Rubrica Scienza&SaluteIl percorso a rilento della ricerca sull’epilessia

Il percorso a rilento della ricerca sull’epilessia

Sono passati millenni da quando per la prima volta in un documento, venne descritta l’epilessia. Allora, intorno al 1050 a.C, i babilonesi pensarono che fosse una malattia dell’anima, dovuta a demoni e fantasmi. Così era anche per i greci, che la chiamavano “malattia sacra” e pensavano fosse dovuta a un intervento divino. Tant’è che il nome in greco antico significa proprio prendere, perché associata a esperienze di possessione, anche demoniache. Nel 400 a.C. però, il medico greco Ippocrate capì che le convulsioni erano ereditarie e che avevano origine nel cervello. Nonostante questo per centinaia di anni si continuò a credere all’origine divina della malattia e in quasi tutte le culture, nel corso della storia, l’epilessia è sempre stata vista come qualcosa da temere, evitare e tenere nascosto. «La storia di epilessia può essere riassunta come 4000 anni di ignoranza, superstizione, e stigma, seguiti da 100 anni di conoscenza, superstizione, e stigma», come racconta Nature in uno speciale interamente dedicato alla malattia. «Oggi almeno nei paesi più sviluppati queste credenze sono scomparse, ma sono tutt’altro che un lontano ricordo».

Così se nei paesi più avanzati le conoscenze scientifiche sull’epilessia hanno fatto notevoli passi avanti, anche grazie alla tecnologie più recenti (come l’elettroencefalogramma (EEG) e la risonanza magnetica (MRI), che permettono di esplorare il cervello in maniera più approfondita, in altri paesi più arretrati, come l’Africa e l’Asia, è ancora vista come un problema mentale. In Nigeria, per esempio, almeno il 16% di operatori sanitari credono che sia un disturbo di salute mentale e il 6% di loro pensa che sia contagiosa. Le persone con crisi epilettiche perciò vengono spesso emarginate, e scelgono di non farsi curare anche quando gli operatori sanitari riconoscono il problema: «Perché se la comunità si rende conto che qualcuno in famiglia ha l’epilessia, i fratelli non saranno in grado di trovare qualcuno da sposare», scrive Lauren Gravitz su Nature.

Nonostante le conoscenze sulla malattia aumentino e le superstizioni siano ormai superate, la ricerca però va ancora a rilento e i finanziamenti scarseggiano, proprio a causa dello stigma e delle superstizioni che per secoli ne hanno accompagnato la storia. Negli Stati Uniti nonostante sia la terza, tra le malattie neurologiche più comuni, dopo ictus e morbo di Alzheimer, è al quinto posto (tra le sei condizioni neurologiche più diffuse) per fondi destinati alla ricerca dal National Institutes of Health (NIH). Fondi che tra l’altro, continuano a diminuire. Eppure ci sarebbe un grande bisogno di fare ricerca, visto quanto ancora poco si sa su questa patologia (a partire dalle cause), e la sua vasta diffusione: l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima prudenzialmente che circa 50 milioni di persone in tutto il mondo ne soffrano.

Il termine epilessia è però troppo generico per raccontare tutte le forme che esistono (se ne contano più di una dozzina) e le diverse cause che ne sono alla base, nel 60% dei casi ignote. Per ora si sa che le crisi epilettiche sono dovute a un’attivazione incontrollata dei neuroni, e che derivano da meccanismi naturali nel cervello che a un certo punto, per qualche motivo ignoto si inceppano. Il perché avvengano non è ancora del tutto chiaro, e lascia discordi i diversi esperti. «Il macchinario che determina le crisi è lo stesso che ci permette di pensare o di muoverci», scrive Neil Savage su Nature, «è solo l’equilibrio tra inibizione ed eccitazione dei neuroni, normalmente controllato, che ad un certo punto va in tilt». Si sa inoltre che nei paesi più sviluppati la prevalenza è maggiore nei bambini e negli anziani oltre i 65 anni, soprattutto in persone che hanno avuto un infarto o sviluppano malattie croniche come tumori o Alzheimer.

I rimedi al momento comprendono la chirurgia e i farmaci. La prima sembra essere particolarmente indicata per quelle persone che non rispondono al trattamento farmacologico, e per molti tipi di epilessia si è dimostrata sicura e di efficacia superiore ai farmaci stessi. «Tra i pazienti con particolari tipi di epilessia focale (crisi epilettiche che iniziano in una zona specifica del cervello, invece che in più regioni), circa il 65% dei pazienti non ha più avuto convulsioni, contro l’8% di quelli trattati con i soli farmaci antiepilettici» scrive Samuel Wiebe su Nature. Nonostante la chirurgia sia una pratica con un basso tasso di complicanze, quasi nessuna mortalità, e notevoli risultati positivi, medici e pazienti però sono ancora restii a praticarla. I primi perché magari hanno una scarsa conoscenza dei benefici e della sicurezza della pratica; i secondi in parte perché si tratta comunque di un intervento importante, che prevede l’asportazione chirurgica di quella parte del cervello da cui originano le crisi epilettiche. Prospettiva che fa riflettere e richiede la valutazione meticolosa dei rischi e dei benefici. E in parte perché c’è la speranza che un nuovo farmaco o combinazione di farmaci saranno in grado, di lì a breve, di controllare gli attacchi.

Anche su questo versante però la strada sembra ancora lunga e tortuosa. La maggior parte dei farmaci usati oggi in terapia, infatti, sono nati per caso: sviluppati per altri scopi hanno mostrato poi un effetto anticonvulsivante. Anche perché non conoscendo esattamente le cause che danno origine alle crisi, risulta difficile trovare dei bersagli per arginarle. È il caso dell’acido valproico, per esempio. Il suo effetto fu scoperto nel 1960, quando dei ricercatori francesi si accorsero che tutti i farmaci che testavano sugli animali erano in grado di ridurre le convulsioni. L’effetto però non era dovuto al farmaco in sperimentazione ma all’acido valproico, in quel periodo usato comunemente come solvente, in cui i farmaci venivano disciolti. Così per caso fu scoperto uno dei farmaci anticonvulsivanti oggi maggiormente utilizzati.

Nonostante i farmaci sviluppati in questi decenni, molto resta ancora da fare. Soprattutto per quel 30% di persone affette da epilessia che non rispondono al trattamento farmacologico, per cui è necessario individuare nuovi target molecolari e nuove terapie. «Per andare avanti – scrive Megan Cully su Nature le aziende farmaceutiche e alcuni ricercatori stanno cercando di cambiare rotta. Alcuni stanno provando a cambiare modello sperimentale, spostandosi dal roditore tradizionale, altri stanno esplorando nuovi trattamenti mirati a target molecolari specifici. Ma nonostante i progressi sono nati relativamente pochi nuovi farmaci antiepilettici. Di conseguenza, molte delle principali aziende farmaceutiche — con l’eccezione di UCB, Eisai e Pfizer — non hanno più programmi per lo sviluppo di molecole per l’epilessia. Che lascia il grosso del lavoro, dalla scoperta allo sviluppo, ai docenti universitari, le piccole imprese biotech e aziende farmaceutiche di specialità. Il risultato è un numero limitato di giocatori in campo e alcuni di loro, come gli accademici, non in grado di finanziare studi clinici. Il che spiega anche il basso numero di studi clinici che dovrebbero reclutare i pazienti per testare nuovi trattamenti sull’epilessia».

Infine sul fronte tecnologico, stanno nascendo o sono in fase di sviluppo, dei dispositivi indossabili in grado di monitorare le crisi epilettiche, che promettono miglioramenti sia nel trattamento dell’epilessia che nello svolgimento dei trials clinici. Si tratta in pratica di una sorta di bracciale che misura la frequenza cardiaca, la temperatura della pelle, il movimento, e le variazioni dell’attività elettrodermica, o conduttanza della pelle, cioè un indicatore delle anomalie del sistema nervoso che vengono attivate ​​durante gli attacchi epilettici. Come Embrace sviluppato da un ingegnere elettrico presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT) Media Lab di Cambridge. «In base all’attività elettrica della pelle, il sensore può avvisare il paziente quando sta per arrivare una crisi. Un dispositivo portatile del genere potrebbe aiutare le persone a prepararsi, per esempio sdraiandosi, o prendendo per tempo un farmaco di soccorso» racconta Elie Dolgin su Nature. Questi dispostivi inoltre, potrebbero fornire molte altre informazioni, ed essere usati anche negli studi clinici per monitorare correttamente il numero e il tipo di attacchi epilettici. Per ora il dispositivo Embrace può essere utilizzato solo in ospedale, ma a breve ne vedremo uno di seconda generazione utilizzabile anche in casa. Questo grazie all’aiuto di Empatica, una società con sede a Milano, che vende già uno strumento per il monitoraggio dello stress cellulare con la quale è partita una collaborazione. Secondo Matteo Lai, amministratore delegato di Empatica, studi clinici per testare Embrace partiranno già all’inizio del 2015. 

In collaborazione con RBS-Ricerca Biomedica e Salute

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter