È bene chiarirlo sin da subito: la partita Iva non è un contratto di lavoro. Quando si dice “sono una partita Iva” ci si identifica in realtà con un regime fiscale: la partita Iva è una sequenza di 11 numeri attribuita a un lavoratore autonomo sottoposto all’imposizione fiscale indiretta (Iva). È come dire “io sono Irpef”, insomma.
Il cosiddetto popolo delle partite Iva è composto da oltre 3 milioni di lavoratori autonomi individuali, diminuiti (secondo la Cgia di Mestre) di circa 400mila unità dall’inizio della crisi. Il problema è che dietro un regime fiscale di questo tipo non ci sono soggetti tutti uguali tra loro. La partita Iva non è per forza un male, ma lo può diventare quando è una “falsa partita Iva”. Ci sono sì i lavoratori autonomi, ma esiste anche un’area grigia dentro la quale sono proliferati lavoratori dipendenti mascherati da autonomi. Mentre il numero di partite Iva negli anni della crisi è diminuito, l’unica categoria ad aumentare (e non di poco) è quella dei liberi professionisti (+125mila) che, in base ai calcoli fatti dall’associazione Acta (Associazione consulenti terziario avanzato) sui dati del ministero delle Finanze, sarebbero 1,3 milioni.
In particolare, tra i giovani sotto i 35 anni solo nel 2012 le partite Iva sono aumentate dell’8 per cento. Si potrebbe ipotizzare che tra questi, in una situazione di estrema debolezza del mercato del lavoro come quella che stiamo vivendo, ci siano anche quelli che hanno aperto una partita Iva perché il datore di lavoro non ha offerto nessun’altra alternativa. La partita Iva, è bene dirlo, conviene al datore di lavoro che così non è costretto a pagare i contributi e quindi può assumere e licenziare (si fa per dire) senza costi. Ma non conviene neanche al lavoratore dipendente mascherato, perché rispetto a un dipendente “normale” non ha alcuna tutela, dalla maternità alla malattia. Senza dimenticare i costi, inclusi gli acconti sulle tasse dell’anno successivo. E se i pagamenti ritardano, come succede spesso se l’azienda non dispone di liquidità, ci si può trovare anche nel paradosso di fatturare senza incassare.
In base ai dati Istat, in media il 17% – 8% se si considerano i 15-29enni – nel nostro Paese trova lavoro iniziando un’attività autonoma, con punte del 20% nel Mezzogiorno. In totale, i cosiddetti autonomi senza dipendenti, nel 2012, erano 3 milioni e 369 mila, la maggioranza degli indipendenti (59%). Di questi, 797mila avevano un unico cliente. Ma non tutti i monocommittenti sono false partite Iva, come ripete spesso Anna Soru, presidente di Acta. Molti monocommittenti godono di piena autonomia riguardo la scelta del luogo e dell’orario di lavoro, e quindi sono effettivamente autonomi, ma ben il 35% dichiara di essere soggetto a vincoli organizzativi e lavorativi, svolgendo in pratica un lavoro da dipendente. Queste sono le “false partite Iva”.
Ma quante sono? I primi a dare un numero sono stati Costanzo Ranci e Lara Maestripieri del Laboratorio politiche sociali del Politecnico di Milano. Partendo dai dati Istat, nel loro studio viene fuori che i lavoratori autonomi individuali che operano in condizioni di dipendenza sono non più del 12 per cento. Su oltre 3 milioni di lavoratori individuali, i falsi certificabili non sarebbero quindi più di 400mila. Falsi che, spiegano, non sono altro che «la punta di un iceberg molto più ampio, entro cui l’organizzazione dell’economia post-industriale mescola autonomia e dipendenza, mono e pluri committenza, sovvertendo l’idea, tipica del secolo scorso, che il mondo del lavoro sia facilmente divisibile in due parti come fosse una mela». Tracciare una linea dritta la vere e le false non è un’operazione semplice.
Per identificare i dipendenti mascherati da partite Iva i due studiosi non si sono solo basati sulla monocommittenza, cioè il lavoro autonomo per un solo cliente, ma anche sulle autodichiarazioni sull’esistenza di un orario di lavoro inderogabile e l’obbligo per il lavoratore di svolgere la sua attività in una postazione messa a disposizione dal cliente/datore di lavoro. I lavoratori autonomi che lavorano per un solo cliente sono quasi 750mila (un quarto buono delle partite Iva) e di questi solo un terzo subisce costrizioni stringenti nell’organizzazione del lavoro.
Secondo i dati Istat, tra i monocommittenti con vincoli ci sarebbe una quota maggiore di donne, di residenti al Nord, di giovani tra 15 e 29 anni, di occupati part-time, di anzianità lavorative basse, e di individui che dichiarano di essere alla ricerca di un nuovo lavoro (o uno da aggiungere a quello attuale).
Ecco l’identikit delle false partite Iva: anzitutto, si tratta di lavoratori normali. Sono tra di noi, si muovono nei nostri uffici. Forse ciascuno di noi ne conosce uno. Quasi 2/3 hanno più di 40 anni e lavorano come autonomi da almeno 5 anni: non sono solo giovani alle prime armi quindi, ma lavoratori con un’esperienza prolungata. La maggioranza di loro ha una forte preparazione professionale e il 20% è laureato. Le false partite Iva lavorano in media 36 ore alla settimana, e rispetto alle vere partite Iva di solito si trovano al gradino più basso del sistema produttivo, sia che siano poco o molto qualificati. Operano in quasi tutti i settori, ma sono concentrate soprattutto nel settore commerciale e immobiliare e nell’edilizia. Molti sono tecnici che offrono servizi legali o informatici, in tanti lavorano nei servizi alla persona come i centri massaggi o di fisioterapia e una parte imponente opera nell’amministrazione pubblica, soprattutto in ambito sanitario.
«Una quota decisiva dei nuovi mestieri parte da una partita Iva», ha dichiarato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, «sono un pezzo importante della crescita italiana». Ma, ha aggiunto, «servono delle regole per colpire gli abusi. È necessaria una regola chiara che dica: “Questo mestiere non lo puoi fare con la partita Iva”. Si farà qualche ingiustizia, ma almeno sarà un perimetro certo». Ad arginare il fenomeno ci ha già provato la riforma Fornero, mettendo dei paletti (la durata della collaborazione, il fatturato, la postazione di lavoro), oltre i quali il rapporto di lavoro si trasforma in collaborazione a progetto: la prima reazione concreta è stata la riduzione della durata dei contratti di lavoro.
«Possiamo facilmente individuare le aree in cui il fenomeno degli abusi è più presente e trovare delle soluzioni ad hoc», dice Anna Soru, «però occorre chiarire se si vuole davvero intervenire, con il rischio (o meglio la certezza) di creare maggiore disoccupazione». Secondo la presidente di Acta, le principali aree di abuso sono quattro: la pubblica amministrazione, il settore dell’editoria e dei media, alcune aree delle professioni liberali e le società di consulenza.
«Ne settore pubblico le “false Partite Iva” dovrebbero semplicemente essere cancellate», scrivono Ranci e Maestripieri. «Ma anche nel settore privato sarà ben difficile tirare la famosa riga di divisione. Se il problema è la condizione contrattuale, l’arma migliore è quella di rendere l’uso del contratto d’opera per prestazioni continuative a 36-40 ore sempre meno conveniente rispetto ad altre tipologie contrattuali di tipo dipendente, oppure rispetto al fatto di concedere al lavoratore una autonomia reale. La strada, crediamo, non sta nello sparare ai falsi di oggi, ma nell’evitare quelli di domani».