“Follower”. Nel mondo della moda, una definizione così, per di più a un marchio che è stato un campione dell’innovazione, fa male. È quello che negli ultimi anni è stato appiccicato addosso a United Colors of Benetton, il brand (assieme a Sisley) di Benetton Group spa, l’azienda che nella galassia della famiglia trevigiana ha continuato a occuparsi di tessile e abbigliamento.
E che oggi affronta problemi di conti e di immagine, eredità di una stagione che ha visto un peso sempre maggiore attribuito alle attività nelle infrastrutture e nella ristorazione del gruppo, mentre il core business, l’anima di una grande icona del Made in Italy degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, perdeva brillantezza. Ora il riassetto del gruppo potrebbe ridare slancio all’abbigliamento. Ma non sarà una passeggiata, perché nel frattempo i concorrenti sono diventati colossi con economie di scala irraggiungibili.
Un puntino nell’organigramma
Negli organigrammi sulla struttura del gruppo dei bilanci di Edizione, la holding della famiglia Benetton, il nome Benetton Group negli scorsi anni si è perso sempre più nella marea di società di controllate e partecipate, arrivate a sfiorare la trentina. Autostrade, aeroporti, stazioni, autogrill, ma anche cinema, immobiliare e molte partecipazioni nel “salotto buono”: Mediobanca, Generali, Pirelli e Prelios, Rcs, Il Sole 24 Ore, Caltagirone Editore, Banca Leonardo. Partecipazioni che di certo sono state redditizie, almeno in alcuni casi. Basti pensare che in un anno difficile come il 2013, la controllata Atlantia (autostrade e aeroporti di Roma, gestiti dalla stessa società dopo la fusione di Atlantia con Gemina, che controllava Aeroporti di Roma) ha avuto un risultato netto di 638 milioni, il 15% dei 3,5 miliardi di euro di ricavi. Il settore tessile di anno in anno diventava sempre più piccolo, con 1,6 miliardi di euro di ricavi in confronto ai quasi quattro miliardi di Autogrill e ai 2 miliardi di World Duty Free Group, scorporata dalla stessa Autogrill un anno fa.
Il riassetto
Da due anni le cose hanno però preso una nuova direzione nella galassia Benetton: non solo per la forte discesa in Rcs e l’uscita da alcuni business, da Sagat, società che controllava l’aeroporto di Torino e Aeroporti Holding (aeroporto di Firenze), a The Space Cinema (dove era in tandem con Mondadori), fino al 2% che deteneva di Brunello Cucinelli. Ma soprattutto per il grande cambiamento che ha riguardato proprio Benetton Group spa.
Dopo l’uscita dalla Borsa nel 2012, alla fine del 2013 è stato approvato un programma triennale di rifocalizzazione del business che, relativamente all’azienda del tessile della galassia Benetton, ha previsto di creare tre società distinte: una focalizzata direttamente sui brand, una manifatturiera e una per la gestione immobiliare. Scopo del riassetto è quello di tornare alla struttura originale e riposizionare la società sul «core business» e ridare vigore ai marchi Benetton e Sisley, sempre più sotto assedio da parte dei concorrenti fast fashion.
Qualche dettaglio si è saputo con il via libera arrivato all’assemblea straordinaria del gruppo del primo ottobre: le produzioni industriali dal prima gennaio andranno in una società chiamata Olimpias, mentre Benetton immobiliare avrà i negozi di proprietà, con un valore stimato in 5-600 milioni di euro.
(China Photos/Getty Images)
Nel frattempo Benetton Group ha incorporato prima la Benetton Holding International, con sede legale ad Amsterdam e sede amministrativa in Lussemburgo, che controlla a sua volta la Benetton International Manufactoring.
Per arrivare al riassetto sono soprattutto stati cambiati i vertici: Alessandro Benetton, 50enne figlio di Luciano e presidente del gruppo dal 2012 (dopo 20 anni in 21 Investimenti, che ha fondato), è stato sostituito da Gianni Mion. Lo scorso maggio lo storico manager del gruppo, Marco Picone, in azienda dal 1987, ha lasciato la carica di amministratore delegato a Marco Airoldi, ex partner di Boston Consulting Group. Proprio alla società di consulenza strategica Alessandro Benetton aveva affidato nel 2012 l’incarico di riorganizzare il gruppo.
Conti in discesa
Per capire quanto fosse necessario un rilancio, basta guardare l’andamento dei ricavi di Benetton Group. Nel 2008 erano pari a 2,128 miliardi di euro, con un utile netto di 155 milioni. Poi è stata una discesa continua: 2,05 miliardi nel 2009 e nel 2010, 2,3 nel 2011, 1,8 nel 2012 e 1,6 miliardi nel 2013.
Nel 2013 per la prima volta anche il risultato operativo è stato negativo, per 151 milioni, e il risultato netto è stato in rosso per 199 milioni. Nell’ultimo anno, così come nei precedenti, la ragione principale per la discesa nei ricavi, secondo il bilancio, sono le difficoltà congiunturali nei principali mercati, in particolare l’Itala e l’area mediterranea.
Sono proprio i dati italiani quelli più duri: nel 2008 i ricavi erano pari a 1,016 miliardi, nel 2013 solo a 617 milioni. Risultati a cui si è arrivati anche per la chiusura di vari negozi. L’indebitamento si è invece dimezzato, grazie a nuove formule di vendita, con rifornimenti più frequenti.
1995: Michael Schumacher, all’epoca pilota della Benetton, e il team manager Flavio Briatore dopo la vittoria al Gran Prix del Pacifico in Giappone (TOSHIFUMI KITAMURA/AFP/Getty Images)
Anche alcuni marchi sono stati sacrificati: Playlife, Jean’s West, Killer Loop, Anthology of Cotton, mentre 44 addetti operativi tra il quartier generale di Ponzano e Castrette sono stati tagliati, dopo un accordo sindacale.
Tra le dismissioni di negozi c’è stata quella di un grande negozio vicino a via del Corso a Roma (dove ora c’è H&M), di un immobile a Tokyo e quella recente di un punto vendita parigino in Boulevard Haussmann. Tra le aperture previste ce ne sono invece una quarantina in Russia.
Un marchio in cerca di identità
Al di là dei numeri, per la società di Ponzano è arrivato soprattutto il momento di trovare una nuova identità. «Benetton è un grande marchio italiano italiano che non ha mantenuto un modello di business di successo», spiega Stefania Saviolo, responsabile del Luxury Knowledge Center dell’Università Bocconi. «Resta un grande marchio del Made in Italy – continua – che, come altri marchi, ha fatto grande innovazione in passato. Una su tutte: il sistema del “tinto in capo”, che fu capace di dare colore a tutti in modo veloce. Dava agli italiani quello che volevano: gli stili erano basici, ma i colori cambiavano con grande velocità». Altri due punti di forza erano «l’innovazione della comunicazione», con le campagne memorabili di Oliviero Toscani, e il controllo della produzione.
«Ma – aggiunge la docente della Bocconi – i Benetton non avevano il controllo della distribuzione, perché per i negozi avevano contratti di franchising e licensing. Erano lontani, chi aveva un negozio era un imprenditore tout court e sul mercato faceva quello che voleva». Inoltre, «contemporaneamente la famiglia ha cominciato a occuparsi d’altro. Lasciare la macchina in mano ai manager non è una cattiva idea, ma bisogna avere una visione strategica. Anche perché nel frattempo sono entrati i concorrenti», con nomi quali Zara, H&M e, in Asia e America, Uniqlo.
Uno dei problemi della mancanza di strategia, secondo la docente, è che progressivamente i Benetton «non hanno fatto più solo maglieria e sono passati a un total look. Ma nel frattempo hanno perso identità: se ti estendi, non devi essere uguale agli altri e per di più organizzato peggio. Oggi dentro Zara sono organizzati meglio, hanno il controllo del retail e hanno 200 designer. Inoltre sono rimasti focalizzati sul loro business. Non mi risulta che Ortega, il patron di Inditex, abbia diversificato gli affari».
Una pubblicità di Benetton a La Havana, nel 1993 (ADALBERTO ROQUE/AFP/Getty Images)
Per Andrea Carrara, partner della società di consulenza Gea, specializzato nel settore abbigliamento, «Benetton deve riuscire a dare maggiore forza al suo marchio, raccontando una storia distintiva (brand image) che poggi sulle sue radici solide e creare una customer experience che trovi riscontro poi (brand reality) nei suoi negozi, prodotti e comunicazione. Operazione non facile, ma possibile per una grande azienda come Benetton, in cui però andranno fatte scelte di campo».
Per Carrara il modello del fast fashion è stato inventato da Benetton ed emulato, e poi migliorato, dai concorrenti, che hanno un contenuto moda più spinto e sono più rapidi. «Benetton è in ritardo – spiega il consulente – ma sono ottimista: altri grandi marchi che erano stati sepolti e diventati polverosi sono stati rimessi in pista, come K-Way, Moncler e Burberry. Benetton ha la awareness e ha tanti negozi in giro per il mondo. Può costruire una storia di successo. Cosa che non sarà facile, ma è possibile».
Giudizio rinviato
Secondo il consulente è necessario aspettare un anno per dare giudizi. «Il nuovo amministratore delegato è entrato in azienda sei mesi fa. Le collezioni si fanno con più di un anno di anticipo». Bisognerà però che sia una «iniezione di innovazione» e che la società si rilanci facendo leva sulla comunicazione. «H&M fa molta pubblicità, sulle riviste e sui cartelloni. Zara non ne fa, ma investe su location super. Benetton ha bisogno di avere le idee chiare e investire su uno dei due modelli, magari con un nuovo Toscani».
È poi necessario un chiarimento sui clienti a cui si parla. «Quando le aziende italiane dicono che bisogna concentrarsi sul cliente – dice Stefania Saviolo – io mi chiedo: quale cliente? A chi si vendono i cachemire colorati di Benetton, se il mercato si va polarizzando tra chi il cachemire non lo compra e chi lo compra di alta fascia?». Per la direttrice del Luxury Knowledge Center della Bocconi, «il mercato è cambiato: va bene tornare al dna originale, ma non si può tornare a una formula di 30 anni fa. I ventenni degli anni Ottanta ora hanno 50 anni e i ragazzi preferiscono altri marchi. Oggi vanno da Benetton consumatori di media età, che cercano value for money. Ripeto, prima del prodotto dovrebbero pensare a quale sia il cliente a cui si rivolgono». L’ultimo affondo riguarda le informazioni che arrivano dai punti vendita: «Benetton è un’azienda che non ha mai avuto molti negozi diretti. Se vendi fast fashion è un problema, perché non hai feedback sui clienti». Tutte questioni che vanno affrontate ora, mentre il riassetto è in atto.