Bruno Munari è stato uno dei più grandi designer italiani, una di quelle figure capaci di superare i confini delle discipline e diventare una specie di Leonardo moderno. Dalla grafica alla scultura, dal design all’educazione, non c’è campo che Munari non abbia toccato e trasformato.
Oggi, 24 ottobre, è l’anniversario della sua nascita e vogliamo ricordarlo con un viaggio attraverso alcuni dei suoi lavori più importanti e alcune delle parti più importanti del suo lavoro.
Le macchine inutili
(due Macchine inutili di Bruno Munari. Foto di emilime, pubblicata sotto licenza CC by-nc-sa su Flickr)
Uno dei modi in cui ricordiamo Bruno Munari è «quello delle macchine inutili». Le macchine inutili sono delle sculture con cui Munari si fece notare nella scena futurista milanese degli anni Trenta. Sono delle composizioni di oggetti leggerissimi (come bacchette di legno, fogli dipinti, pezzetti di vetro soffiato) appesi al soffitto con dei cavi trasparenti e lasciate libere di muoversi, seguendo i movimenti dell’aria causati dai passanti.
Nel suo libro Arte come mestiere, Munari spiega che le macchine inutili sono nate perché «piuttosto che disegnare triangoli e altre forme geometriche dentro a [un quadro, pensavo che] sarebbe stato più interessante liberare queste forme e appenderle in aria, attaccate le une alle altre, in modo da diventare vive quando ci avviciniamo, sensibili all’atmosfera in cui viviamo e all’aria che respiriamo».
Il design industriale
Munari è stato un designer moderno, sempre a cavallo tra la produzione artistica e quella industriale. Alternandosi tra sperimentazioni e oggetti di amplissima portata. Una delle sue citazioni più famose dice: «non ci deve essere un’arte staccata dalla vita: cose belle da guardare e cose brutte da usare». E, infatti, la sua produzione artistica e la sua produzione come designer di prodotto portano avanti la stessa ricerca estetica e la stessa poetica.
Uno dei suoi lavori più famosi come designer è Falkland, una lampada da soffitto nata nel 1964. È un tubo bianco di tessuto con sette anelli di metallo di diametri diversi. Munari ricorda che durante la progettazione andò «in una fabbrica di calze per vedere se mi potevano fare una lampada. Noi non facciamo lampade, mi risposero. E io: vedrete che le farete». Falkland fa parte della collezione permanente del MoMA ed è prodotta ancora oggi.
Il lavoro come designer di prodotto è, probabilmente, la parte più nota dell’opera di Munari. Tanto che…
I Compasso d’Oro
Bruno Munari vinse, nella sua vita, quattro Compasso d’Oro, uno dei più alti e importanti riconoscimenti mondiali per il design, assegnato dall’Associazione per il disegno industriale. Munari vinse il premio nella sua prima edizione, nel 1954, con la scimmietta giocattolo Zizi. La motivazione della giuria dice: «normalmente i giocattoli sono delle riduzioni “veristiche” o infantilizzate di mezzi meccanici, o imitazioni egualmente veristiche, o infantilisticamente ironizzate, di animali o di figure umane. Questo piccolo quadrumane di Munari […] rappresenta invece una interpretazione del carattere del “personaggio”, che ha raggiunta una essenzialità formale, nell’impiego tipico della materia, la gommapiuma articolata da una armatura di filo d’acciaio, che consente il divertimento di una infinità di atteggiamenti. Questo giocattolo appartiene ad una categoria elevata, che l’ha fatto oggetto di un interesse intellettuale». E poi, l’anno successivo, raddoppiò con un Compasso d’Oro per il Thermos portaghiaccio realizzato per Tre A. «Con l’attribuzione del premio […] la Giuria vuol segnalare l’intento di conferire una forma spoglia di compiacenze decorative ad un prodotto tra quelli che l’industria insiste nel considerare con pervicacia oggetti di fantasie gratuite ed incontrollate […].»
Munari vinse ancora nel 1979 per il suo Abitacolo, un letto multifunzionale in vendita ancora oggi. E, nel 1995, gli venne attribuito un Compasso d’Oro alla carriera.
Il lavoro coi bambini
«Non potendo cambiare gli adulti, ho scelto di lavorare sui bambini perché ne crescano di migliori». All’inizio degli anni Settanta, Munari inizia a sviluppare dei laboratori per bambini, chiamati “Giocare con l’Arte”, con lo scopo di «insegnare ai bambini come si guarda un’opera piuttosto che leggerne solo il contenuto o il messaggio». Da lì, nasce il Metodo Munari, uno strumento per l’insegnamento usato ancora oggi dall’Associazione Bruno Munari.
Munari ha anche scritto e illustrato una quantità incredibile di libri per bambini, reinventando storie tradizionali (come, ad esempio, Cappuccetto Verde, Cappuccetto Giallo e Cappuccetto Bianco) e creandone di completamente nuove.
Gli occhiali di cartone
Un esempio perfetto dell’inventiva di Munari e della sua semplicità. Nel 1954, Munari brevetta gli “Occhiali paraluce”, un paio di occhiali da sole realizzati con un singolo foglio di cartone piegato e tagliato. Disse di essersi ispirato al modo in cui le persone si proteggono gli occhi dal sole con le mani.
(gli “occhiali paraluce” di Munari in una foto di Edoardo Costa, pubblicata sotto licenza CC by-nd su Flickr)
Manifesto del macchinismo
Nel 1952, Munari scrive il Manifesto del macchinismo. È un documento che richiama i temi del futurismo, a cui Munari da ragazzo era stato molto vicino, ma con un punto di vista completamente nuovo. E anticipatore dei tempi.
«Il mondo, oggi, è delle macchine. Noi viviamo in mezzo alle macchine, esse ci aiutano a fare ogni cosa, a lavorare e a svagarsi. Ma cosa sappiamo noi dei loro umori, della loro natura, dei loro difetti animali, se non attraverso cognizioni tecniche, aride e pedanti? Le macchine si moltiplicano più rapidamente degli uomini, quasi come gli insetti più prolifici; già ci costringono ad occuparci di loro, a perdere molto tempo per le loro cure, ci hanno viziati, dobbiamo tenerle pulite, dar loro da mangiare e da riposare, visitarle continuamente, non far loro mai mancar nulla. Fra pochi anni saremo i loro piccoli schiavi. Gli artisti sono i soli che possono salvare l’umanità da questo pericolo. Gli artisti devono interessarsi delle macchine, abbandonare i romantici pennelli, la polverosa tavolozza, la tela e il telaio; devono cominciare a conoscere l’anatomia meccanica, il linguaggio meccanico, capire la natura delle macchine, distrarle facendole funzionare in modo irregolare, creare opere d’arte con le stesse macchine, con i loro stessi mezzi. Non più colori a olio ma fiamma ossidrica, reagenti chimici, cromature, ruggine, colorazioni anodiche, alterazioni termiche. Non più tela e telaio ma metalli, materie plastiche, gomme e resine sintetiche. Forme, colori, movimenti, rumori del mondo meccanico non più visti dal di fuori e rifatti a freddo, ma composti armonicamente. La macchina di oggi è un mostro! La macchina deve diventare un’opera d’arte! Noi scopriremo l’arte delle macchine!»
Dieci anni dopo, nel 1962, Munari organizzerà nel negozio di Milano di Olivetti una mostra, intitolata “Arte programmata”, dove esporrà dei lavori ispirati al manifesto delle macchine. Il nome della mostra, suggeriscono i critici, è già anticipatore di un movimento che negli anni Sessanta sta appena appena nascendo e che risuona profondamente con il manifesto delle macchine: la computer art.
I film
Munari, in tutta la sua carriera, non ha mai smesso di sperimentare e di cercare nuove soluzioni per portare a compimento quello che lui credeva essere il compito dell’artista: «comunicare agli altri uomini un messaggio poetico». Così, nel 1963, dopo aver lavorato con pittura, scultura e design, Munari ha iniziato — insieme a Marcello Piccardo e nell’ambito dello Studio di Cinema di ricerca di Monte Olimpino — a produrre anche video. Uno di questi, è completamente dedicato alla luce e realizzato muovendo dei vetri e puntando un fascio di luce direttamente nella macchina da presa.
Su YouTube sono disponibili tutti i filmati realizzati da Munari.
Una citazione
In un periodo in cui l’arte e il design hanno cambiato forma, diventando spesso difficili da comprendere e facili da criticare, Bruno Munari ci ha regalato una frase da ripetere come un mantra ogni volta che si entra in un museo di arte. «Quando qualcuno dice: questo lo so fare anch’io, vuol dire che lo sa rifare. Altrimenti lo avrebbe già fatto prima».