La cronaca dice che si è concluso con un nulla di fatto l’incontro del 3 settembre tra i sindacati e l’azienda Coca-Cola Hbc Italia. Nessun accordo su come gestire gli esuberi targati 2014: 249 posizioni commerciali in tutta Italia e 57 impiegati amministrativi della sede di Campogalliano (Modena), destinata alla chiusura. I sindacati hanno deciso di «non entrare nel meccanismo di accordo», spiega Marco Bermani, segretario nazionale della Flai Cgil, perché «l’azienda non accetta di usare i criteri di legge 223/91 per individuare i lavoratori da collocare in mobilità. Criteri che tengono conto dell’età, dell’anzianità lavorativa, dei carichi familiari». A questo punto entro settembre, aggiunge, si terrà un tavolo al ministero dello Sviluppo economico, dove la questione si aggiungerà alle decine attualmente in discussione.
Il motivo degli esuberi è la fine di un’anomalia della Coca-Cola in Italia: una rete vendita formata da venditori dipendenti, invece che da agenti esterni o da un mix di venditori e agenti. Ora le attività della rete vendita interessata sarà fatta gestire ai grossisti, ma, dice il sindacalista della Flai-Cgil, «sappiamo quanti lavoratori escono e non quanti se ne creano presso i grossisti».
L’azienda sta provando, come fatto già in passato, a incentivare l’uscita, con offerte economiche. Se si farà come in passato, si parla di incentivi all’esodo di almeno 40mila euro. Come in passato, ci potrebbero essere delle ricollocazioni: per la sede di Campogalliano si parla di uno spostamento parziale a Buccinasco, reso però difficile dal fatto che gran parte della forza lavoro è composta da donne, spesso con figli piccoli. Per questo un’altra strada su cui azienda e sindacati stanno cercano un accordo è quella di far lavorare parte delle persone con il telelavoro, modalità, spiega il sindacalista, prevista dal contratto.
La serie dei tagli
Nelle crisi aziendali degli ultimi mesi un compromesso è stato trovato. Lo scorso dicembre l’accordo per la chiusura della Coca-Cola di Gaglianico, in provincia di Biella, si chiuse con il riconoscimento di dieci mesi di cigs, a cui si sono sono sommati da uno a tre anni di mobilità a seconda delle esigenze. Ci fu anche un incentivo all’esodo d 33mila euro e un’integrazione agli ammortizzatori da 10mila euro. Gli 84 esuberi previsti furono ridotti di 23 unità, che furono ricollocate.
All’inizio del 2014 il sito di logistica di Nogara (Verona), ha visto un taglio di 140 persone, a causa di una esternalizzazione. Anche in quel caso ci furono incentivi da 33mila euro e l’azienda si impegnò, in caso di ricollocazione esterna, a corrispondere per 30 mesi una somma pari alla differenza di retribuzione mensile. Accordi simili furono alla base delle 379 persone tagliate con una decisione della fine del 2012.
Il punto è che, nonostante, i buoni rapporti sindacali, si continua a tagliare, con i dipendenti in Italia passati, dicono i sindacati, in pochi anni da 3.000 a circa 2.000. La paura di rappresentanze e lavoratori, ora, è che il prossimo passo sia intaccare anche i cinque stabilimenti produttivi, perché, spiega Bermani «nulla vieta che il prodotto sia trasportato dall’estero. Si pone quindi un problema di competitività degli stabilimenti italiani». Anche di questo, probabilmente, si parlerà al ministero.
La Coca-Cola Hbc Italia è parte della Coca-Cola Hellenic, filiale della multinazionale che copre i mercati dell’Europa dell’Est, compresa la Russia, che è il primo Paese dell’area, seguito dall’Italia, oltre che nazioni africane come la Nigeria, terzo mercato. Nel complesso nel 2013 il fatturato ha continuato a crescere, come l’utile netto, a quota 293 milioni di euro. Solo in Italia, aggiunge Bermani, l’utile è stato di 70 milioni di euro. Il problema è, aggiunge, soprattutto nella diminuzione dei volumi, che si inserisce in un contesto difficile per tutto il comparto delle bibite. In Italia è una questione soprattutto di crisi economica, che spinge, esemplifica il sindacalista, «le vendite delle bustine di the rispetto alla stessa bevanda in bottiglia».
Alla ricerca della nuova Diet Coke
Anche nel resto del mondo non è un periodo semplice per la multinazionale con sede ad Atlanta. I suoi 2 miliardi di drink serviti al giorno, attraverso 500 diverse bevande, valgono un quarto dei consumi mondiali di bibite (la Pepsi Co, storica rivale, si ferma all’11% di quota di mercato). Ma il fatturato mondiale del 2013 è stato di 46,8 miliardi di dollari, in discesa rispetto ai 48 miliardi del 2012. Anche il primo semestre 2014 ha visto una diminuzione dei ricavi del 2,7% (pari a 23,150 miliardi di dollari), con una discesa in Eurasia (comparto dove è presente anche l’Italia), Africa, America Latina e Asia-Pacifico, nonostante l’effetto traino dei Mondiali di calcio. Cresce l’Europa del Centro-Nord, ma c’è stato un rallentamento del Nord America. A causare il blocco c’è stata anche una tassa in Messico, che è il secondo mercato mondiale e il primo per consumi pro-capite e che, però, ha anche il record delle persone obese, pari al 70% degli adulti.
Anche negli Stati Uniti, tuttavia, ci sono segnali di preoccupazione. Come ha sottolineato una lunga analisi di Businessweek, le fonti di preoccupazione si chiamano acqua e Red Bull, che stanno rosicchiando quote di mercato per motivi diversi. Gli statunitensi, gradualmente, sono raggiunti dai messaggi salutistici, di cui il primo sponsor è la first lady Michelle Obama. Durante gli anni Settanta le persone hanno raddoppiato la quantità di bibite che bevevano. Negli anni Ottanta le bibite vendute hanno superato in numero l’acqua in bottiglia. Nel 1998, dice ancora Businessweek, ogni americano beveva in media 56 galloni, ovvero 246 litri, ogni anno. Poi è iniziata la discesa e oggi la quota media è scesa all’equivalente di 450 lattine all’anno. Se aumenta la necessità di diminuire le calorie, sta anche crescendo la diffidenza verso l’aspartame. Così la Diet Coke nel 2013 ha visto un calo di ben sette punti percentuali (contro il -2% della Coca-Cola normale), a causa delle preoccupazioni sugli effetti del dolcificante sulla salute.
Per questo oggi molte società produttrici di bibite stanno provando nuovi dolcificanti naturali, a partire dalla stevia. La stessa Coca-Cola sta testando in Argentina e Cila, la “Coca-Cola Life”, a base della pianta sudamericana. Il problema, ha riportato tra tanti uno speciale di The Globe and Mail, è che nelle cole il gusto è tutt’altro che convincente e che in generale il sapore dolce arriva con un certo ritardo. Trovare l’utilizzo ideale di questo dolcificante viene considerato nell’industria una sorta di Sacro Graal per salvare il comparto.