Assolutamente contrari, almeno per ora, a tornare in Iraq con truppe di terra, gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali hanno deciso di armare i Peshmerga, i combattenti del Kurdistan iracheno, per proteggere l’Iraq dall’avanzata dei miliziani jihadisti dell’Isis. I curdi, di fatto, stanno facendo il “lavoro sporco” che Usa e Occidente non possono più permettersi di fare.
È grazie all’unione di truppe curde di terra e raid aerei statunitensi che domenica 17 è stata salvata la grande diga di Mosul dalle mani dei terroristi, che minacciavano di farla saltare per inondare i villaggi della piana di Ninive – fuori dai territori curdi – e aprirsi la strada alla loro conquista.
Ma cosa otterranno i curdi in cambio di tutto questo?
La risposta più facile è la vita. Le armi che le potenze occidentali mettono nelle mani dei curdi (gli Usa e la Francia ma presto anche altre nazioni europee dopo il via libera dato venerdì in una riunione straordinaria dai ministri degli Esteri della Unione) servono a difenderli dai terroristi, gli stessi che hanno conquistato parte del loro territorio nei primi giorni di agosto e commesso la strage di yazidi, cristiani e turcomanni abitanti di queste aree.
Ma sappiamo che il popolo dei curdi ha obiettivi molto più ambiziosi. Dopo aver ottenuto il riconoscimento di Stato autonomo da Baghdad nel 2005, hanno lottato per avere – senza raggiungerla formalmente – l’autonomia economica, chiedendo di gestire da soli le risorse energetiche di cui sono ricchi. Hanno portato avanti la lotta per l’indipendenza con la nascita di uno Stato curdo.
E qui le cose si son fatte più complicate.
Sebbene i curdi godano già di un’«indipendenza sostanziale», afferma Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici, agendo in autonomia da Baghdad anche nella gestione delle risorse petrolifere, è difficile credere che otterranno il riconoscimento ufficiale di Stato indipendente.
«I curdi sono un popolo a cavallo di più frontiere». C’è una minoranza curda in Iraq, Siria, Turchia, Iran e in parte anche in Armenia. Ma nessuno dei governi centrali di questi Paesi potrà permettersi di accettare la loro indipendenza, fosse anche solo quella del Kurdistan iracheno».
La nascita di uno Stato curdo in Iraq costituisce infatti una minaccia notevole per la Turchia, l’Iran e gli altri Stati, ognuno dei quali rischierebbe di perdere la propria parte di territorio a maggioranza curda, animata dall’esempio iracheno.
Ma potrebbe avere un effetto a catena anche sulle altre minoranze religiose o etniche che ciascuno di questi Stati porta in seno. Costituendo una minaccia grave alla tenuta dei governi e delle istituzioni centrali di Turchia, Iran, Iraq e degli altri.
La questione è ancora più complicata – spiega il professore – se si pensa che l’Iraq è da sempre considerato l’elemento cardine del Medio Oriente, lo Stato dalla cui stabilità dipende la solidità di tutta la regione. «Se il territorio iracheno fosse scisso tra sunniti, sciiti e curdi (le tre principali minoranze che lo abitano, ndr) verrebbe meno la stabilità del Paese e degli Stati limitrofi», spiega Neri. «Nessuno ha interesse a che ciò avvenga, nemmeno l’Iran, che con un Iraq frammentato perderebbe la sua capacità di influenza sulla minoranza sciita».
Dopo che una serie di analisi ha mostrato le responsabilità del governo del premier iracheno Nuri al-Maliki (ancora ufficialmente in carica sebbene sia già stato nominato il suo successore) nel favorire il rafforzamento del gruppo terroristico dell’Isis con politiche settarie a scapito dei sunniti, Claudio Neri sottolinea anche la responsabilità degli Stati Uniti nell’attuale situazione di caos.
Molto, afferma, dipende dalla “non strategia” di Obama nell’area. Il punto è che gli Stati Uniti sono sempre stati un fattore di stabilità nella regione, persino con la guerra di George Bush in Iraq nel 2003. Poi, con il ritiro delle truppe dal Paese è iniziata la destabilizzazione del Paese, perché si sono rimessi in moto una serie di meccanismi prima sotto controllo.
In ogni caso, spiega il professore, è troppo presto per ipotizzare qualsiasi scenario futuro in Iraq. «Se i curdi si affermeranno come unica realtà governativa e militare solida dell’Iraq potrebbero ottenere qualche riconoscimento in più. Ma è ancora tutto troppo fluido per poter fare previsioni. L’unica cosa certa è che il governo centrale di Baghdad ha mostrato tutta la sua debolezza. Se l’Isis ha tutta questa forza militare è perché è entrato in possesso di armi statunitensi occupando i magazzini e i depositi dell’esercito iracheno, pieni di armi di ultima generazione date all’Iraq dagli stessi Stati Uniti. Del resto, Isis non è una grande forza combattente, è un gruppo militare a basso cabotaggio. Si avvantaggia delle armi rubate all’Iraq e della possibilità di muoversi agilmente tra Siria e Iraq».
Intanto, Assad ha attaccato tra domenica 17 e lunedì 18 agosto la roccaforte dell’Isis in Siria, Raqqa. Una trentina di jihadisti, ma anche una decina di civili, sono stati uccisi nel corso di raid aerei delle forze governative sulle loro postazioni nella provincia nel nord del Paese. Si tratta di attacchi senza precedenti contro l’Isis da parte delle forze del regime, riferiscono le agenzie. Un messaggio, secondo alcuni, che il presidente siriano Bashar al Assad avrebbe inviato agli americani per confermare che le sue forze sono schierate insieme nella lotta ai miliziani jihadisti.