settore tecnico della Figc il 4 agosto 2010, l’ex numero 10 della Nazionale si è dimesso poco meno di 3 anni dopo. Così: «Ho provato a esercitare il ruolo che mi era stato affidato, non mi è stato consentito e non sono più disposto ad andare avanti. Ho lavorato per rinnovare la formazione dalle fondamenta, creare buoni calciatori e buone persone. Ho presentato il mio progetto (contenuto nel libro Rinnovare il futuro, ndr) nel dicembre 2011, 900 pagine, ed è rimasto lettera morta».
I risultati invece parlano per Abodi, che in carica da numero uno della cadetteria ha fatto cose egregie. Uno che ha un background da manager, spesso e volentieri nel mondo sportivo. Fondatore e vicepresidente di Meda Partner Group, è stato tra il 2002 e il 2008 membro del cda di Coni Servizi, oltre che direttore generale della Coppa del Mondo di baseball a Pescara. Poi, la Serie B. Che con lui è diventata un’isola felice, tra una serie A con i bilanci in rosso (solo il Napoli chiude gli esercizi da 7 anni di seguito in attivo) e una Lega Pro dove ogni anno falliscono e spariscono delle squadre (4 solo quest’anno). Attraverso tre vie, assenti in tutte le altre serie: salary cap, marketing associativo e stadi di proprietà.
Tutte cose che avremmo potuto vedere in Serie A. Ma nel 2012, quando si candidò alla poltrona di Maurizio Beretta, Abodi fu messo da parte da un calcio che non voleva – e non vuole – cambiare. Non gli venne nemmeno data la possibilità di farsi votare, ostracizzato dal duo Galliani-Lotito che in un colpo solo mantennero lo status quo e misero da parte Moratti e Agnelli, che Abodi lo avrebbero gradito. Il problema è che il numero uno della B voleva la A riportata a 18 squadre, il che avrebbe significato meno introiti dai diritti tv e meno possibilità per le grandi di avere piccole squadre con le quali fare affari (ovvero: io parcheggio un rottame strapagato da te, tu dai il tuo migliore giovane a me, perché qui comandano le grandi). E poi, Galliani e Lotito hanno rapporti stretti, strettissimi con l’advisor della Lega di A, la Infront. Il suo fondatore, Marco Bogarelli, è stato nel cda di Milan Channel, mentre il legale che si è occupato della recente vicenda sui diritti tv è Giorgio De Nova, che ha fatto parte del pool di avvocati che ha difeso Fininvest nel processo d’appello del lodo Mondadori. Non solo: Infront gestisce la parte marketing di molte squadre della massima serie, tra cui la Lazio di Lotito. In tutto questo gioco di rapporti, scambi e favori, Abodi avrebbe fatto la parte del disturbatore.
La melina di Albertini: dentro o fuori?
Un altro che vorrebbe la A a 18 squadre è Demetrio Albertini. Il vicepresidente dimissionario della Figc sta facendo melina, in questi giorni. Già prima della spedizione brasiliana pareva volesse chiamarsi fuori, per poi tornare sulla bocca di tutti dopo la bufera di Natal e le dimissioni di Giancarlo Abete. A fine giugno la sua candidatura sembrava saltata, ma il suo nome resta dietro le quinte, latente e pronto a saltare fuori di nuovo.
Su Albertini pesa il veto della massima serie, per il solito motivo: la voglia di innovare. Albertini vuole meno squadre ma più sane in A e questo gli dovrebbe valere – in caso di candidatura – l’appoggio dell’Aic, il sindacato dei calciatori, una delle sette “anime” che siede nel Consiglio Federale. Ma la cosa, come visto per Abodi, non piace alle big, ma nemmeno troppo a quelle piccole che una volta arrivate in A vogliono almeno per un anno una fetta della ricca torta dei diritti tv. E poi, Albertini ha altre due idee strane. La prima: mettere un po’ di paletti ai giocatori extracomunitari che vengono a giocare nel nostro campionato. Un modo per preservare i nostri vivai e, di riflesso, le nostre nazionali dall’Under 21 in giù. Ma anche qui, non è che i club gradiscano più di tanto, perché il calciomercato è un contenitore di interessi che sfuggono ai tifosi, ai quali interessa che le squadre si rafforzino salvo poi accorgersi dopo 4 anni, all’appuntamento con la figuraccia Mondiale, che qualcosa non quadra.
Il blocco agli stranieri, si potrà obiettare, funzionò dopo la disfatta contro la Corea nel 1966, ma oggi i tempi sono cambiati. Sarà. Intanto Albertini aveva avuto un’altra idea strana, nuova: il campionato riserve. Sull’esempio di quello che succede già in Inghilterra, creare un torneo parallelo alla Serie A e in cui giocano quelli che non trovano spazio in prima squadra. Giovani e meno giovani assieme, per fare esperienza o rivalutarsi. Ma anche qui, c’entrano gli interessi legati al calciomercato: perché aspettare che un giocatore rientri in forma, quando puoi usarlo come pedina di scambio subito? Ed ecco che anche Albertini è fuori dalla corsa. Gli si potrà sempre rinfacciare che fu lui, appena arrivato in Figc, a indicare Roberto Donadoni come ct dell’Italia che da campione del mondo in carica fallì a Euro 2008.