La grande confusione delle politiche per il lavoro

La grande confusione delle politiche per il lavoro

Dalla riforma Fornero ai bonus del governo Letta, dal decreto Poletti al tanto declamato Jobs Act. Governo che vai, riforma del lavoro che trovi. Davanti alla disoccupazione crescente, le politiche per il lavoro applicate in Italia negli anni della crisi hanno seguito l’andamento confusionario delle diverse leggi estratte dal cilindro per far fronte all’emergenza disoccupazione. Il risultato, come viene fuori da un’analisi effettuata da Isfol (Ente pubblico di ricerca sui temi della formazione, delle politiche sociali e del lavoro), è un mix di politiche che non ha ancora trovato un assetto stabile: negli anni della crisi è cresciuto il ricorso alle politiche passive – spesso iniezioni di denaro in una visione emergenziale – ed è diminuito invece l’uso di politiche attive – che farebbe intendere una visione di lungo termine. Anche le aziende faticano a star dietro a un’offerta così disomogenea, in cui spesso ogni regione fa a modo suo.

L’arlecchino delle politiche Tra gli strumenti di politiche attive più usati c’è la formazione, di competenza regionale. Il target di queste politiche sono i giovani (per l’inserimento lavorativo) e i lavoratori colpiti dalla crisi. In alcuni casi, si è cercato di utilizzare il periodo di “fermo” dei lavoratori licenziati o in cassa integrazione come opportunità di riqualificazione. Ma «la formazione settoriale rimane comunque molto frammentata, non ricorsiva e occasionale», si legge sullo studio Isfol. Pochi invece i progetti di alternanza scuola-lavoro, attivati principalmente negli istituti professionali e tecnici e pochissimo nei licei. La maggior parte di questi istituti si concentra al Nord, scarsi al Sud. Rispetto alle agevolazioni per le assunzioni, l’apprendistato è la modalità più utilizzata. Ma anche qui, ogni regione fa a modo suo, senza un indirizzo comune. Così come avviene per stage e tirocini, che pure risultano tra gli strumenti preferiti dalle aziende.

Come incentivo alle imprese, la pratica maggiormente diffusa è stata quella del microcredito, soprattutto nei servizi, artigianato, commercio, manifatturiero e tra le aziende che operano nell’ambito dell’ICT. Usati anche i cosiddetti prestiti d’onore per incentivare l’autoimpiego, e i finanziamenti regionali per favorire la nascita di startup di giovani ad alta innovazione.

La confusione delle imprese Davanti a un tale arlecchino di strumenti, dal questionario somministrato da Isfol a 1.280 imprese, è emerso che, nel triennio 2010-2012, solo 140 hanno fatto ricorso a strumenti di politica attiva del lavoro. Di queste, il 62,5% lo ha fatto per interventi obbligatori, quindi non per un interessamento volontario. Le imprese interessate all’utilizzo di queste politiche sono il 22,9% (il 29,7% quelle che vogliono farlo nei prossimi 12 mesi) ma vengono frenate per diversi motivi: il 10,4% non conosce gli strumenti a disposizione; l’8,6% ha provato ad accedere senza risultato; il 3,9% conosce gli strumenti ma non le procedure il 3,9 per cento. Tra gli aspetti da migliorare per un maggiore accesso alle politiche del lavoro, le aziende hanno indicato la semplificazione delle procedure di accesso e di attuazione, la creazione di strutture territoriali per facilitare l’informazione e l’accesso agli strumenti, il miglioramento delle attività di promozione e comunicazione degli interventi.

Quello che viene fuori è «un’assenza totale di coordinamento tra le politiche delle sviluppo territoriale e le politiche attive del lavoro, come se queste ultime fossero indipendenti o isolate. Sembrano mancare, anche, strategie di lungo termine sia a livello nazionale che regionale nell’ambito delle quali promuovere interventi per l’impiego». La causa viene attribuita «all’incapacità di leggere le dinamiche socio-economiche ed i fabbisogni territoriali, che, sommate ad un’inadeguata e frammentata struttura di governance (che sembrerebbe disperdere anziché convogliare le azioni), determina un’incapacità delle politiche attive di svolgere un ruolo determinante nella crescita della competitività delle imprese». Da un lato, le imprese sono consapevoli dei propri fabbisogni professionali e occupazionali ma si muovono alla rincorsa dell’incentivo e, soprattutto in questa fase economica, sono più interessate ad arginare le emergenze. Il ricorso a queste politiche sembra insomma più legato a una contingenza di breve termine che a una programmazione strategica di medio-lungo periodo.

In particolare, non vengono considerati utili i corsi di formazione, aggiornamento o di riqualificazione professionale obbligatori per i lavoratori in cassa integrazione straordinaria, «poiché obbligatori per l’ottenimento degli incentivi ed inoltre di scarsa utilità per la ricollocazione dei lavoratori, poiché di durata breve e rivolti ad un target di adulti spesso caratterizzati da bassa qualificazione». Migliore valutazione invece sulla formazione strategica e l’alta formazione: in questo caso l’impresa opera scelte formative mirate per colmare fabbisogni specifici nell’organizzazione aziendale.

Giovani poco coinvolti Riguardo al coinvolgimento della componente femminile nelle iniziative di politica attiva, circa il 32,9% delle imprese dichiara di coinvolgere una percentuale di donne compresa tra l’1 e il 9% mentre circa il 23% afferma di coinvolgerne una percentuale tra il 10 e il 39 per cento. Scarsamente interessati anche i giovani, altro tallone d’Achille del mercato del lavoro. Dati alla mano, più del 31% delle imprese sostiene di coinvolgere nelle iniziative di politica attiva una percentuale di giovani compresa tra l’1 e il 9%; il 22% delle imprese dichiara di coinvolgere giovani per una percentuale complessiva tra il 10 e il 39%. 

Chi mette i soldi? Dall’analisi dei dati relativi ai canali di finanziamento più utilizzati, viene fuori che nella maggior parte dei casi (più del 44%) le aziende ricorrono ai Fondi interprofessionali per l’attuazione di politiche del lavoro. A livello territoriale emerge un’altra differenziazione: nel Veneto i Fondi interprofessionali con una percentuale di circa 58% risultano essere il canale di finanziamento maggiormente utilizzato; nelle regioni Convergenza (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) risulta prevalere il ricorso ai fondi privati dell’impresa (42%). Per quanto riguarda il ricorso ai fondi pubblici, anche in questo caso emergono differenze territoriali: i fondi comunitari (Fondo sociale europeo) risultano utilizzati in percentuale leggermente maggiore in Veneto, mentre i fondi nazionali, regionali e provinciali risultano maggiormente utilizzati dalle imprese delle regioni dell’obiettivo convergenza. Sul fronte degli incentivi all’assunzione, si registrano percentuali più alte solo in Campania, dove si fa anche un uso maggiore di fondi comunitari, nazionali e locali che finanziano questo tipo di incentivi.

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