La stagione televisiva 1994/95 è il radioso esempio di come la Tv è stata molto più di un riempitivo nella costruzione della memoria collettiva globale. Gli anni ’90 hanno lasciato l’immaginario degli spettatori punteggiato di riferimenti più o meno vividi, a seconda dell’affetto che ognuno ha provato, del legame che ognuno è stato capace di stringere con i personaggi di questa o di quella serie. Spesso si è trattato di una questione di amore, di empatia, di stima, non soltanto dell’apprezzare un particolare volto più di un altro. Spesso, negli anni ’90, ci siamo trovati di fronte alla definizione di uno stile, oltre alla costruzione dei personaggi e delle situazioni.
I miei anni ’90 sono stati gli anni della sitcom. Gli anni che mi hanno consacrato a un genere, senza possibilità di appello. E non è certo la scelta più significativa, se si pensa che nel ’95 andavano in onda X-Files, NYPD Blue, ER e 90210, ma è quella che ho fatto e non me ne pento nemmeno un po’. È una scelta facile, ma anche una decisione che non ho preso. Avevo davanti la scelta e sono caduto nel fascino delle risate registrate — anche perché gli alieni mi facevano una paura del diavolo. Tolto dal quadro il solito Seinfeld — che è l’ammiraglia di un decennio — bisogna rilevare che il settembre 1994 sollevava il sipario su uno spettacolo piuttosto interessante. Probabilmente il più interessante in assoluto fino ad allora e, appurato che il palinsesto non ha più alcun senso, di tutta la storia della televisione. Andavano in onda cose come Roseanne, Home Improvement, Frasier e, naturalmente, debuttava Friends.
La puntata pilota me la ricordo come se l’avessi vista decine di volte — probabilmente perché è proprio così. Cominciava con una discussione che nel corso delle dieci stagioni di messa in onda avremmo sentito ripetuta centinaia di volte, ogni volta diversa, raffinata, ripulita, arricchita, fino a diventare perfetta. Cominciava in un posto che nel corso della serie avremmo imparato a conoscere come il divano su cui eravamo seduti, come gli appartamenti in cui avremmo abitato negli anni a venire, ogni volta sperando di avere un vicino nudo e molto brutto da spiare con il binocolo. Cominciava col mettere in chiaro come tutto è cominciato e chi sarebbero stati gli immortali, incredibili, incredibilmente facili da amare, protagonisti della serie. Quelli che poi sarebbero diventati Monica, Ross, Joey, Phoebe, Rachel e Chandler. Quello che poi sarebbe ingrassato e avrebbe avuto problemi con l’alcol, quella che poi avrebbe fatto Scandal, quello che poi sarebbe diventato il protagonista di uno degli spin-off più odiati della storia, quella che poi sarebbe diventata l’attrice più pagata della televisione — fino all’avvento di Kaley Cuoco, sembra — quello che è semplicemente una persona equilibrata. Un titolo così diretto da non lasciare spazio a interpretazioni né traduzioni (ci hanno provato, però), premesse così chiare da non essere necessarie ulteriori spiegazioni. Ora, a distanza di dieci anni dalla fine della serie e di venti dal suo inizio, da quella stagione perfetta che ha aperto questo ragionamento, ognuno di noi ha almeno un ricordo legato a Friends. Qualcuno di noi lo cita a memoria. La maggior parte di noi se lo ricorda come qualcosa a cui voler bene.
«This guy says “hallo” and I want to kill myself» diceva un Joey dalla pettinatura drammaticamente ondeggiata e completamente avvolto nella pelle sintetica, nel corso del primo dialogo, e allora cominciava un’epoca. È interessante chiedersi quando in effetti pubblico e critica siano accorti di cosa stava succedendo sotto i loro nasi, se si sia trattato di un debutto evidentemente spettacolare o se fosse una delle decine di serie, che poi si sarebbe trasformata in un culto epocale. Vulture ha raccolto un po’ delle critiche uscite al debutto di Friends. Mi sono divertito a commentarle, senza la pretesa di ottenerne un’analisi.
«La nuova sitcom di NBC di rivela una specie di spot di trenta minuti di Dockers, Ikea o per della birra light, solo più sconcio. Uno dei personaggi (Chandler nel pilota, ndr) racconta di un sogno che ha fatto: aveva un telefono al posto del pene e quando il telefono è suonato, “ho risposto, era mia madre”. E questi sono i primi cinque minuti. […] È più un talk-show sceneggiato che una sitcom»
— Washington Post , 22 settembre 1994
Quello che penso ogni volta che sento Matthew Perry ripetere, solo per me, quella particolare battuta è, inevitabilmente: «resisti, cambierà». Una puntata pilota è, in genere, un tavolo di prova dal quale nessuno, nemmeno Chandler, esce come era entrato. Altrimenti la serie sarebbe condannata a una breve quanto piatta esistenza di una, massimo due, stagioni durante le quali tutto si esaurirebbe in poche battute-campione. Il fatto che nella prima puntata di Friends ci siano decine di particolari che, col senno di poi, non convincono, è il segreto del suo successo e la genialità sta nel fatto che oggi esista un “senno di poi”. Il personaggio che abbiamo imparato a riconoscere come Chandler è del tutto distante dal suo sogno di telefoni e peni, e detta la linea per una delicatezza decisamente fuori dal comune.
«Stando all’orda di commedie per 20-something che affollano il palinsesto come fan in camicia di flanella a un concerto degli Smashing Pumpkins, la maggior parte dei giovani non fa altro che bere caffè. […] Monica (Courtney Cox) lavora in una caffetteria, immagino che questo li aiuti a soddisfare le proprie abitudini a un prezzo di favore».
— Columbus Dispatch, 22 settembre 1994
Sorvolando sul fatto che Monica non ha mai lavorato in una caffetteria (il critico si confonde probabilmente con Rachel, ma anche qui ci sarebbe da discutere sul concetto di lavorare), qui si arriva a un punto fondamentale: sì, Friends era per più che ventenni non ancora trentenni. Un’amica, al suo trentesimo compleanno, mi ha telefonato in lacrime e quando le ho intimato di smetterla subito perché stava facendo una sceneggiata inutile, quando le ho spiegato che i trenta sono i nuovi venti e le ho ricordato quante volte ci siamo sentiti vecchi nel corso della nostra breve vita, mi ha risposto, «no, non hai capito. Mi manca Friends». Questo è quello che succede quando appiccichi una serie a una generazione, non passa più. E ogni episodio della vita diventa il banco di confronto per quello che erano i tempi in cui quella particolare serie andava in onda. In Friends la gente a trent’anni va in crisi, ma poi si sposa, si trasferisce, trova una nuova ragione di vita e di nonsense. Le stagioni vanno avanti, finché non finiscono e le chiavi restano tutte nell’appartamento vuoto. Allora devo ammettere che un po’ di magone viene anche a me.
«[…] Dato per assunto che gli appartamenti e la caffetteria sono molto simili — e che a livello di dialoghi, quello che succede da una parte, succede dall’altra — sovrapporre gli ambienti crea confusione. E l’idea che le relazioni tra tutta questa gente di bell’aspetto rimangano sempre e solo platoniche, è un po’ tirata per i capelli. Però Friends ha un bel po’ di lati positivi e non è per niente spiacevole. È così leggero e superficiale che alla fine di ogni episodio potrete avere qualche difficoltà nel ricordarvi dei particolari, solo che avrete riso tantissimo».
— L.A. Times, 22 settembre 1994
Se per caso vi capitasse di trovarvi a Los Angeles e, ancora più per caso, vi capitasse di voler visitare gli studi della Warner Bros., vi imbattereste nel set dell’interno del Central Perk. Vi sembrerà piccolo, ma saprete esattamente dove e cosa andare a cercare. Riconoscerete gli angoli e i biscotti a due colori sul bancone, vorrete scrivere gli specials sulla lavagnetta e vi sederete sul divanetto di velluto color mattone. Si chiama “tecnica della familiarità” e significa far sentire lo spettatore così a proprio agio da dargli l’illusione di conoscere veramente un posto che non esiste. Funziona, e Friends ne è la prova.
Friends in Italia è arrivato in ritardo, con una programmazione incomprensibile (andava in onda tutte le sere, sulla Rai e non seguiva la numerazione). Le prime puntate erano state doppiate tagliando la laughing track, così da riempire i dialoghi di pause sospette e piuttosto fastidiose. Eppure è rimasto e i milioni di persone che lo hanno seguito e apprezzato, hanno trovato il modo di recuperarlo — è stato uno dei primi cofanetti di successo — e vederlo nel suo ordine naturale. Forse non in molti hanno familiarità con i nomi di Marta Kauffman e David Crane o con le loro serie precedenti — Dream On, per dire — quanto invece sanno tutto di Jennifer Aniston, del suo naso e del suo celebre ex marito. Però nessun trentenne di oggi può dire di non aver mai letto quei nomi circa un minuto dopo aver tamburellato quattro volte su una delle sigle più storpiate del piccolo schermo. E questa è un pezzo della nostra eredità.