Jobs Act, la sparizione del “contratto unico”

Jobs Act, la sparizione del “contratto unico”

Lo chiamavano contratto unico, ma non lo è più. Il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato, che il Parlamento girerà al governo presumibilmente entro luglio, non sostituirà i cocopro e gli altri contratti parasubordinati in cambio di una maggiore semplicità di licenziamento. Rimane invece solo il principio di una “protezione crescente” delle tutele dei lavoratori con il crescere degli anni di lavoro. In questa direzione, almeno, spingono i senatori di Scelta civica e Nuovo centro destra, partendo dall’incipit del decreto Poletti.

Cosa prevede il decreto Poletti 

Il decreto Poletti (dl n. 34 del 20 marzo 2014) nell’incipit della sua legge di conversione (legge n.78 del 16 maggio 2014) recita: «Il Governo è delegato ad adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge un decreto legislativo contenente un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente, senza alterazione dell’attuale articolazione delle tipologie dei contratti di lavoro».

Il testo del decreto Poletti

Il nuovo progetto di Ichino

Come interpretare questa indicazione è ora compito della Commissione Lavoro del Parlamento che sta discutendo in questi giorni per arrivare all’approvazione di una legge delega (n. 1428/2014) da conferire entro fine luglio all’esecutivo.

Scelta civica, con l’appoggio del Nuovo centro destra di Angelino Alfano, ha le idee chiare: il contratto a tutele crescenti deve essere quello proposto dal senatore/giuslavorista Pietro Ichino. In molti lo chiama(va)no “contratto unico”, ma unico non è. O perlomeno non lo è più.

I “due contratti unici”

Del contratto “unico” conoscevamo essenzialmente due declinazioni: la prima, il progetto “progetto Boeri-Garibaldi”, che prevedeva la possibilità di licenziamento nel primo triennio con la corresponsione di un risarcimento e con applicazione delle tutele previste dall’articolo 18 previste dallo statuto dei lavoratori dal quarto anno in poi. La seconda, il progetto Ichino, nella quale il licenziamento poteva avvenire anche dopo il terzo anno ma sul datore di lavoro grava l’obbligo di integrare il trattamento di disoccupazione a favore del dipendente licenziato. 

Se in un primo momento il contratto a tutele crescenti era nato per essere l’unica porta di ingresso al mondo del lavoro per i nuovi assunti, oggi, invece, è lo stesso Ichino a precisare che il contratto a tutele crescenti non andrà a sostituire gli altri rapporti di lavoro (come i contratti a progetto, co.co.co, partite I.v.a, contratti a termine ecc) ma consisterà in un «contratto ordinario a tempo indeterminato, regolato in modo meno rigido, con una garanzia di stabilità minima all’inizio del rapporto e via via crescente con il crescere dell’anzianità di servizio della persona interessata».

Articolo 18, i timori del Pd

Il timore di una parte del Pd è che eliminando le tutele previste dall’articolo 18 nei primi anni del contratto a tutele crescenti si procederà poi a scardinare quello che per loro è un punto chiave dello statuto dei lavoratori. Dal canto suo l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha confermato più volte la paura di questa frangia democratica, sottolineando come uno dei risultati della delega sarà proprio il cambiamento dell’articolo 18, per mantenere il reintegro solo in caso di licenziamento discriminatorio. Da una parte, quindi, il Pd chiede di aumentare gli aiuti alle imprese senza però diminuire le tutele, dall’altra la ritiene un’operazione necessaria per dare maggiore flessibilità in uscita e modernizzare il mercato del lavoro.

Facile capire come gli esponenti del Partito democratico della commissione lavoro alla Camera, molti dei quali ex Cgil come d’altronde il presidente della commissione Cesare Damiano, siano sul piede di guerra.

Una posizione netta del ministro Poletti al momento non sembra esserci ancora, così come una posizione unanime del Partito democratico. Da soli Scelta civica e Nuovo centro destra non hanno i numeri per l’approvazione della legge delega ma sono intenzionati a dare battaglia.

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