«Curioso destino quello della parola “slow”. Affermatasi con un significato assai lontano da quello stabilito dal dizionario, che nulla ha a che fare con la lentezza cronologica, ma evoca piuttosto una preziosa lentezza mentale. Slow è la parola della riflessività, del pensiero apparentemente meno efficace e brillante, ma capace di proteggerci dai rischi della false scelte e delle decisioni poco consapevoli». Così Silvana Quadrino psicologa e psicoterapeuta, spiega perché il movimento che lei e altri professionisti del settore hanno fondato nel 2010 si chiama proprio Slow medicine. Un movimento che nasce con l’intento di cambiare l’attuale paradigma di fare medicina, troppo frettoloso, troppo poco attento alle parole dei pazienti, troppo generoso nel prescrivere esami diagnostici e farmaci. Per questo Slow medicine e i suoi sostenitori – come hanno anche dichiarato in una lettera pubblicata di recente sul BritishMedical Journal, Bmj – si battono per una “cura sobria rispettosa e giusta”. Queste le tre parole chiave che fanno da cardine al manifesto del movimento. «Sobria perché fare di più non sempre significa fare meglio» spiega a Linkiesta Sandra Vernero, medico e segretario generale del movimento, «fare esami e trattamenti va bene, ma solo quelli che servono, senza eccedere. Soprattutto per la salute dei pazienti ma anche per la sostenibilità economica e ambientale. Rispettosa perché deve rispettare i valori e le preferenze delle persone, deve dare importanza all’ascolto dei pazienti. Perché la voce della vita è altrettanto importante della voce della medicina. Infine giusta, perché cure appropriate ed eque significano uguali opportunità a tutti senza disuguaglianze».
Il principale obiettivo per ora è diffondere la cultura della Slow medicine in giro per l’Italia, sia tra gli operatori del settore sia tra i pazienti che possono aderire al movimento per fare sentire la loro voce. Ma non è l’unico. Nel 2012 negli Stati Uniti diverse associazioni scientifiche lanciano il progetto Choosing wisely (scegliere saggiamente), che partendo dal presupposto economico che una quota rilevante della spesa sanitaria è dovuta a sprechi che potrebbero essere evitati, ha chiesto a tutte le associazioni mediche di individuare cinque pratiche a rischio di inappropriatezza. Pratiche che a volte vanno fatte ma spesso sono usate in eccesso, con danni per i pazienti.«Il progetto in Usa ha avuto un successo enorme – racconta Vernero – in partenza hanno aderito nove società, ora se ne contano più di sessanta, con circa 300 pratiche segnalate».
Sulla scia dell’esempio americano, poco tempo dopo anche Slow medicine fa partire un progetto simile in Italia:“Fare di più non significa fare meglio”, chiedendo alle associazioni scientifiche (italiane questa volta) di segnalare cinque pratiche, che possono causare più danni che benefici alla salute del paziente, impegnandosi poi a diffonderle ai medici perché ne riducano la prescrizione o il consiglio ai loro pazienti. Tagliare insomma l’eccesso, con vantaggi per il paziente. Questo perché come ricorda la parola “appropriatezza” usata nel manifesto, fare tanti esami o trattamenti non sempre significa fare meglio, soprattutto se vengono eseguiti a priori come medicina difensiva (per cui farmaci, esami, trattamenti vengono prescritti non perché necessari ma per proteggersi dalla possibile accusa di non aver fatto tutto il possibile). «L’importante – riprende Vernero – è ridare valore al rapporto medico paziente quindi alla visita, all’esame obiettivo, all’ascolto, alla storia clinica del paziente, per poi decidere che cosa è più appropriato per ognuno. È un po’ una cultura in controtendenza rispetto a quella oggi dominante per cui tutto ciò che è nuovo è meglio. Sì, in parte è vero, ma non possiamo dare per scontato che sia sempre così. A volte per esempio per quanto riguarda i farmaci sono messi in circolazione delle copie di quelli già esistenti e bisogna fare molta attenzione a cosa si prescrive. Stiamo cercando di ridurre gli esami radiologici, l’uso dei farmaci quando non sono necessari o si danno per abitudine, la medicalizzazione quando eccessiva. Vogliamo promuovere quello che secondo noi serve veramente, cioè il cambiamento degli stili di vita: una corretta alimentazione, movimento, non fumare, non assumere alcolici in eccesso. Questa è la vera prevenzione».
Anche in Italia la partecipazione al progetto è stata molto alta, con adesioni da parte di diverse associazioni (radiologi, cardiologi oncologi, per dirne alcune, e persino infermieri), che hanno permesso di stilare nove liste di pratiche a rischio inappropriatezza, mentre altre quindici sono in fase di lavorazione. «Questo perché c’era un’esigenza di lavorare in questo settore. Visto il periodo e la richiesta di tagli per motivi economici, abbiamo pensato che invece di fare dei tagli a tappeto, eliminando magari ciò che poteva servire, fosse meglio ragionarci su, e iniziare dalle pratiche cliniche che oltre ad essere uno spreco non sempre fanno il bene del paziente e qualche volta rischiano di fare danni».
Visto che il progetto italiano prevedeva anche un impegno da parte dei medici per non prescrive o consigliare ai loro pazienti le pratiche cliniche segnalate, viene da chiedersi se poi ci sia un sistema per verificare se effettivamente i patti siano rispettati. «Per il momento ancora no – risponde Vernero – ma ci stiamo lavorando. A Torino sta per partire un progetto con i medici di medicina generale: hanno già segnalato le famose cinque pratiche e adesso partirà un progetto proprio per valutare come queste vengono applicate nel quotidiano. L’idea poi è di mettere in atto delle azioni (soprattutto di comunicazione verso i medici e i cittadini) per ridurre gli eccessi».
Appare evidente però, come al centro di tutto ci sia il recupero di un’alleanza tra medico e paziente, andata un po’ persa negli ultimi anni. Tornare a parlare con il paziente, che deve essere ascoltato, deve fare domande e segnalare le proprie preferenze, è fondamentale. Ci deve essere un dialogo, uno scambio di informazioni che porti a prendere le decisioni insieme. «È un cambio di paradigma, di cultura. In un certo senso un ritorno al passato, ma conservando ciò che di buono è stato fatto finora» sottolinea la segretaria di Slow medicine. «Molte innovazioni degli ultimi decenni sono oggi fondamentali e necessarie, ma bisogna recuperare qualcosa della visione del passato soprattutto per quanto riguarda il rapporto con il paziente».
Come si intuisce dal nome, fin dalla nascita il movimento presenta forti analogie con lo “slow food”, nato con la stessa filosofia del metterci un attimo in più nel fare le cose, e usare quell’attimo per riflettere/pensarci bene prima di agire. Per questo sono nati anche dei progetti in comune, che com’è facile immaginare ruotano intorno a una corretta alimentazione, obiettivo comune a entrambi. «Il principale problema che abbiamo oggi sono le malattie croniche» conclude Vernero «che potrebbero essere curate e prevenute con un corretto stile di vita e una corretta alimentazione. La salute deve entrare in tutte le politiche. Il diabete per esempio, oggi potrebbe contribuire a curarlo l’urbanista, che progetta una città per muoversi con parchi e piste ciclabili rendendo le persone più attive e meno malate».