Gabriel ha una gravissima malattia del sangue, l’anemia di Fanconi, per cui il suo midollo osseo non è in grado di produrre globuli bianchi, globuli rossi e piastrine del sangue. È dovuta a un difetto genetico e l’unica speranza per guarire è un trapianto di midollo. Lorenzo invece ha appena quattro mesi e deve già fare i conti con l’Immunodeficienza Grave Combinata, una sindrome che non gli permette di avere un sistema immunitario normale, in grado di proteggerlo dalle banali infezioni. Anche per lui l’unica soluzione è il trapianto di midollo. Entrambi però fanno parte di quel 30-40% di persone che non hanno un donatore compatibile per eseguire il trapianto, destinati fino a poco tempo fa a non poter ricevere una cura adeguata.
Oggi invece una nuova tecnica di manipolazione delle cellule staminali, messa a punto dall’équipe di Franco Locatelli, responsabile del reparto di Oncoematologia e Medicina Trasfusionale presso l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, apre una nuova prospettiva per tutte queste persone: «Si offre la possibilità di eseguire un trapianto allogenico (trapianto da un altro individuo, ndr) dai genitori, a tutte le persone che ne hanno bisogno, anche quando non si ha a disposizione un donatore idoneo» spiega a Linkiesta Alice Bertaina, ricercatrice del gruppo di Locatelli e autrice di uno studio scientifico pubblicato su Blood, che ha dimostrato l’efficacia della rivoluzionaria tecnica in grado di permettere il trapianto di midollo anche senza un donatore compatibile. «Fino a oggi si è sempre utilizzato un donatore completamente compatibile, preferibilmente un fratello, o un volontario. Ma un fratello è compatibile solo nel 25% dei casi e prima di trovare un donatore esterno possono trascorrere anche tre o quattro mesi, mentre spesso è necessario intervenire il prima possibile. Ora, grazie a questa tecnica, si può utilizzare anche un genitore, cioè una persona compatibile solo al 50% con il figlio, offrendo le stesse chance di guarigione che si avrebbero eseguendo un trapianto da donatore perfettamente compatibile».
Bertaina e i suoi collaboratori, hanno provato l’innovativa tecnica su 23 bambini affetti da malattie benigne, come immunodeficienze severe o rare malattie genetiche, le stesse che hanno colpito Gabriel e Lorenzo. E in nessun caso si è verificata la graft-versus-host disease, ovvero la malattia del trapianto contro l’ospite (quella viscerale che attacca fegato o intestino), la principale complicanza che si verifica in seguito a un trapianto da donatore molto diverso, come nel caso dei genitori, del 50 per cento. Poiché un genitore è compatibile solo a metà, fino a pochi anni fa, per ovviare a questo problema, si utilizzava un metodo di “purificazione” delle cellule. Questo processo garantiva una buona percentuale di successo del trapianto, ma portava anche a un elevato rischio infettivo, soprattutto nei primi mesi dopo il trapianto, e a un’elevata incidenza di mortalità. Con la conseguenza che i trapianti da uno dei due genitori avevano una probabilità di successo significativamente inferiore rispetto a quella ottenibile impiegando come donatore un fratello o una sorella, o un volontario esterno alla famiglia compatibile.
Dopo 18 mesi, 21 dei 23 bambini oggi sono vivi e hanno sconfitto la malattia, il che suggerisce come questa tecnica sia sicura ed efficace (la probabilità di cura definitiva per questi bambini è del 90%) e possa essere utilizzata con sicurezza e anche su larga scala, da altri centri italiani e internazionali. Mentre un altro studio clinico, condotto da Locatelli su 70 bambini affetti da leucemie acute e tumori del sangue, ha mostrato l’efficacia della tecnica anche per queste patologie maligne, con percentuali di successo dell’80%. «Il follow up dei bambini che abbiamo trapiantato fino a oggi sia con patologie benigne che con leucemia — continua Bertaina — è abbastanza lungo da farci affermare che la procedura può essere utilizzata con sicurezza e senza effetti collaterali. Ora il prossimo passo sarà quello di migliorare ulteriormente la ricerca è cercare di rinforzare i punti deboli che rimangono, come ridurre ancora il rischio di patologie infettive».
Dal punto di vista scientifico la tecnica consiste nell’eliminare i linfociti T (globuli bianchi impiegati nella risposta immunitaria, con il compito di difenderci dall’attacco di germi patogeni come virus e batteri) che sono responsabili dello sviluppo della malattia del trapianto contro l’ospite. «Abbiamo intuito che solo un determinato tipo di linfociti T, quelli che portano la catena alfa-beta, sono responsabili dello sviluppo della malattia, mentre quelli di tipo gamma-delta, servono a prevenire sia le infezioni sia la ricaduta della malattia nel caso della leucemia, e sono per questo molto importanti» continua Bertaina. «Grazie alla messa a punto di questa tecnica siamo riusciti a eliminare dalle cellule che vengono prelevate da uno dei genitori, i linfociti T alfa-beta dannosi, lasciando tutto il resto. Compresi i linfociti T gamma-delta, che aumentano ulteriormente le chance di successo di trapianto sia in termini di protezione nel confronto dell’infezione, sia in termini di rischio di ricaduta».
In Italia sono già diversi i centri che hanno inserito la procedura nella pratica clinica routinaria. «Nonostante sia una tecnica complicata può essere eseguita anche in numerosi altri ospedali che hanno la possibilità di imparare a usarla» conclude la ricercatrice. «Noi, poi, abbiamo già cominciato a insegnarla agli altri centri, e in uno in particolare si sta iniziando a usarla anche sugli adulti, proprio sulla scorta dei nostri risultati».