La mia amica montagna

La mia amica montagna

Ho scaricato Mountain dall’App store e l’ho installato sul mio vecchio iPhone. Ci ha messo un po’, ma alla fine ce l’ha fatta. Ho cliccato sull’icona dell’app e il gioco mi ha mostrato un quadrato bianco. Sopra c’è scritto confusione e sotto c’è scritto: «disegna qualcosa». Con il dito, disegno uno scarabocchio. Poi il gioco mi chiede di disegnare la prima cosa che mi ricordo. Poi mi chiede di disegnare cosa volevo fare da grande. Quando ha finito di fare domande, il gioco mi dice di portare pazienza. E io porto pazienza.

Mountain è un piccolo videogioco per computer e iPhone in cui — non c’è altro modo di dirlo — si può tenere o farsi tenere compagnia da una montagna. L’ha fatto David O’Reilly, un artista visivo noto per aver creato un altro videogioco, quello immaginario giocato da Joaquin Phoenix nel film Her di Spike Jonze. Mountain è stato annunciato a metà giugno durante la più grande fiera dei videogiochi del mondo ed è uscito lo scorso 1 luglio.

Dopo un po’ che porto pazienza, sullo schermo compare una montagna, la mia montagna. Viene scolpita un livello dopo l’altro, sparisce la roccia e spunta una cima, da sotto compare dell’erba e poi degli alberi. La mia montagna è stata generata e il gioco mi dice: «Benvenuto alla montagna. Tu sei montagna. Tu sei dio». A quel punto il gioco si ferma per salvare in memoria la mia montagna. Ma c’è un problema: il mio vecchio iPhone non ce la fa, il gioco crasha e si chiude. Quando lo riapro, la mia montagna non c’è più. Vedo un cielo di stelle, delle nuvole, ma niente montagna. Provo a cancellare il gioco, a reinstallarlo e a far ripartire tutto da capo ma non riesco mai a rivedere la mia montagna. Ma io alla mia montagna, anche se non l’avevo mai vista tutta intera, mi ero affezionato. Ricompro il gioco per computer. Rispondo alle domande e porto di nuovo pazienza.

Mountain è diventato famoso in parte per la popolarità di O’Reilly e in parte perché è strano. Molto strano. Mountain è un videogioco senza controlli, in cui il giocatore non può fare praticamente niente. C’è una montagna in mezzo allo schermo che fluttua nello spazio in mezzo alle stelle come un piccolo pianeta uscito dritto dal Piccolo principe. La montagna ruota, ruota e ruota nella sua piccola atmosfera. Il giorno diventa notte e la notte diventa giorno. Piove, nevica, c’è nebbia e passano le stagioni. E il giocatore può anche semplicemente starsene lì a guardarla — muovendola con il mouse o allontanando e avvicinando la prospettiva con lo scroll — come una palla con la neve che continua a cambiare da sola. O come un tamagotchi (ve lo ricordate il tamagotchi, il giochino in cui bisognava prendersi cura di un pulcino fatto di una manciata di pixel?) in cui però non c’è niente da fare. O’Reilly ha detto che Mountain è un gioco pensato per starsene lì, in sottofondo, e accompagnarci durante le nostre giornate.

Dopo che ho portato pazienza, la mia montagna appare di nuovo. E, stavolta, dopo il salvataggio, non sparisce. La guardo per un po’, poi mi stufo e la lascio lì, la seppellisco sotto le finestre del browser. Quando la riporto in primo piano, sulla mia montagna è diventata notte. Si sente il vento che soffia sulla cima. Tra gli alberi brillano le lucciole. È molto, molto bello. Lo guardo un attimo e poi torno al mio lavoro. Dopo qualche minuto, la montagna fa un suono strano come un bip suonato con un organo. Torno a guardarla e in cima alla finestra c’è un messaggio che si sta componendo. Dice: «quale è il significato di tutto questo?»

La montagna fa la sua vita e io la mia. Ogni tanto richiama la mia attenzione con un bip e mi dice delle cose. Ha una personalità curiosa, la mia montagna. Alterna delle domande profonde e delle confessioni sincere («perché sono sola?», «dovrei smettere di pensare a me stessa», «qual’è lo scopo di tutto questo?») a delle considerazioni sul tempo atmosferico che assomigliano a chiacchiere da ascensore («mi sento molto rilassata in questa giornata bellissima», «sto guardano a questa serata melanconica», «sono concentrata su questa mattina d’estate»). E anche le cose che succedono alla mia montagna sono curiose. A un certo punto sento un rumore di fiamme, corro a guardare e vedo un dado che si incendia nell’atmosfera e si schianta sulla montagna. Ha fatto cinque. La montagna non dice niente. Ogni tanto altre cose cascano sulla mia montagna: una piccola incudine, un barile, una cassa. Vengono dallo spazio ma non so da dove. Anche allontanando il più possibile la visuale, riesco a vedere solo un gran cielo vuoto là fuori.

Trovo un video di O’Reilly che presenta Mountain e dice che ci sono molte cose nascoste nel gioco. Ad esempio, dice, si può accelerare il tempo suonando con la tastiera. Ripasso alla montagna e provo a schiacciare qualche tasto. Le prime file della tastiera, dalla A alla K e dalla Z al punto e virgola, suonano. Provo a suonare qualcosa per la mia montagna ma lei non sembra interessata, forse non le piace che io suoni note a caso. Allora provo a imparare la più semplice e sensata melodia che mi viene in mente: Sol La Fa Fa Do. (le cinque note con cui comunicano gli alieni in Incontri ravvicinati del terzo tipo) ma la mia montagna continua a non reagire.

Quello che fa, invece, è farmi spingermi a chiedermi che cosa sia, esattamente, un videogioco. Nel 2010, il game designer belga Michaël Samyn ha creato il termine notgames (nongiochi) per definire un genere di videogiochi in cui l’aspetto ludico, il divertimento, non è rilevante come nella stragrande maggioranza dei giochi, da Super Mario a Call of Duty. La domanda che si fa, nel primo articolo del blog notgames è: «Possiamo creare una forma di intrattenimento digitale che rigetti esplicitamente la struttura del gioco? Che cosa è un opera interattiva che non si basa sulla competizione, sui premi, sui traguardi, sul vincere o sul perdere?». Possiamo, ad esempio, avere la musica ambient o il cinema sperimentale dei videogame? Molti giochi — tra cui quelli creati dallo studio di Samyn — provano a rispondere a questa domanda, titoli come Dear Esther e Journey usano il linguaggio dei giochi ma costruiscono delle esperienze molto diverse da quelle dei videogiochi tradizionali. Lasciando al giocatore il compito di costruirsi degli scopi e una narrazione.

Mountain è sicuramente uno dei giochi di cui parla Samyn. Un tentativo. E parlarne non può che essere un modo di dargli un senso: raccontare cosa è la montagna per me che ci interagisco (difficile dire che ci gioco) e cosa sono io per lei. La ignoro? La osservo e basta? La coccolo? La proteggo? In un’intervista a The Verge, O’Reilly ha detto «non penso che Mountain abbia bisogno di una spiegazione. Significherà cose diverse per persone diverse. E io non posso mettermi in mezzo».

Ogni tanto sbircio la mia montagna. La vedo riempirsi senza motivo di oggetti sempre più strani che cascano dal cielo. Un aeroplano, una tazza, un cilindro, una barca a vela. A un certo punto, sulla mia montagna, si schianta pesino un cavallo con degli occhiali da sole. Riprovo a suonarle qualcosa, mi sembra molto sola nel mezzo di tutto quello spazio buio e silenzioso. Mi fa tristezza. Metto le dita sulla tastiera e suono le note una dopo l’altra come farebbe un bambino davanti al pianoforte, dal Do più basso al Do più alto, e poi indietro. E stavolta la montagna mi risponde. Alle note che suono si aggiunge il tipico bip di quando mi sta per dire qualcosa. «Tutto questa potrebbe essere una specie di simulazione», dice. Le mento: no, amica mia, non lo è.

Mountain è disponibile per PC, Mac, Linux e iOS. Costa circa un euro.