Quando ho scritto questo profilo le accuse di stupro nei confronti di Bill Cosby c’erano già e avevano fatto parlare. Erano affiorate sulla superficie della sua carriera nel 2005, quando la cestista Andrea Constand lo aveva denunciato alle autorità canadesi per «attenzioni inappropriate». Poi è venuta Tamara Green e una storia di sonniferi dai risvolti poco piacevoli da descrivere, quindi Beth Ferrier e in poco tempo le illazioni si sono fatte concrete e i processi inevitabili. Cosby è entrato e uscito dalle accuse — quattordici in tutto, fino a Janice Dickinson, l’ultima ad accusarlo pubblicamente lo scorso 18 novembre — senza mai rilasciare dichiarazioni. È andato avanti a recitare, a predicare come dirò nel profilo, in un misto di professionalità e omertà che tutto sommato non lo ha salvato dall’ingiuria. Qualche giorno fa il Network TV Land ha annunciato la sospensione delle repliche di The Cosby Show, dopo quasi trent’anni di syndacation senza interruzioni. NBC aveva già annullato i lavori per una nuova serie che avrebbe voluto Cosby protagonista. Lui continua a evadere le domande dirette, ma ora sembra che non ci sia più niente a separarlo dalla risoluzione — in un modo o nell’altro — di una situazione incresciosa.
Avevo scelto di soprassedere a questo genere di accuse e alle voci riguardanti la vita privata di Cosby, in questo profilo, per concentrarmi sul comico. Non ho ritoccato il testo originale, ma è ormai impossibile far finta che la sfera privata non incida sulla carriera professionale.
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È un’unica espressione continua. È una maschera di gomma, che si trasforma e restituisce tutto quello che la bocca non può dire. È un pupazzo, non è un uomo, è uno che fa delle lunghe pause prima delle punch line, come se si fosse dimenticato quello che aveva in mente. Come se si stesse chiedendo se quello che sta per dire è giusto per il pubblico, se non offenderà nessuno, se sarà in grado, anche lontanamente, di educare chi lo sta ascoltando. Come se fosse una missione, come se fosse mandato sui palchi da dio in persona a insegnare le buone maniere e come se per farlo fosse costretto a reprimersi, lui per primo.
Quello che era Bill Cosby prima del Cosby Show — I Robinson — è più o meno quello che poi è stato attraverso la sitcom che lo ha immolato al piccolo schermo e quello che è rimasto dopo la fine della serie, lungo una carriera che dura da più di cinquant’anni. Tra prediche e paternali, battute corrette e un sano disgusto per la volgarità, televisiva e non. Nel 1987, durante uno spettacolo di stand-up intitolato Raw , Eddie Murphy raccontava la storia di Cosby che gli telefonava per chiedergli, gentilmente, di usare meno parolacce durante i suoi show. In nome dei suoi fan più giovani, diceva, tra cui c’erano gli stessi figli di Cosby. Murphy si era sentito talmente offeso da quella telefonata, che a sua volta aveva chiamato l’amico e collega Richard Pryor — un genio su cui prima o poi dovrò scrivere qualcosa — che gli aveva risposto: «La prossima volta che il figlio di puttana ti chiama, digli che venga da me a succhiarmi il cazzo». Ecco, per capire Cosby, bisogna considerare l’amichevole consiglio di Pryor come l’esatto contrario di quello che il padre di famiglia televisivo per antonomasia darebbe mai.
Cosby, nato nel 1937 da una famiglia piuttosto numerosa di Philadelphia e cresciuto in un ambiente — dopotutto e con le necessarie osservazioni del caso — protetto, ha sviluppato negli anni della sua formazione quella che adesso appare come una vera e propria ossessione per le buone maniere. E non ne ha mai fatto mistero. Per tutto corso della sua permanenza televisiva, vale a dire da poco prima quel 20 settembre 1984, quando il pilota del Cosby Show è andato in onda, fino a tutt’oggi e con grande probabilità al momento in cui la vita farà il suo corso, quello che ha fatto è stato predicare un modo di fare migliore di quello dei suoi contemporanei. Ogni volta che gira lo sguardo verso il cielo, ogni volta che tira in dentro le labbra, ogni volta che si rivolge con voce baritona alle telecamere, sta riprendendo tutti i figli d’America e — per necessaria estensione — del mondo occidentale. «Questa è la cosa più stupida che io abbia mai sentito, Theo. Come ti ho messo al mondo, ti levo» è una delle prime battute rivolte all’unico figlio maschio della famiglia Huxtable — Robinson per noi — ed è il primo grande scappellotto globale.
Le critiche, nel corso degli anni, gli sono piombate addosso da un po’ tutte le parti, per questa sua fermezza di sentimento, ma quelle che probabilmente lo hanno scosso maggiormente sono quelle provenienti dalla comunità afroamericana. Che la famiglia Huxtable, modellata da Cosby attorno al se stesso di allora, fosse piuttosto fuori dalla realtà, lo ha già scritto perfettamente Laura Carli. Ciò che però serpeggia sottotraccia è come nessuno dei protagonisti fosse legato a una particolare minoranza razziale. Oggi la cosa può essere letta come uno sforzo di apertura antisegregazionista, allora era soltanto un modo per allontanarsi dalle proprie radici. Dopo lo show, Cosby ha guardato dritto negli occhi la comunità afroamericana e le ha chiesto senza mezze misure di darsi una regolata. Di tirarsi su i pantaloni, di lasciare perdere il rap, di pettinarsi come si deve e, per carità divina, di smetterla con quel linguaggio volgare e incomprensibile. «Il negro ripulito vuole che assomigliamo di più ai suoi amici bianchi», ha commentato senza troppo girarci intorno il comico Bernie Mac . Probabilmente non c’è altro da aggiungere per comprendere quanto il destino di Cosby fosse segnato all’interno della sua comunità di appartenenza.
Durante i primi anni dello stand-up, dopo essere emerso attraverso la redazione di un giornale satirico nel periodo dell’università — liscia come l’olio malgrado gli ultimi vagiti di segregazione — e prima ancora facendo il buffone per la gioia dei compagni di liceo, la competizione era labile, ma agguerrita e sicuramente molto preparata. Erano gli anni Settanta e i comici cominciavano a dire le cose come stavano, cominciavano a parlare al pubblico come il pubblico voleva sentirli parlare. Sfacciati, volgari e realistici. Lontani dall’avanspettacolo dei Sessanta e vicini a infilare la testa in tutti i salotti americani. Parliamo di Pryor, già citato, ma anche di Red Foxx, Steve Harvey e soprattutto parliamo dei figli della rivoluzione di Lenny Bruce . Bianco sì, ma inguaiato come pochi al mondo. Bill Cosby ha saputo sfruttare il realismo a suo piacimento, ha saputo deviare la libertà lungo un sentiero recintato e diretto in un senso preciso: quello della predica. Infinita, sfibrante, a tutto tondo.
«Quella di Cosby è la celebrazione dell’inevitabile» scriveva Kelefa Sanneh sul New Yorker non molto tempo fa. Vero. È anche vero che inevitabile è che sia il comico a condurre il pubblico, e non viceversa. Il rischio, in una condizione come questa, è che il comico si trasformi in un predicatore e perda la via, cosa che forse sarebbe successa se Cosby non fosse stato benedetto dal dono di una faccia di plastilina. In grado da sola di supplire ai vuoti di argomentazione che gran parte dei suoi colleghi riempiono della potenza esplosiva che gli deriva dalla risposta sconnessa del pubblico. Cosby è qualcosa che cresce piano, qualcosa di meditato e attento che finisce per aprirsi nell’oceano della recriminazione a poche battute dalla fine. Sostanzialmente le sue argomentazioni sono rimaste immutate nel corso degli anni, adattandosi ai tempi e andando a scovare quello che lui interpreta come il marcio dei suoi connazionali. È qualcosa di vicino a un vecchio comico arroccato in un avamposto abbandonato, senza sapere che la guerra è finita, ma ormai parte di una grande guerra, tanto personale quanto eterna. Tra i rapporti con la moglie, con i figli, con i vicini. Un ragazzino che non sa nemmeno cosa siano le tonsille che gli devono togliere, ma pianifica un’orgia di gelato al cioccolato. «Sapete cosa faccio? Quando mi daranno la prima pallina di gelato non la mangerò, me la spalmerò addosso», in un mondo lontano da una vita vera complicata e sfacciatamente ignorata.
La grande predica di Bill Cosby era cominciata dal palco, si era evoluta in Fat Albert ed era sfociata nel Cosby Show, rimanendo fedele a se stessa. Richard Pryor, che viveva su un altro pianeta ed era quindi con tutta probabilità la persona più adatta a parlarne, aveva definito Cosby un “alieno rompicoglioni” ma anche «la persona che da un senso al mio gusto per dire volgarità e che, alla fine, rimetterà in sesto questo Paese del cazzo». Chissà, magari aveva ragione e quando Cosby smetterà di parlare, tutto quanto andrà a rotoli.