È di settembre la notizia che a breve, verso le metà del 2015, nelle farmacie europee potremmo trovare la prima insulina glargine biosimilare. Una sorta di “generico” (ma generico non è il termine più corretto) dell’insulina, oggi prodotta dalla Sanofi e venduta in farmacia con il nome di Lantus. Ci risiamo quindi, molti diabetici che fanno uso di questi farmaci potrebbero trovarsi davanti al dilemma di scegliere tra il “farmaco di marca”, il primo ad aver registrato il brevetto, e il farmaco generico, che una volta scaduto il brevetto viene prodotto sulla base della “ricetta” di produzione del primo farmaco registrato. O per meglio dire la scelta spetterà agli specialisti, in questo caso i diabetologi, che hanno il compito di stilare il piano terapeutico del paziente e prescrivere i farmaci più adeguati. Ma va da sé che medici di medicina generale e pazienti, dovrebbero perlomeno sapere di cosa si parla, per evitare il caos già creato con l’introduzione dei farmaci generici anni fa.
Ma andiamo per ordine. Un farmaco biosimilare non è altro che una nuova versione dei farmaci biologi (o biotech) già esistenti (per la maggior parte proteine), ovvero farmaci prodotti da organismi viventi, o da essi derivati, attraverso l’uso delle biotecnologie, e il cui brevetto è scaduto. Ne è un esempio proprio l’insulina, prodotta all’inizio a partire da bovini e suini, e oggi tramite la tecnologia del DNA ricombinante. Si tratta quindi di grandi molecole complesse prodotte da organismi viventi, che possono risentire delle variazioni apportate durante il processo di produzione. Per questo, a differenza del farmaco generico di sintesi chimica, prima di venire autorizzato all’immissione in commercio il farmaco biosimilare deve necessariamente essere sottoposto a dei test sugli esseri umani (studi clinici di fase III) che ne confermino efficacia e sicurezza, rispetto al prodotto di riferimento, ovvero il primo farmaco registrato (quello “di marca”). La somiglianza biologica, quindi, non viene stabilita soltanto in laboratorio, ma anche nell’ambito di studi clinici, che non erano invece necessari per i generici classici. «L’obiettivo è dimostrare che per il paziente essere trattato con un farmaco o un altro è assolutamente indifferente» spiega a Linkiesta Armando Genazzani, farmacologo dell’università del Piemonte Orientale e responsabile scientifico del congresso “Il decalogo dei biosimilari”, tenutosi a Roma lo scorso settembre. «Per i generici il percorso è diverso ma per motivi scientifici: un farmaco generico è di sintesi chimica (un processo in genere molto stabile) e di piccole dimensioni, sappiamo come sono fatte le molecole. È dato per scontato perciò che una molecola di una marca o di un’altra avrà lo stesso effetto. A volte bisogna solo dimostrare che arriva nell’organismo alla stessa concentrazione. In questo caso invece siccome i composti biotech sono molto più complessi, e non c’era la garanzia che un farmaco prodotto da una ditta con un determinato processo, fosse uguale a quello prodotto da un’altra ditta».
«In Italia si trovano già tre classi di principi attivi in commercio – continua Genazzani – le Epoetine (eritropoietine), usate in nefrologia per l’insufficienza renale e in oncologia per quanto riguarda l’anemia indotta dalle terapie oncologiche; il Filgrastim (fattori di crescita granulocitari), un fattore di crescita dei globuli bianchi, che serve anch’esso per le terapie oncologiche, e per la mobilizzazione dei globuli bianchi in caso di trapianto, per quanto riguarda l’ematologia; e infine, la Somatropina (ormone della crescita), utilizzato per i bambini che sono sotto statura per un deficit dell’ormone della crescita, una particolare condizione genetica di nanismo».
La loro diffusione nel nostro Paese, è però ancora scarsa, con una netta differenza a livello regionale. La penetrazione dei biosimilari in Italia raggiunge appena il 15% (confezioni di biosimilari rispetto il totale delle unità vendute), con punte del 40% in Trentino Toscana e Alto Adige, e meno del 5% in regioni come Lazio, Basilicata, Sardegna Calabria, Liguria e Puglia. Ben poco poi se confrontati con i numeri che arrivano dalla Germania, dove arrivano a coprire il 70% delle vendite. «Questi farmaci sono in commercio dal 2007 – commenta Genazzani – i primi 3-4 anni in cui non siamo stati in grado di sfruttarli, nessuno li voleva utilizzare, probabilmente perché si è fatta poca informazione a riguardo. Poi a un certo punto, visto le situazioni positive negli altri paesi, come la Germania, e i Paesi scandinavi, e visto che i medici erano un po’ restii a utilizzarli, le regioni hanno dovuto mettere in piedi delle normative che obbligassero i medici a utilizzare questi farmaci. Questo ha portato a nessun cambiamento dal punto di vista clinico, cioè i pazienti vengono trattati bene come prima però, ma a dei risparmi economici abbastanza sostanziali».
L’utilizzo dei biosimilari quindi non porterebbe nessun vantaggio (ma neanche nessun cambiamento) nella vita del paziente, ma consentirebbe al nostro Servizio sanitario nazionale, già pressato da tagli, età media della popolazione in aumento e prezzi esorbitanti dei farmaci, un netto risparmio. Soldi che non resterebbero nelle casse dello Stato ma che, per esempio, potrebbero allargare l’accesso a farmaci nuovi e innovativi o un maggior numero di persone, ora escluse. «Nel caso del diabete per esempio – conclude Genazzani – noi abbiamo un’altra classe di farmaci moto importante, le DPP-4, che cambia radicalmente la gestione del paziente diabetico di tipo 2. Eppure in Italia non abbiamo abbastanza soldi per fornirlo a tutti quelli che forse ne potrebbero beneficiare. Sfruttando i soldi liberati dal pagare insuline ormai vecchie, e creando un po’ di concorrenza con i biosimilari, noi potremmo dare agli stessi pazienti l’accesso a un farmaco che in questo momento anche per motivi economici non c’è. Ora per la prescrizione del DPP-4 (farmaco coperto da brevetto), abbiamo un tetto massimo di spesa, che in questo caso è di 70 milioni di euro. Ma tutti i diabetologi sono concordi nell’affermare che questi soldi non bastano per coprire tutti i pazienti che necessitano di questo farmaco. Se noi liberiamo dei soldi dall’insulina e li usiamo per questi farmaci, chi ne beneficia non è tanto il Ssn, quanto i pazienti diabetici».
A sottolineare il peso economico dei farmaci biosimilari, va ricordato che i farmaci biologici (come quelli oncologici per esempio) sono prodotti molto costosi, attualmente quelli che pesano di più sulla spesa sanitaria. Da qui al 2018 ben 11 terapie perderanno il brevetto, andando ad aggiungersi ai farmaci biologici che hanno già un corrispondente biosimilare, e aprendo le parte a un mercato potenziale di 1,6 miliardi di euro.
«I biosimilari permetterebbero risparmi importanti – ha spiegato Luca Pani, Direttore generale dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) durante il congresso “Il decalogo dei biosimilari”, come riporta una nota dell’Ansa – che però ancora non vediamo. Un uso maggiore servirebbe anche per spingere chi produce i farmaci originatori ad abbassare il prezzo, ma finché ai biosimilari resta solo una piccola fetta del mercato questo meccanismo non avviene. Noi siamo preoccupati, anche quest’anno la spesa ospedaliera si avvia a superare il tetto di 1,2-1,3 miliardi. A frenare l’adozione dei biosimilari c’è una certa diffidenza sulla loro sicurezza, ma in teoria un biosimilare potrebbe essere più sicuro dell’originator. Inoltre anche se l’indicazione è che una volta trovato un prodotto adeguato per la terapia del paziente sarebbe meglio non cambiarlo, quando si inizia una nuova terapia il biosimilare va benissimo. C’è sempre il diritto del medico di scegliere la terapia, che è sacrosanto, ma la scelta deve essere fatta “in scienza e coscienza”. Non è possibile per esempio che, come succede, si moltiplichino all’improvviso le segnalazioni di eventi avversi perché questo è l’unico modo di poter prescrivere il farmaco originale».