Un tempo erano noti come Costa dei pirati. Oggi invece gli Emirati Arabi Uniti (EAU) sono terra di petrodollari, finanza, commercio, architettura futurista e turismo di lusso. Gli EAU sono una federazione di sette emirati, ma le star sono Abu Dhabi e Dubai, ormai hub globali sinonimo di ricchezza e sfarzo senza freni. Degli altri cinque emirati, Fujairah, Sharjah, Ajman, Ras al Khaymah e Umm al Qaiwain, se ne parla appena.
Non è difficile capire perché. Abu Dhabi, capitale degli EAU, occupa oltre l’80% del territorio della federazione, tra l’altro ricchissimo di gas e petrolio. Secondo i dati della statunitense Energy Information Administration, nel 2012 gli EAU sono stati il settimo produttore petrolifero del mondo e, soprattutto, il terzo esportatore dopo Arabia Saudita e Russia. Sempre quell’anno l’export di idrocarburi ha superato i 100 miliardi di dollari, rappresentando circa l’80% delle entrate statali. Non a caso il fondo sovrano di Abu Dhabi, l’Abu Dhabi Investment Authority (Adia), controlla quasi 800 miliardi di dollari. È il maggiore del Medio Oriente e il secondo al mondo, dopo quello norvegese; gestito in modo estremamente prudente, l’Adia guarda soprattutto ai mercati finanziari nord-americani ed europei, e ben il 55% dei suoi asset sono investiti in strategie che replicano degli indici.
Da parte sua Dubai, fino a qualche decennio fa un piccolo villaggio polveroso, è riuscito a trasformarsi nel più importante centro commerciale e finanziario del Medio Oriente, nonché nella città-stato dall’architettura futurista che oggi richiama turisti ed expat (professionisti stranieri) da ogni angolo del pianeta. «Voglio che Dubai sia un posto dove le persone da tutto il mondo possano incontrarsi, e non debbano litigare o odiare, ma soltanto stare bene, dedicarsi al loro sport… questo è quanto. – ha dichiarato nel 1998 al quotidiano inglese The Independent l’attuale emiro Mohammed bin Rashid Al Maktoum (lo sceicco Mo, come lo chiamano tutti). E sembra proprio esserci riuscito: in fondo Dubai è stata soprannominata la «Las Vegas/Venezia/Disney World del Medio Oriente».
Certo, il fascino di Abu Dhabi e Dubai è anche il frutto di un eccellente marketing. Lo conferma a Linkiesta Syed Ali, docente di sociologia alla Long Island University. «Se si sente parlare molto poco degli altri cinque emirati è certamente per una questione di minor ricchezza e promozione pubblicitaria. Dubai ha fatto un lavoro fenomenale per vendersi all’Occidente come meta per il turismo, lo svago, il lavoro e gli investimenti. La cosa fantastica è che lo ha fatto quasi del tutto grazie ai prestiti che ha chiesto. Abu Dhabi è estremamente ricco, ma non si è promosso tanto».
Se gli EAU vantano un Pil di oltre 400 miliardi di dollari e un Pil pro capite di oltre 44mila dollari, insomma, è merito di Abu Dhabi e Dubai. Non è sempre stato così, però. «Prima della costituzione degli EAU, erano Sharjah e Ras Al Khaymah gli emirati dominanti: Abu Dhabi e Dubai non contavano niente» spiega Jim Krane, esperto di Golfo Persico del Baker Institute for Public Policy della Rice University, a Houston.
Tuttavia per ragioni storiche, e in particolare per la loro opposizione al protettorato britannico, iniziato alla fine del XIX secolo e terminato nel 1971, Sharjah e Ras Al Khaymah arrivarono a negoziare la creazione degli EAU quando il loro potere era tramontato. «Oggi Abu Dhabi controlla la maggior parte della terra degli EAU e circa il 95% del petrolio e gas, quindi ha anche il maggior peso finanziario – osserva Krane – mentre Dubai è il centro degli affari dell’intera regione».
L’economia di Abu Dhabi non è granché diversa da quella delle altre monarchie petrolifere del Golfo. Al contrario, la scarsità di oro nero ha costretto la famiglia Al Maktoum, alla guida di Dubai dal XIX secolo, a trovare altri modi per far prosperare l’emirato e renderlo molto più competitivo. «Gli Al Maktoum hanno sempre sostenuto gli inglesi nella regione, – spiega Krane, anche autore di «City of Gold: Dubai and the Dream of Capitalism» (Picador) – e questi in cambio hanno assicurato la loro legittimità come regnanti. Gli Al Maktoum non hanno mai avuto paura di rischiare, hanno fatto grandi scommesse che hanno permesso a Dubai di diventare quello che è oggi. Un esempio? Negli anni ’50 Dubai chiese in prestito al Kuwait una cifra molte volte superiore al suo Pil dell’epoca, e la usò per costruire un porto che gli permettesse di competere con i suoi vicini. In particolare con Sharjah, che allora era il porto principale. Ebbene, proprio l’anno seguente il porto di Sharjah fu distrutto da una tempesta e divenne inutilizzabile: tutto il traffico navale fu dirottato su Dubai. Che negli anni ’60 ha investito in un secondo porto e dieci anni dopo nel terzo. Insomma, ha puntato decisamente sul commercio».
Sempre a detta di Krane, che ha vissuto lì per circa cinque anni, Dubai si distingue pure per la sua relativa tolleranza religiosa, e per una società meno conservatrice rispetto alle altre della regione. Questo gli ha permesso di investire molto anche sul turismo. «Agli abitanti di Dubai non importava niente che venissero gli stranieri a stare in costume da bagno e a bere alcol, e hanno costruito enormi resort. – continua Krane – Negli anni ’80 gli altri emirati ne ridevano, pensavano che fosse una pazzia. Oggi si vede che non lo è stata per niente».
Altro motore dell’economia dell’emirato è l’edilizia. In fondo è a Dubai che ha sede Arabtec, il colosso delle costruzioni che lo scorso marzo ha annunciato un investimento da 40 miliardi di dollari nell’Egitto del generale Al Sisi e che si è aggiudicata mega progetti come quello per la costruzione della sede distaccata del museo del Louvre ad Abu Dhabi. A coprirle le spalle è Aabar, il fondo di investimenti controllato, appunto, da Abu Dhabi. «È vero – conferma Krane – Abu Dhabi guadagna molto di più grazie al petrolio e al gas, ma una buona parte di quei guadagni li reinveste a Dubai».
Quello delle costruzioni è il settore dove lavora la maggior parte delle aziende italiane presenti a Dubai. E nei prossimi anni, probabilmente, sarà ancora più così. «Gli Emirati si sono aggiudicati l’Expo 2020. – dice a Linkiesta Francesca Tango, vice-direttore dell’Ufficio ICE di Dubai – Questo implica tutta una serie di progetti che renderà ancora più attraente i settori delle costruzioni, dei materiali per l’edilizia e dell’arredamento».
Secondo gli ultimi dati diffusi dal Dubai Land Department, nella prima metà dell’anno i paesi del Gulf Cooperation Council (il «club» delle petromonarchie del Golfo) hanno investito nel mercato immobiliare di Dubai oltre 5 miliardi di dollari. I più attivi sono stati, con quasi tre miliardi e mezzo di dollari, gli stessi emiratini, seguiti dai sauditi, che hanno compiuto transazioni per circa un miliardo di dollari. Ma la famiglia reale di Dubai non punta solo sul mattone: nell’emirato hanno sede anche vari incubatori e acceleratori di startup, soprattutto tecnologiche. Oltre a Silicon Oasis Founders, un incubatore promosso dal governo, ci sono pure In5, SeedStartup e i360accelerator. Un trend seguito anche da Abu Dhabi, con Ibtikar e Flat6Labs.
Ancora, Dubai trae grande vantaggio dalle eccellenti relazioni economiche che intrattiene con il Paese che, per molti altri Stati del Golfo, è come minimo un vicino ingombrante: l’Iran. «Una gran parte dell’economia di Dubai dipende dai suoi buoni rapporti con l’Iran. – spiega Krane – Ci sono circa 10.000 aziende iraniane a Dubai, l’emirato è la principale piazza commerciale offshore di Teheran, e chiunque voglia fare affari con l’Iran adesso apre a Dubai, a causa dell’embargo».
Rapporti privilegiati che Abu Dhabi non apprezza particolarmente. Anzi, con lo scoppio della crisi finanziaria nel 2008, «Dubai ha dovuto rinunciare a parte della sua autonomia in cambio di ingenti prestiti da Abu Dhabi, che in cambio ha guadagnato una maggiore influenza sugli affari di Dubai. – sottolinea Krane – E una delle prime richieste è stata proprio quella di raffreddare i rapporti con l’Iran. Di conseguenza il commercio con Teheran è calato parecchio, anche se ora inizia a recuperare un po’». Nei confronti di Teheran i due emirati hanno approcci agli antipodi. «A Dubai ci sono degli sciiti nel governo, il che non accade ad Abu Dhabi. – continua Krane – Abu Dhabi vede l’Iran come una minaccia strategica, Dubai come una grande opportunità di business».
Come in altri paesi del Golfo, ad esempio il Qatar e il Bahrein, ad Abu Dhabi e Dubai la maggior parte della popolazione è costituita da stranieri. Questi, a loro volta, si dividono fra i cosiddetti expat, soprattutto occidentali di lingua inglese con occupazioni molto ben pagate, e i lavoratori provenienti principalmente da Sud-est asiatico e Asia centrale. Dubai, in particolare, è una meta molto ambita come racconta a Linkiesta Ali. «L’emirato offre stipendi molto più alti di altri paesi, inclusi Regno Unito e Stati Uniti. Gli stranieri lì possono permettersi di avere un aiuto domestico a prezzi bassissimi, frequentare i migliori locali e ristoranti, vivere in ville o appartamenti di lusso. Tutte cose che difficilmente potrebbero fare a casa loro».
Sempre secondo Ali, che dopo un periodo di ricerca sul campo a Dubai ha scritto il libro «Dubai Gilded Cage» (Dubai gabbia dorata) la società dell’emirato è estremamente frammentata. «Nella maggior parte dei casi gli emiratini vivono in determinati quartieri, e gli expat e i lavoratori di altre nazionalità tendono a socializzare con persone del loro stesso paese. In generale gli emiratini e gli stranieri si frequentano molto poco». E, come suggerisce il titolo del libro di Ali, non è tutto rose e fiori. «Nel mio libro dico che Dubai è una gabbia perché i suoi abitanti hanno stipulato un patto in forza del quale rinunciano alle libertà democratiche fondamentali in cambio di quelle economiche. – spiega Ali – A Dubai sei libero di fare soldi, ubriacarti alla grande (basta vedere gli inglesi durante il week end), andare con una prostituta. Va tutto bene. Però se fai qualcosa che abbia lontanamente a che vedere con la politica, allora finisci nei guai».
Ma non è solo con la politica che bisogna stare attenti. «Persino nel caso di un incidente stradale con un emiratino sarà meglio che lo straniero se ne assuma la colpa, anche se non è sua. – continua Ali – Potrebbe trovarsi davanti a qualcuno con le giuste conoscenze per farlo espellere. E nessuno vuole essere espulso, perché ovviamente perderebbe il lavoro. Che è l’unica ragione per stare a Dubai».
Insomma, magari l’economia di Dubai non è basata sugli idrocarburi come ad Abu Dhabi o nel resto del Golfo, però stile di governo e filosofia politica non cambiano poi molto. Lo conferma Krane: «quelle degli Emirati Arabi Uniti sono autocrazie, monarchie assolute. Non è tollerata alcun tipo di partecipazione politica, men che meno alcuna forma di opposizione. Non si accetta nulla che metta anche lontanamente in dubbio la legittimità delle famiglie regnanti». Non è un caso, insomma, se nel World Press Freedom Index 2014 di Reporter senza frontiere, gli EAU occupano la 118a posizione su 180 paesi (li segue il Sudan del Sud). Le autorità mantengono un ferreo controllo su media, internet e social networks.
A riguardo Ali cita il caso di Shezanne Cassim, «cittadino americano cresciuto a Dubai, che dopo un periodo all’estero è tornato nell’emirato per lavorare». L’anno scorso Cassim ha girato un video satirico dove faceva una parodia degli adolescenti di Dubai e l’ha caricato su YouTube. «È finito in una prigione di massima sicurezza per nove mesi, finché non è stato rilasciato grazie alla pressione internazionale. L’unica cosa che importa veramente a Dubai, in quanto a diritti umani, è la cattiva pubblicità».