C’è un uomo solo al comando del calcio italiano. C’entra con Optì Pobà e le banane, ma non è Carlo Tavecchio. È il suo grande elettore Claudio Lotito. Scrivere e raccontare la sua scalata al potere del pallone da impresario nel settore delle pulizie a Roma, significa scrivere e raccontare uno spaccato bello ampio del nostro Paese. Il «mondo inquinatissimo» della Roma capitolina sul tramontare della Prima Repubblica. Capitalia e «L’unico banchiere italiano non di sinistra». Il “Divo”, “Il re delle acque minerali” e petrolieri che sfidano il vento del nord. Cragnotti, i pomodori d’eccellenza e i bond non ripagati. Le banane e i voti contati e non pesati. Ma soprattutto, significa scrivere e raccontare del più grande gattopardo del calcio italiano.
Un imprenditore “multipartisan”
Già, perché se vuoi andare al potere devi cambiare tutto per lasciarlo così com’è. Devi proporre un cambio di moralità, di direzione, di voglia di uscire dal marcio, ma allo stesso tempo devi essere pronto a salire su più carri. Sentire le correnti, infilarti in quelle giuste. Parlare in latino e mentre tutti pensano che tu sia un saltimbanco, salire piano la china. E aggirare gli incidenti di percorso sfruttando la scarsa memoria di cui pare affetta buona parte dell’Italia.
A volte però la memoria funziona poco perché distratta, concediamolo. In fondo, nel novembre del 1992, aprire il giornale e leggere “Arrestato imprenditore, appalti miliardari” è una di quelle cose che al mattino ormai non ti fa più nemmeno sputare il caffè. Sul Messaggero finiscono foto e storia di un giovane romano, arrestato e condotto a Regina Coeli assieme a un dirigente della Regione Lazio, accusato di aver manomesso la gara per le pulizie nel palazzo del governo laziale. Lotito esordisce così sulla pubblica scena nazionale, ma abbassato al rango di businessman locale che dotato di pistola (registrata) e con il tocco esotico di un telefono cellulare (mica ce l’hanno tutti, all’epoca). È il primo passo falso della stampa italiana: sottovalutarlo. In fondo, nell’anno in cui Mario Chiesa venne pizzicato con le mani nel sacco al Pio Albergo Trivulzio, «il giovane di bella presenza, fidanzato con una delle figlie del costruttore Mezzaroma» non fa notizia. Lotito è uno dei tanti che galleggia nel «mondo inquinatissimo» delle pastoie tra politica e imprenditoria della capitale della Prima Repubblica, come lo definisce Gianfranco Turano nel suo libro “Fuorigioco”.
All’epoca dell’esordio sul Messaggero, Lotito non amava la mondanità, né farsi fotografare in pubblico. Una doppia beffa, per uno che, dopo la laurea in pedagogia, a fine anni Ottanta aveva anche preso il tesserino da pubblicista grazie alle collaborazioni con “Il Tempo” e “Il Gazzettino del Lazio”. Più che i lustrini, Lotito preferisce capire come posizionarsi a Roma. Ovvero, in una città dove comanda la Democrazia Cristiana, seppur frazionata in varie correnti. Il sindaco è biancoscudato e Andreotti conserverà il potere anche dopo l’esclusione alla corsa al Quirinale. Al Governo c’è invece il Pentapartito. Un sottofondo politico ampio e variegato, nel quale nel 1987 il futuro proprietario della Lazio diventa imprenditore fondando la Snam Sud, specializzata in pulizie. Arrivano poi altri business: mense (Bona Dea) e Roma Union Security (vigilanza). La prima svela l’amore di Lotito per il latino, la seconda per la sua squadra del cuore: sulle divise dei vigilantes c’è un’aquila, simbolo della Lazio. Un amore nato così, secondo Lotito: «Avevo 6 anni. Il fidanzato della mia tata mi chiese: “ragazzì che squadra tieni?”E io: “Nessuna”. “Nun se po’ risponde nessuna, devi tifà Lazio”, mi disse. Da allora fu così».
Gli obiettivi di Lotito sono gli enti pubblici e le aziende controllate dallo Stato. Entrano così appalti importanti, prima e dopo l’incidente per turbativa d’asta (che supera brillantemente): Provincia di Roma, Regione Lazio, l’Azienda ospedaliera Spallanzani, il Policlinico Tor Vergata, il reparto Scico della Guardia di Finanza, l’Archivio di Stato. In pochi anni diventa il re degli appalti nel proprio settore. «Vengo da una famiglia molto religiosa: qui in tasca ho il Vangelo e il rosario. Li porto sempre con me. Quel che ho fatto l’ho costruito con le mie mani, ma è stata la divina provvidenza a mettermi sulla strada giusta», spiegherà. O quella o l’atteggiamento “multipartisan” di cui lo accusano i malpensanti e gli avversari, ai quali regolarmente restano le briciole. Dicono che sia amico sia del centrosinistra che del centrodestra nati dalla Seconda Repubblica, così come sapeva bene muoversi nella Prima tra dc e Pentapartito. Per lui, negli anni Novanta, Badaloni e Storace pari sono. «Il momento di maggiore espansione del fatturato del gruppo Lotito con le aziende della Regione è tra il ‘95 e il 2000, quando governava il centrosinistra. Non dubito che fossero regolari anche le gare dell’epoca», replicherà Storace. E poi c’è Cesare Geronzi, «L’unico banchiere italiano non di sinistra» (copyright: Silvio Berlusconi) che tramite la Banca di Roma lo finanzia tutte le volte di cui ha bisogno, così come foraggia Sergio Cragnotti, l’ex manager di Enimont che nel 1992 compra la Lazio.
Lotito ancora non lo sa, ma il calcio sta entrando nella sua vita. Succede quando Andreotti assesta uno dei propri ultimi colpi. Da romano e romanista, dopo aver affidato la Roma a Giuseppe Ciarrapico (noto come il “Re delle acque minerali”), gliela toglie nel 1993 dopo che il re stesso cade dal trono per finire in carcere a più riprese. La “Maggica” finisce in mano al petroliere di origini marchigiane Franco Sensi e al costruttore romano Pietro Mezzaroma, fratello di Gianni (a sua volta suocero di Lotito). Ma anche lui finisce nelle maglie della giustizia, così Sensi si prende tutta la Roma. Nel breve periodo di interregno, Lotito può osservare il fratello del suocero amministrare una squadra di Serie A; ma è con la gestione Sensi che Claudio si rende conto di quanto possa essere al contempo deleterio. Già, perché il petroliere romano d’adozione si mette in testa di voler sfidare il “vento del nord” composto dalle grandi milanesi e la Juve, spostando sulla capitale lo scontro tra grandi nel derby.
Contro “la società de li magnager”
Dall’altra parte di Roma c’è Cragnotti, che vuole fare della Lazio un’azienda. Il problema è che lo fa all’italiana: prende soldi dalle banche (Capitalia, dove nel frattempo è confluita la Banca di Roma) trattandole come sportelli personali; e quando proprio ha bisogno di liquidità fa passare la quotazione in Borsa come una grande azione di modernità. Invece i risparmiatori stanno per essere spennati e Geronzi si stacca da Cragnotti poco prima del default di Cirio per i junk bond da 300 milioni emessi in Lussemburgo e non ripagati. Dall’altra parte, a Sensi le cose non vanno meglio: lo scudetto, le coppe Italia e le supercoppe italiane costano, tanto che anche la Roma, come la Lazio, finisce in mano alle banche, anche se con qualche anno di ritardo rispetto ai biancocelesti. Ma Lotito ha già chiarito il suo amore per la Lazio e la compra il 19 luglio del 2004.
Per le Aquile è un’estate caldissima. Il club rischia di sparire dopo che Capitalia ha convertito in azioni il proprio credito nei confronti della società; ma i salassi ulteriori nei confronti degli azionisti del club non bastano a tenere a galla una squadra che rischia di fare la fine della Fiorentina di Cecchi Gori. Lotito arriva e firma un assegno di 21 milioni di euro acquistando la maggioranza della Lazio tramite la controllata Lazio Events. Un successo in pieno Lotito-Style. Come ricorda Fulvio Paglialunga, che al proprietario biancoceleste ha dedicato di recente un bel ritratto, «già qui, Lotito è furbo: vince un braccio di ferro politico, perché lui era sostenuto da Storace (all’epoca Governatore del Lazio) e Piero Tulli, l’altro contendente (che poi ha provato a creare la Cisco Roma, insomma ai laziali non sarebbe andata meglio) era sponsorizzato da Veltroni (allora sindaco di Roma)».
Ilsalvataggio della Lazio rientra a pieno nel mito calcistico italiano. Un’azione eroica condotta sul filo del rasoio, tra speranze, paure, tifosi in rivolta e corse in scooter di avvocati che dribblano il traffico con in borsa il maxi-assegno per comprare il club. Una scena che ricorda l’acquisto in extremis di Maradona da parte di Ferlaino l’ultimo giorno di calciomercato estivo del 1984. Vent’anni dopo, nulla è cambiato. La Lazio è salva, i soldi arrivano da credito del nuovo proprietario con la Regione Lazio (anche se il bilancio consolidato delle aziende di Lotito parlano di un fatturato da 90 milioni di euro e 6mila lavoratori alle sue dipendenze). E in breve tempo Lotito diventa “Lotutto”. Nel senso che è dappertutto. Ufficio stampa della Lazio e di sé stesso, in televisione e sui giornali, parla solo lui. Sciorina frasi latine e in poco tempo si pone come rinnovatore della parte morale del calcio italiano. Altro che Sensi e Cragnotti. Di sé dice di pensare solo al lavoro e di stare sempre attaccato ai suoi cellulari: «Li tengo sempre in tasca, due da una parte, due dall’altra. Uno è dedicato alla squadra, uno alle mie altre attività professionali, un altro ancora alla famiglia e uno è riservatissimo, il numero lo ha soltanto la mia segretaria. Li spengo soltanto durante le tre ore e mezzo di sonno che mi concedo ogni notte e quando vado in chiesa, la domenica».
Latino, chiesa, lavoro. Sembra fuori dal tempo, viene trattato al pari di una macchietta. Invece nel tempo – e nello spazio – italiano ci sta benissimo. Come quando viene coinvolto nello scandalo Calciopoli per illeciti commessi nella stagione 2004/05, il primo della sua gestione. Ne esce bene, come nel 1992. Inizialmente gli vengono comminati dalla Commissione d’Appello Federale 3 anni e 6 mesi d’inibizione (e 100mila euro di multa), oltre alla retrocessione d’ufficio in Serie B per la Lazio. Il 27 ottobre, però, la Camera di Conciliazione del Coni tramite sentenza definitiva condanna Lotito a 4 mesi di inibizione; per la Lazio niente retrocessione, solo una penalizzazione di 3 punti nel campionato successivo. Nel 2009, per Lotito arriva una condanna in primo grado a due anni di reclusione per aggiotaggio; per lo stesso reato, 1 anno e 8 mesi per Roberto Mezzaroma, zio della signora Lotito. Si ricrea la coabitazione in una squadra di calcio tra la dinastia romana e un imprenditore locale, come ai tempi della Roma. Ma stavolta Mezzaroma, acquistando per conto di Lotito il 14% del club – e con l’azionista di maggioranza in possesso del 29% – avrebbe, d’accordo con Lotito stesso, superato la soglia del 30% oltre la quale per legge si è obbligati a lanciare un’Opa sull’intero pacchetto azionario. Nel 2012, la condanna per Lotito si riduce a 18 mesi di reclusione. La Cassazione, visto che nel frattempo è scattata la prescrizione per l’aggiotaggio, rinvia tutto alla Corte d’Appello di Milano nel gennaio 2014 per la determinazione della pena sull’acquisto di oltre il 30% senza Opa.
E poi c’è la condanna in primo grado a 1 anno e 3 mesi inflittagli dal Tribunale di Napoli per il processo penale di Calciopoli. Quindi, la battaglia legale ingaggiata con il Coni per il canone d’affitto dello Stadio Olimpico. Una battaglia morale, per la quale si espone eroicamente affermando che due milioni di euro di canone sono una “estorsione” e beccandosi una querela dall’allora capo del Coni, Gianni Petrucci. L’occasione è propizia per combattere una battaglia ancora più grande: quella degli stadi di proprietà. Già, perché lo schema è semplice: impersonare l’incarnazione della moralità, cosa che in Italia pare esercitare sempre un certo fascino. «’Sto mondo va cambiato. Nel pallone ho trovato più prenditori che imprenditori, più magnager che manager», dice. Solo i tifosi della Lazio sembrano non cascarci. L’allusione ai “magnager” è per Cragnotti, idolatrato dai laziali per i risultati e per gli ampi favori alla Curva Nord e in particolare agli Irriducibili, tra biglietti omaggio e concessioni sui diritti di merchandising.
Il Fair Play Finanziario secondo Lotito
Lotito è uno che deve sanare i debiti e che spende poco. E da Lotutto e diventa “Lotirchio”. Ma si salva sempre e la Lazio con lui. Anche quando si tratta di sanare i 140 milioni di debito con il Fisco che il ministro Giulio Tremonti non dimentica. Lotito tratta con il sottosegretario Maria Teresa Armosino, lavorandola ai fianchi e tempestandola di chiamate, chissà da quale dei quattro telefonini che spesso ricorda di portare sempre con sé. Turano riporta nel suo “Fuorigioco” lo sfottò che comincia a circolare nei palazzi del ministero, dove i dipendenti si chiedono fra loro ridendo «C’è er Zotto?». Dove Zotto sta per sottosegretario, formula di apertura delle chiamate di Lotito. Sfotti oggi, sfotti domani, Lotito ottiene dal Fisco un maxi-sconto clamoroso che prevede rate annuali da poco più di 5 milioni di euro.
«Non lascio avanzi nel piatto. Nel lavoro applico dettami morali ed etici. Ma non sono tirchio, è una bufala giornalistica». E c’è l’occasione di fare soldi, con il nuovo stadio. All’italiana però, chiaro. Mentre James Pallotta, nuovo proprietario della Roma, già si è messo all’opera, il plastico dello Stadio delle Aquile resta tale. Il progetto di Lotito, fin da subito, è quello di creare una cittadella dello sport sulla via Tiberina, proprio dove lui stesso è proprietario di 500 ettari. Il progetto arriva sulla scrivania di Storace già nei giorni di febbrile trattativa per l’acquisizione della Lazio, quando il romanista Storace lo implora di non privarlo della gioia del derby. Ma ci sono i vincoli territoriali e il tentativo di costruire case su terreni agricoli ha già ricevuto un deciso stop dal Comune di Roma, tramite l’assessore alla Trasformazione urbana Caudo: «Lotito lasci stare le case su terreni agricoli, visto che la legge sugli stadi non consente di realizzare residenze. Pallotta farà uffici in un’area edificata ed edificabile, che aspetta infrastrutture da tempo: lo dico senza polemica ma non è una differenza da poco. Noi siamo pronti a esaminare la proposta di Lotito con lo stesso rigore e nei tempi garantiti a Pallotta».
Male, malissimo per Lotito. Che senza più i fasti della Banca di Roma, ha bisogno di soldi per tenere in piedi il bilancio del club, non certo lusinghiero. Lo dice l’ultima relazione trimestrale del consuntivo biancoceleste: «Rispetto al 30 giugno 2013, i debiti correnti, al netto dell’esposizione finanziaria, sono aumentati di Euro 7,82 milioni passando da Euro 128,97 milioni a Euro 136,79 milioni». Non solo. La Lazio viene usata per pagare altre aziende della galassia-Lotito, come emerge dalla relazione stessa: «Roma Union Security, per un costo nel trimestre di Euro 0,31 milioni, riferito al servizio di vigilanza; Gasoltermica Laurentina, per un costo nel trimestre di Euro 0,32 milioni, relativo alla manutenzione del centro sportivo di Formello, dei negozi e la gestione del magazzino merci di tutta la rete commerciale della SS Lazio Marketing; Omnia Service, per un costo nel trimestre di Euro 0,24 milioni e debito di Euro 0,29 milioni al 31 marzo 2014, per il servizio di mensa sia giornaliero che in occasione dei ritiri per i tesserati presso il centro Sportivo di Formello; Lazio Snam sud, per un costo complessivo definitivo che incide solo nel trimestre di Euro 3,30 milioni e debito di Euro 3,30 milioni al 31 marzo 2014, a fronte di costi complementari alle attività ricevute per prestazioni di servizi; U.S. Salernitana per un costo nel trimestre di Euro 0,36 milioni e debito di Euro 0,48 milioni al 31 marzo 2014, per l’utilizzo di diritti commerciali e pubblicitari».
Alla vetta del calcio italiano
Già, la Salernitana. Per comprarla, si è affidata ai ricordi di famiglia, prendendola in coabitazione con il cognato Marco Mezzaroma nel 2011, portandola dalla Serie D alla Lega Pro e quindi quest’anno alla lotta per la risalita in B. Là dove c’è il Bari preso da una cordata rappresentata dall’ex arbitro pugliese Paparesta e dove ci sarebbe di mezzo pure lui a dividersi la posta biancorossa con la Infront. Ovvero la società di marketing sportivo che tra i propri clienti ha mezza Serie A, dal Genoa di Prezosi al Milan di Galliani, passando per la Lazio di sapete chi. Infront è anche l’advisor che gestisce le aste per l’assegnazione dei diritti tv.
Ed è in Lega Calcio che Lotito ha compiuto l’ennesimo capolavoro. Scalando poco a poco la montagna della massima serie, è diventato quello che per molti è ormai il vero capo del nostro pallone. E per certi versi, ce ne siamo accordi quando era troppo tardi. Lo abbiamo fatto grazie ai social, alla campagna #LotitoOvunque la precedente elezione di Tavecchio a presidente Figc di cui Lotito è stato grande sostenitore. Lo abbiamo scoperto dopo che, nel 2013, ha di fatto eliminato la Juve dalle stanze del potere, nell’ambito delle elezioni del nuovo capo della Lega Calcio. Andrea Agnelli sosteneva la non rielezione di Maurizio Beretta, Lotito sì. Beretta viene eletto presidente nonostante i voti contro della stessa Juve, Inter e Roma. Lotito vince (pardon: Beretta) perché riunisce nella sua cordata elettorale le piccole. E i voti si contano, mica si pesano. Così Lotito diventa consigliere federale. La stessa tecnica usata durante l’elezione di Tavecchio: contano le “piccole”, cioè le squadre di Serie D che Tavecchio ha diretto da presidente della relativa Lega, più numerose di quelle di A. E poi ci sono quelli che hanno capito l’antifona: come Andrea Abodi, presidente della Lega di B, favorevole a Tavecchio-Lotito dopo che dal presidente della Lazio era stato isolato come candidato alla Lega di A nel 2013.
Una volta salito Tavecchio, il programma di riforma ha cominciato ad essere attuato. Prima, via la discriminazione territoriale, così come recepita dalla Figc in base alle norme Uefa sul razzismo nell’estate 2013. Poi, sotto con le multiproprietà, quelle che secondo il programma stesso di Tavecchio «possono offrire nuove risorse in termini di formazione dei giovani e spesso possono salvaguardare anche importanti realtà calcistiche territoriali altrimenti destinate a scomparire». Il tutto mentre Lotito distraeva tutti con la polemica contro l’ad bianconero Marotta, che lo accusava di avere troppo potere in mano. Lui ha glissato alla sua maniera: «Io parlo solo coi miei omologhi, Marotta non so nemmeno se sia dottore». Ed è curioso che non gli abbia risposto in latino, quantomeno. Lotito è a tutti gli effetti il vice-ombra del nuovo presidente. Anche se ombra mica tanto. Lotito non ha più bisogno di muoversi così. Lo ha dimostrato con il presenzialismo ostentato durante le prime due uscite della nuova Italia di Conte, con tanto di giacca ufficiale della Nazionale indosso. Un’ostentazione di vittoria e potere. Lotito si è mostrato per quello che è: il vero capo del calcio italiano.