Testo aggiornato il 3 ottobre, ore 9:00
Il Parlamento turco dà il via libera a operazioni militari contro lo Stato islamico (Isis) nella stessa Siria e in Iraq, oltre che all’uso del territorio turco per le forze degli altri Paesi che fanno parte della Coalizione internazionale guidata dagli Usa. Il Parlamento si è espresso a favore delle mozioni presentate dal premier Ahmet Davutoğlu con una schiacciante maggioranza di 298 voti favorevoli e 98 contrari (aggiornamento del 3 ottobre).
Mercoledì 1 ottobre, alla vigilia del dibattito parlamentare a porte chiuse sulla questione, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha dichiarato che Ankara è pronta a «qualsiasi tipo di cooperazione per combattere il terrorismo». Ma, ha aggiunto, la destituzione del governo siriano di Bashar al Assad resta anch’essa una «priorità della politica turca nella regione». Tradotto. Erdogan non entra in guerra se la guerra non serve anche a indebolire Assad.
L’ingresso della Turchia nella coalizione anti-Is è la novità più grossa dal momento dell’inizio dei raid aerei sull’Iraq. Ed è una mossa destinata a cambiare lo scenario.
La mozione presentata al Parlamento dal primo ministro Ahmet Davutoğlu (leader dell’Akp, il partito di Erdogan) permette alle forze militari straniere il transito attraverso il territorio turco e la creazione di una zona cuscinetto che si estende per 32 km circa in territorio siriano. Ankara metterà quindi a disposizione le basi militari del Sud-Est del Paese, al confine con Siria e Iraq, restituendo alla coalizione a guida Usa un indubbio vantaggio militare. Ma i 40 Paesi occidentali e arabi finora raccolti – molti i riluttanti e pochi i convinti – ne trarranno anche un rafforzamento politico, diventando finalmente credibile la loro intenzione di contrastare lo Stato islamico.
Tutto questo, però, costringerà Erdogan a un incredibile gioco di equilibrismi.
Il Presidente è pieno di timori e la puntualizzazione fatta sulla necessità di indebolire Assad la dice lunga.
Tre uomini turchi osservano da Sanliurfa, Turchia, la cittadina di Kobane, Siria, sotto attacco degli jihadisti dello Stato Islamico. La foto mostra l’incredibile prossimità tra le milizie Isis e la Turchia (Stringer / Getty Images)
Prima di tutto, Erdogan teme appunto che combattere i miliziani dell’Isis, uno degli infiniti gruppi che compone l’opposizione siriana, significhi avvantaggiare il Presidente siriano Bashar al Assad, nemico contro cui la Turchia – erettasi a paladina delle Primavere Arabe – si è molto spesa in passato, supportando i gruppi ribelli locali.
In secondo luogo, Ankara deve fare i conti con la minoranza curda. Schierarsi al fianco di chi combatte contro lo Stato Islamico, significa allearsi anche con le truppe Peshmerga del Kurdistan iracheno, che «al momento – forti dell’ampia autonomia di cui godono – costituiscono una realtà politica estremamente importante in Iraq», spiega il professor Gianluca Pastori dell’Università Cattolica di Milano. «Rafforzare i curdi iracheni significa rafforzare indirettamente anche quelli turchi», continua. E le loro richieste di maggiore autonomia da Ankara.
Ma se finora Erdogan ha frenato su un intervento militare contro Isis è anche perché fino a pochi giorni fa 46 diplomatici turchi erano ancora nelle mani dei miliziani dell’Isis a Mosul, dopo essere stati presi in ostaggio lo scorso giugno. La loro liberazione è avvenuta solo nella mattina di domenica 20 settembre.
Eppure colpire gli jihadisti è per la Turchia questione vitale. Lo Stato Islamico costituisce una vera minaccia. Le milizie jihadiste stanno per conquistare il cuore di Kobane, la cittadina a maggioranza curda (in arabo Ain al-Arab) al confine tra Siria e Turchia che ha messo Ankara in «stato di massima allerta».
(Riferiscono le agenzie del 3 ottobre che alcune centinaia di membri delle milizie di autodifesa curde (Ypg) stanno opponendo a Kobane un’accanita resistenza rimanendo asserragliati nella città, da cui nei giorni scorsi 160.000 civili sono fuggiti cercando scampo in territorio turco. Sedici combattenti dell’Isis e 7 combattenti curdi sono rimasti uccisi negli scontri delle ultime ore, secondo l’ong Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria)
Secondo il quotidiano turco Zaman «sono 10.000 i soldati turchi schierati al confine con la Siria dopo i colpi di artiglieria di domenica». E sono almeno 34 i mezzi corazzati dislocati lungo il confine.
«Il governo turco ha deciso in questo momento che il rischio di rafforzare la minoranza curda (che abita le regioni orientali del Paese, ndr) è meno pericoloso della presenza di Is in Siria e Iraq», spiega Pastori, che vede Erdogan impegnato a «tenere sulla propria testa in equilibrio tre grossi piatti: la minaccia Is, la questione curda, il timore di rafforzare Assad».
Per questo, è convinto il professore, «la Turchia entrerà in guerra ma manterrà un ruolo defilato e marginale», comunque prezioso per gli alleati.
Due uomini di etnia curda scappano dai gas lacrimogeni sparati dalla polizia turca che ha tentato di sedare le proteste a sostegno della cittadina siriana a maggioranza curda di Kobane, sotto attacco dei miliziani dell’Isis. Decine di migliaia di curdi siriani hanno attraversato nei giorni scorsi il confine turco in cerca di rifugio. Alcuni di loro hanno dato vita a manifestazioni di protesta per chiedere l’intervento della comunità internazionale. Molti vorrebbero tornare in Siria per difendere i loro villaggi e le loro case dall’avanzata dei miliziani dello Stato Islamico (BULENT KILIC / Getty Images)
Anzi. Ankara potrebbe sfruttare la minaccia dello Stato islamico per ricorrere a un vecchio giochetto. Quello di creare buffer zone, zone cuscinetto a pesante militarizzazione, volute ufficialmente per evitare sconfinamenti militari e in realtà usate per controllare la popolazione curda. «È successo nel 2003 durante la guerra a Saddam Hussein, e accadrà anche ora».
Tanto che sono in molti a credere che il partito filo-curdo turco (Partito della pace e democrazia) voterà contro la mozione del Governo per l’entrata in guerra contro Is. Si teme infatti che la zona cuscinetto voluta dal governo sia uno strumento per occupare i villaggi curdi tra Siria e Turchia e controllarli in un momento di caos mediorientale.
(La zona di sicurezza, tuttavia, servirebbe ad Ankara anche per gestire il problema dei profughi fuggiti dalla guerra siriana ed entrati in territorio turco. Sono oggi circa 1 milione secondo l’Unhcr)