L’aspetto esteriore conta, è scontato, non serve dimostrarlo. Si vede da come le persone si comportano e dall’importanza che danno e hanno sempre dato alla cura individuale. Ma perché conta? Perché facilita i rapporti sociali e fa sì che il prossimo sia meglio disposto nei nostri confronti? Plausibile. Perché rende più sicuri di sé, fa aumentare l’autostima e magari anche la produttività? Forse. Perché la cura di sé segnala la propensione ad essere accurati e precisi in ogni attività? Può darsi.
Sta di fatto che, qualunque sia il canale, l’aspetto fisico è correlato ad una serie di variabili economiche rilevanti per ciascuno di noi. Per esempio, a parità di condizioni, le persone di aspetto più gradevole guadagnano in media di più rispetto a quelle meno piacenti. E questa regolarità si rileva in tutte le occupazioni, non solo in quelle per le quali l’aspetto fisico può avere una certa rilevanza, come per esempio le occupazioni che richiedono un contatto con il pubblico.
Il meccanismo funziona anche al contrario, la “punizione” per la bruttezza sembra essere di circa il 5-10%, poco più alta del premio per la bellezza. Gli effetti sono maggiori per gli uomini che per le donne. Tuttavia, le donne poco attraenti hanno minore probabilità di partecipare alla forza lavoro e hanno maggiore probabilità di essere sposate a uomini con basso capitale umano.
Perché questo avviene? Si tratta di vera e propria discriminazione verso i meno belli? Oppure la bellezza misura qualche tratto individuale non osservato correlato con la produttività? Difficile dirlo. L’evidenza a disposizione è scarsa e contraddittoria.
Uno studio sembra infatti dimostrare che le persone relativamente più alte nel corso dell’adolescenza (altezza mezza bellezza) sviluppino una maggiore sicurezza e facilità nell’interazione sociale, che li porta ad avere migliori risultati da adulti. Sembra anche che gli studenti universitari di bell’aspetto abbiano risultati migliori non solo nelle prove orali ma anche in quelle scritte, nelle quali l’aspetto esteriore non è osservato. Questi elementi indurrebbero a pensare che le disparità salariali possano essere, almeno in parte, ricondotte a disparità di produttività e non a discriminazione.
D’altro canto, un’altra ricerca sembra dimostrare che gli studenti universitari valutino meglio i professori più belli (diciamo i meno brutti, va’), perfino tenendo conto di misure di abilità individuale nell’insegnamento, il che indurrebbe invece a pensare che i meno belli ricevano valutazioni peggiori per motivi puramente discriminatori, cioè non legati all’efficacia nell’insegnamento.
Insomma, la forma è sostanza oppure no? Non è per niente chiaro. Nel dubbio, una pettinatina non guasta.
Per saperne di più:
Hamermesh, D. (2011), Beauty pays: Why attractive people are more successful, Princeton University Press.
Hamermesh, D. and Biddle, J. (1994), “Beauty and the labor market”, American Economic Review, 84 (5), 1174-1194.
Persico, N., Postlewaite, A. and Silverman, D. (2004), “The effect of adolescent experience on labor market outcomes: the case of height”, Journal of Political Economy, 112 (5), 1019-1053.
Scoppa, V., and Ponzo, M. (2013), “Professors’ beauty, ability and teaching evaluations in Italy”, The B.E. Journal of Economic Analysis and Policy: Contributions, vol 13, issue 2, pp. 811-835.