“La storia infinita” ha 30 anni

“La storia infinita” ha 30 anni

La peste ai produttori

Tutti conoscono La storia infinita, grande cult fantasy degli anni ’80, e quasi tutti sanno che il film è tratto da un romanzo per ragazzi di Michael Ende; non tutti sanno però che lo scrittore bavarese detestava quella trasposizione, e si espresse a riguardo con toni shakespeariani, augurando « la peste ai produttori».

Tutto cominciò nel 1982, quando un autore di romanzi per l’infanzia molto popolare in Germania firmò il contratto per la versione cinematografica del suo bestseller, pubblicato tre anni prima. Il progetto parte bene, Ende collabora con il regista Wolfgang Petersen alla sceneggiatura e, nell’estate dell’83, con un budget di circa 27 milioni di dollari — il più alto mai stanziato fino a quel momento per una produzione tedesca — iniziano le riprese. Ma secondo modi e tempi che non ci è dato conoscere, Ende viene progressivamente estromesso dalla realizzazione, tanto che la sceneggiatura definitiva sarà da lui visionata soltanto a cinque giorni dalla première, quando ogni tentativo di modifica sarebbe stato comunque fuori tempo massimo.

La reazione di Ende è categorica e intenta causa alla produzione per togliere il suo nome dai titoli di testa: si sente ingannato dai produttori, che secondo lui non hanno capito niente del libro e hanno pensato unicamente a fare soldi.

Ma qual è il motivo di tanta delusione, si chiederanno i fan del film, considerato un vero cult generazionale e un baluardo della cinematografia fantasy? Chi ha letto il libro sicuramente qualche idea ce l’ha. Sa per esempio che la trasposizione di Petersen racconta solamente metà della vicenda, liquidando il resto con la formula «Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta», impiegata dallo stesso Ende per dare qualche assaggio del futuro dei personaggi minori, dimostrando come la loro vita travalichi le pagine scritte. Un concetto, questo, molto caro a Ende, che non a caso progetta il suo libro con un complicato sistema di mise en abyme per cui La storia infinita è il titolo di ben tre libri: quello scritto da Ende, quello letto da Bastian e quello riscritto dal Vecchio della Montagna Vagante. Una struttura grazie alla quale è possibile infrangere le barriere tra lettore e personaggio, facendo passare Bastian da un ruolo all’altro nel corso della storia.

In qualità di fan sfegatata del libro avrei dovuto sentirmi indignata, ma non era tanto l’incompiutezza della vicenda a disturbarmi, quanto la scelta del protagonista: un bambino magro e grazioso — qui potete vederlo adulto: insegna fotografia, porta i dreadlocks ed è iscritto a Scientology —, soltanto un po’ sulle nuvole. Poco a che vedere con il Bastian del libro, il vero Bastian: grassoccio, pallido e imbranato, impacciato negli sport e mediocre a scuola, sicuramente più credibile come vittima designata dei bulletti, e ben più degno di portare un nome buffo come Bastian Balthasar Bux. A prevalere, insomma, è la fame hollywoodiana di bellezza, o in questo caso, della Germania Ovest, più provinciale ma altrettanto yuppie.

Fantàsia è una grande Las Vegas

Le discrepanze però sono solo all’inizio. Nel documentario tedesco dedicato alla lavorazione del film, 60 Millionen für Phantásien, Ende dà sfogo al suo disappunto con giudizi implacabili:

«la cosa più importante», spiega, «sarebbe stata creare una Fantàsia che rappresentasse il mondo dell’immaginazione. Ma quello che il film contiene dell’immaginazione fatica a superare lo standard medio di un night club».

In particolare sembra sconcertarlo l’arredo della Torre d’Avorio, dove per ricreare l’atmosfera di un night «mancano solo una sfera luminosa a specchi e un gruppo di ragazze». E in effetti, se nel libro prevale il mistero, nel film ci troviamo davanti un continuo sfavillio: la stessa Torre d’Avorio, descritta nel romanzo come una cittadella arroccata, nel film «è rappresentata come una sorta di torre televisiva con tre antenne direzionali»; ma le parole più dure sono però per il finale con l’Infanta Imperatrice, che «siede su di un letto dallo stile hollywoodiano, collocato all’interno del guscio di una cozza», e per le sfingi, due «spogliarelliste che siedono nel deserto», e che in effetti sono più procaci di quanto ci si aspetterebbe da un oracolo che si rispetti.

Decisamente pop è il brano principale, The Neverending Story, scritto da Giorgio Moroder e Keith Forsey e cantato da Limahl: un grande successo degli anni ’80, con più di 4 milioni di copie vendute. In realtà la colonna sonora è una delle differenze che intercorrono tra la versione tedesca del film — più lunga di 6 minuti circa e mai diffusa in Italia — e quella internazionale che conosciamo. Le musiche tedesche infatti, più sobrie, sono tutte firmate dal jazzista Klaus Doldinger, che nella versione americana compare invece come coautore insieme a Moroder. E proprio i titoli di testa, accompagnati in sottofondo dalla canzone di Limahl, pongono l’attenzione su uno dei cavalli di battaglia dei detrattori del film: la rappresentazione del Nulla, che nel libro è descritto come una sorta di buio assoluto – guardarlo è come essere ciechi – mentre nel film è reso attraverso un ben meno inquietante mix di nubi, fumo e vento, che a pensarci bene ricorda un po’ gli effetti speciali da sideshow.

 https://www.youtube.com/embed/b1kXjShFZjQ/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Ma se alcune scelte sono dettate dalle esigenze fisiologiche di una trasposizione cinematografica e dalla necessità di destreggiarsi con i mezzi tecnici a disposizione — come l’eliminazione dei personaggi di difficile resa, su tutti il mio amato Fuoco Fatuo — altri aspetti avrebbero meritato una cura maggiore, come i brani del libro letto da Bastian, la cui prosa sciatta e didascalica risulta molto lontana dallo stile di Ende.

Un discorso a parte merita il Fortunadrago, la creatura simbolo del film, che nel libro è un vero drago orientale color madreperla, mentre al cinema si guadagna un muso bonario da labrador gigante e un approccio fatalista nei confronti dell’esistenza, che ricorda da vicino alcuni celebri fancazzisti disneyani come l’orso Baloo, radicalizzato poi nella coppia Pumba e Timon.

Si tratta chiaramente di un personaggio concepito per intercettare il pubblico dei più piccoli, che non possono non subire il fascino degli enormi peluche volanti.

Con le creature di Fantàsia si fondano imperi

È forse per motivi simili che la trama, già opportunamente semplificata, subisce un’impennata manichea nello scontro fra Atreyu e Gmork, la creatura delle tenebre, il grande outsider del libro: un lupo mannaro diviso tra il mondo degli uomini e quello di Fantàsia, orfano di un vero luogo di appartenenza. Nel film è semplicemente un lupo cattivo, pugnalato a morte nel finale catartico da Atreyu, che nel romanzo invece non uccide proprio nessuno, anzi, viene scelto per salvare Fantàsia proprio in virtù della sua innocenza: reclutato prima di partecipare alla caccia al Bufalo Purpureo – prima cioè di uccidere un essere vivente – deve intraprendere la sua missione senza armi e senza attaccare, solo ponendo domande.

L’aspetto pacifista è molto importante nel romanzo, non meno della forza creatrice della fantasia umana, che si esercita, come nel mito, dando un nome alle cose. Così come importante è la critica implicita alle insidie del potere assoluto, che in modo assai tolkeniano è qui incarnato da AURYN, il medaglione che ha il potere di esaudire tutti di desideri — e che attualmente è conservato in una teca nell’ufficio di Steven Spielberg.

Decisamente apocrifa è anche la scena finale, in cui il drago Falkor irrompe nel mondo degli umani per aiutare Bastian a vendicarsi dei compagni che l’avevano bullizzato. Lasciando stare che come vendetta, per quanto catartica, è un po’ troppo comoda, bisogna ricordare che secondo Ende i personaggi di Fantàsia non possono reificarsi nel mondo umano a piacere; al più possono funzionare in qualità di “menzogne” per manipolare le persone, come accade alle creature inghiottite dal Nulla. La spiegazione ci giunge proprio da Gmork, nel suo colloquio con Atreyu: «Chi lo sa a che cosa potrai servire. Forse servirà il tuo aiuto per indurre gli uomini a comperare cose di cui non hanno bisogno, o a odiare cose che non conoscono, o a credere cose che li rendono ubbidienti, o a dubitare di cose che li potrebbero salvare. Con voi, creature di Fantàsia, nel mondo degli uomini si fanno i più grossi affari, si scatenano guerre, si fondano imperi…».

È lo straordinario ascendente delle idee e delle narrazioni sugli uomini il vero argomento del romanzo – irriducibile a un qualsiasi cane volante che trapassi nel mondo reale per fare scempio di bulli.

 https://www.youtube.com/embed/4ysa-4NsQ_A/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Elogio delle soffitte impolverate

«Un ragazzo cade nella storia che legge e difficilmente riuscirà ad uscirne». Questa era l’idea di partenza di Ende, che scrisse il suo romanzo più famoso proprio in Italia, durante il soggiorno a Genzano, in provincia di Roma, nella villa che lui e la moglie avevano soprannominato “Casa Liocorno”, in cui si era trasferito nel 1971 mentre lavorava al suo romanzo Momo, che in effetti contiene molte tracce di romanità.

L’editio princeps de La storia infinita esce nel gennaio del 1979 per i tipi della Thienemann Verlag di Stoccarda, illustrata con i preziosi capilettera di Roswitha Quadflieg che riproducono i personaggi della vicenda. In Italia la prima edizione è invece la Longanesi del 1981, che conserva la bicromia del testo — bordeaux per la storia ambientata nel mondo degli uomini, verde per Fantàsia — e si rifà all’edizione tedesca anche nella copertina. La differenza principale è rappresentata dai capilettera, scelti tra quelli disegnati da Antonio Basoli, pittore del neoclassicismo bolognese, i quali restituiscono la patina di antico, rinunciando però alla caratterizzazione dei personaggi.

È questa l’edizione – con una macchia di natura incerta sulla copertina di seta rossa – che ho avuto tra le mani e a cui sono affezionata. Un’edizione costruita ad hoc secondo quella mise en abyme tanto cara a Ende, che in ultimo prevedeva che fossi proprio io, che fossimo proprio noi a leggere lo stesso libro di Bastian, integrando alla narrazione la materialità del libro. E a spingerci alla ricerca di un luogo protetto in cui leggerlo di nascosto, magari una soffitta buia tra polvere e animali impagliati.

In conclusione, a quel gran baraccone del film bisogna comunque riconoscere di essere molto meglio dei suoi sequel: La storia infinita 2 è del 1990, l’Infanta Imperatrice sfoggia un’improbabile cotonatura e Bastian, biondo occhi blu, sembra piuttosto il futuro capitano della squadra di football. Il terzo capitolo, del ’94, è considerato uno dei peggiori sequel della storia del cinema e secondo la rivista Variety avrebbe tranquillamente potuto intitolarsi “Bastian Goes to High School”.

Detto ciò, senza nulla togliere a una pellicola a cui siamo tutti un po’ affezionati e che ben rappresenta il decennio che l’ha prodotta, e senza voler cadere a tutti i costi nello snobistico feticismo della carta stampata, il libro è un’altra storia.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter