Dalle banane alla rivoluzione: la Figc di Tavecchio

Dalle banane alla rivoluzione: la Figc di Tavecchio

«Dite che partirò con l’handicap? Io non potrei neanche dirlo, ma cercherò di ribaltarlo». Si piega ma non si spezza. Incassa e rilancia, il presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio alle prese con le prime conferenze stampa da numero uno del pallone italiano. Lo scivolone su Optì Pobà e i mangiabanane è stato per settimane il biglietto da visita mediatico del settantunenne ex sindaco dicci di Ponte Lambro, un bollino che ne ha marchiato l’ascesa in via Allegri tra richieste di dimissioni e polemiche al vetriolo. Lui ha tirato dritto scansando le pressioni della politica, l’indignazione dell’opinione pubblica, perfino la discesa in campo di un colosso come Sky. Sostenuto dagli amici “che contano” nei palazzi dello sport, dai Galliani e dai Lotito, dagli Abete e dai Carraro, oggi lancia la sua sfida alle stelle. Tra contraddizioni apparenti e ambizioni di gloria. L’uomo dell’apparato deve rifondare il primo sport di squadra italiano. Dopo quindici anni di Lega Nazionale Dilettanti, ecco lo scettro della Federazione regina.

La parola d’ordine, nemmeno si trattasse del più classico dei rottamatori, è velocità. Urge cambiare verso al calcio in declino, e magari invertire la rotta dopo la bufera calata su Tavecchio alla luce della gaffe e di un “pedigree” setacciato dai media. Il timore degli osservatori è che l’inossidabile sostegno dei grandi decisori del calcio blocchi le riforme di cui il pallone italico ha bisogno, entrando a gamba tesa nelle stanze dei bottoni di via Allegri. Pesa pure il giudizio di “inadeguatezza” che molti addetti ai lavori hanno affibbiato al neopresidente della Federcalcio. Troppe cambiali da pagare, gli aveva sussurrato Giovanni Malagò. Dal canto suo, Tavecchio non si è perso in tentennamenti. Guadagnata una facile elezione l’11 agosto, ha dribblato le vacanze e nei giorni più caldi dell’estate ha steso la road map a corollario di un programma tanto ambizioso quanto difficile da realizzare.

I fuochi d’artificio arrivano subito. Il primo botto con cui (ri)lanciare l’immagine della nuova Federazione passa per la scelta del ct, argomento da bar e da ombrellone in un Paese in cui tutti si scoprono allenatori. Niente Cabrini, come si vociferava all’inizio, ma Antonio Conte. Quello che fino a poche settimane fa era l’allenatore della Juventus, a libro paga del presidente Andrea Agnelli che è stato il primo a guidare il fronte No-Tav, oggi è l’uomo di punta del regno Tavecchio con tanto di firma del contratto in diretta tv.

Il capo della Figc ha scelto uno dei migliori tecnici su piazza assicurandolo agli Azzurri con un contratto biennale che lo vede pure coordinatore del settore giovanile. Lo stipendio ammonta a 4 milioni annui di cui quasi 2 pagati dalla Figc, il resto dallo sponsor Puma. Una manovra impegnativa capitanata dallo stesso Tavecchio che, non più tardi di un mese fa, scandiva così la sua campagna elettorale: «La Figc non può permettersi un ct che guadagna due milioni di euro». Innovativa per il calcio, la formula è prassi in Formula Uno e nelle moto ma non basta a placare gli interrogativi di “no-Tav” e semplici osservatori. Ballano le polemiche su possibili conflitti d’interesse («Puma farà la formazione?») e sui motivi di opportunità alla base di un ingaggio pesante, che si aggiungono alle indagini di magistratura sportiva e ordinaria legate al calcioscommesse. Conte sarà il “manager pubblico” più pagato d’Italia in tempi di spending review, per lui non varrà il tetto imposto dal governo Renzi ai boiardi.

Il video della conferenza stampa di Antonio Conte dopo la firma del contratto con la Nazionale

Sensibilità o demagogia? La Federcalcio, recita il suo statuto, «è un’associazione riconosciuta con personalità giuridica di diritto privato» e riceve annualmente oltre 60 milioni di contributo dal Coni, ente pubblico. Quei denari servono quasi tutti a pagare spese arbitrali, giustizia sportiva, antidoping e giovanili, mentre la Nazionale si alimenta con un suo indotto, anche piuttosto fiorente. Spulciando i bilanci della Federazione, si legge infatti che nel 2013 il valore della produzione della Figc è stato di 174 milioni e il budget per il 2014 ne prevede 159, in linea coi tempi di crisi che non risparmiano nemmeno lo sport. La sola Nazionale di Calcio tra il 2011 e il 2014 ha generato un giro d’affari di 286 milioni (oltre 70 medi annuali) tra premi Fifa-Uefa, diritti tv, biglietteria e sponsor. Questi ultimi rappresentano una delle leve su cui punta Tavecchio, che spera di arricchire la torta di aziende intorno alla Nazionale. A suon di made in Italy e pallone. Si parte dal contratto del ct a cui hanno lavorato avvocati, consulenti di marketing, dirigenti e uomini Figc. «C’è già un effetto Conte sul piano commerciale – rivendica Tavecchio – ci sono già richieste dall’estero». 

L’operazione Conte vuol essere il grimaldello del rilancio dell’immagine azzurra, sportiva dunque economica. In prima linea scatta Puma, che oltre a versare 14 milioni annui alla Figc fino al 2018, in pochi giorni aggiunge i soldi per Conte e prolunga la sponsorizzazione della Nazionale fino al 2022. Poi ci sono gli altri sponsor. Top players del calibro di Fiat, Dolce & Gabbana, Compass, Tim, Uliveto, Alitalia. Molti sono in scadenza ma con l’arrivo di Conte potrebbero riconfermare il proprio impegno a via Allegri. «È un marchio che funziona». L’ex allenatore della Juve è uomo chiave in campo e nei bilanci. Ha ceduto i propri diritti d’immagine alla Figc e diventerà una preziosa calamita per spot ed eventi a uso e consumo delle aziende che investono negli azzurri. E che dopo la disfatta in Brasile possono ritrovare nuovi stimoli nel progetto della Nazionale. La sfida per Tavecchio è ambiziosa, anche perché ancorata ai risultati sul campo, ma tutt’altro che inedita. In quindici anni di regno ha trasformato la Lega Nazionale Dilettanti nel motore economico del calcio italiano con un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro, 1,3 milioni di calciatori e 70mila squadre impegnate in 700mila partite stagionali. Il Paese reale del pallone pasciuto a suon di marketing, sponsorizzazioni e campi sintetici.

Ma le sfide che attendono la Federcalcio non lambiscono solo il terreno economico. Perché la crisi culturale e sportiva prosegue negli anni. Dalle grandi riforme ai settori giovanili, è lunga la lista dei desideri rimasti chiusi nei cassetti degli addetti ai lavori. Con buona pace di Albertini, tocca a Tavecchio provare a scardinare il sistema. Quello che, per qualcuno, è popolato dalle stesse persone che hanno sostenuto ed eletto l’ex presidente Lnd. Adesso è il momento dei fatti e col primo consiglio federale Tavecchio ha fissato le nomine. I suoi vicepresidenti saranno Maurizio Beretta e Mario Macalli. Il primo, che sarà anche vicario, è un navigato dirigente dal lungo curriculum. Già direttore di Rai Uno, responsabile delle Relazioni Esterne Fiat e d.g. di Confindustria, oggi fa il top manager di Unicredit ed è il presidente della Lega Serie A. Ai due incarichi aggiungerà la poltrona di numero due in Figc. L’altro vicepresidente è Mario Macalli, 77 anni, capo della Lega Pro nonché storico amico e alleato di Tavecchio. 

La vicepresidenza non è arrivata invece per Claudio Lotito, kingmaker degli ultimi giochi elettorali ed esperto deus ex machina nelle stanze dei bottoni di via Allegri. Pragmatico e influente, l’elezione di Tavecchio è stato anche un suo capolavoro politico e diplomatico. Ma questa sua iperattività ha fatto storcere il naso a molti, così il patron della Lazio si è defilato aggiudicandosi una poltrona meno mediatica ma tutt’altro che secondaria: la presidenza della commissione riforme (in cui potrebbe sedere anche Giulio Napolitano, figlio di Re Giorgio). La missione? Riscrivere le regole, ripensare l’assetto normativo federale. Governance e riforma dei campionati sono in cima all’agenda. In un modo o nell’altro Lotito, già proprietario di Lazio e Salernitana, resta l’eminenza grigia del regno Tavecchio, consigliere onnipresente. Anche fisicamente. Nei primi giorni di mandato del neopresidente Figc, Lotito non è mai mancato. A portata di flash tanto all’incoronazione di Tavecchio nella cornice dell’hotel Hilton quanto al primo consiglio federale, fino alla firma del contratto di Antonio Conte al Parco dei Principi.

Nel giro delle nomine è entrata anche Fiona May, ieri campionessa olimpica di salto in lungo e oggi consigliera speciale della Figc. «Dovrà coordinare una commissione contro ogni tipo di discriminazione». Foglia di fico post-banane o paladina di una battaglia concreta? Troppo presto per dirlo, anche perché intanto a scatenare le polemiche è arrivato un provvedimento adottato nel primo consiglio federale presieduto da Tavecchio. I cori di discriminazione territoriale non saranno più puniti con la chiusura delle curve. Si comincerà con le sanzioni amministrative. Resta la responsabilità oggettiva dei club ma la chiusura dei settori interverrà solo nei casi più gravi. La modifica del codice di giustizia sportiva ha fatto gridare allo scandalo quelli che già accusavano Tavecchio di razzismo. Ma la misura è la ratifica di un iter già avviato dal predecessore Giancarlo Abete, voluto dal ministero dell’Interno e caldeggiato dall’Uefa. Si sa, il cammino di Tavecchio è un campo minato. I problemi da risolvere sono tanti e i critici pronti a sparare sono molti di più, mentre dal Coni Malagò vigilerà nella veste di garante. Ci sarà tempo fino al 2016, data delle prossime elezioni in via Allegri. Due anni per scoprire se vincerà la novità delle riforme o la continuità dell’apparato. E per sapere se l’Italia di Conte farà il top club agli Europei. 

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