Campanello d’allarme per il lusso italiano, crescita dell’Asia, rallentamento dei negozi e boom sull’online. Sono alcuni dei fatti che emergono dallo studio Fashion & Luxury Insight, la ricerca annuale sul settore dell’alta gamma realizzata dalla Sda Bocconi. Che i consumi si siano polarizzati tra low cost e lusso è noto da anni, ma sarebbe un errore considerare i prodotti per benestanti come una realtà monolitica. A ignorare i trend mondiali si rischia di farsi male. In breve, ecco le dieci cose da sapere sulle tendenze dell’alto di gamma.
Il lusso va bene, ma andava meglio
Ci si può accontentare, visti i numeri di quello che c’è attorno (o sotto), di una crescita media delle vendite (nel campione di 79 società internazionali identificate) del 7,9 per cento. Ma l’incremento percentuale è il più basso degli ultimi otto anni, se si esclude il 2009, anno in cui la crisi colpì duro anche gli Usa. Anche il Roi (return on investment), Roe (Return on equity) e i margini di Ebitda ed Ebit continuano a scendere dal 2010, ma sono ancora di tutto rispetto, tutti abbondantemente sopra il 10 per cento (nella tabella il dettaglio).
Fonte: Fashion & Luxury Insight, Sda Bocconi. Per ingrandire la tabella cliccare qui
Il capitale operativo, o working capital, cioè la differenza tra attività correnti e passività correnti, si è invece mantenuto stabile negli anni, segno, secondo la ricerca, che le imprese hanno imparato a essere “resilienti” nel gestire le giacenze di magazzino e nell’adattarsi alle variazioni delle condizioni commerciali.
Grandi imprese, grandi ritorni
Almeno un miliardo di fatturato, per stare nel club dei ritorni stellari. Se si guardano tutti i principali margini, le aziende con ricavi superiori a un miliardi di euro hanno performance nettamente superiori rispetto a quelle al di sotto di questa soglia. Roi e margine Ebit sul fatturato sono quasi il doppio nelle imprese maggiori, e una netta differenza si vede anche negli investimenti, cosa che potrebbe aumentare il divario nei prossimi anni.
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È l’ora dell’Asia, Italia in affanno
Nel mondo del lusso non sono ancora emersi, a livello internazionale, i marchi locali cinesi. Ma tra le aziende analizzate dalla ricerca quelle asiatiche, e in particolari giapponesi, hanno i tassi di crescita maggiori. Si parla di Fast Retailing (società a cui fa capo la catena di fast fashion Uniqlo), di Asics, di Esprit e di Shiseido (prodotti di bellezza). I loro fatturati sono saliti in media, nel 2013, del 10%, ben oltre la media, recuperando le performance deludenti dell’anno prima.
Finita la sbornia, invece, per i marchi italiani. «L’Italia – si legge nella ricerca – occupa l’ultima posizione (tra i cluster considerati, ndr), con una crescita del fatturato 6,4%, in ribasso rispetto alla prima posizione occupata nel 2012 (+14,6%), nonostante il fatto che le società italiane da poco quotate (Yoox and Moncler) abbiano avuto un’alta crescita di vendite». Detto questo, fanno notare gli autori, le differenze tra aziende all’interno dei vari raggruppamenti rimangono notevoli.
Fonte: Fashion & Luxury Insight, Sda Bocconi. Per guardare la tabella ingrandita cliccare qui
Yoox e Asos, i due operatori considerati nello studio, hanno avuto una crescita in media del 27 per cento del fatturato, la più alta tra tutti i gruppi di imprese analizzati. Questo balzo, nota lo studio, indica che c’è ancora spazio di crescita, nell’e-commerce, sia per i player puri sia per le società tradizionali. «Online si compra moltissimo anche nel lusso, anche se si è sempre detto che nel settore fossero fondamentali l’esperienza in negozio e il livello di servizio – sottolinea Paola Varacca Capello, responsabile della ricerca e docente di Management of fashion companies all’Università Bocconi -. Spesso i clienti guardano i prodotti nei negozi e poi li acquistano online, cercando prezzi inferiori».
Forse in passato si è esagerato, di certo la crescita dell’e-commerce induce alla prudenza. Fatto sta che la crescita dei negozi da parte dei big del lusso si è decisamente fermata. Nel 2013 le reti di negozi, sia di proprietà sia in franchising, sono state ampliate del 3%, il tasso più basso dal 2007. Questo approccio cauto, segnala lo studio, «è spiegato probabilmente dalle persistenti difficoltà economiche nell’Europa occidentale e dal rallentamento della domanda di beni di lusso in Cina (anche per le severe norme anti-corruzione varate dal governo di Pechino, ndr). Gli altri Paesi emergenti sono ancora troppo piccole (come mercati, ndr) per giustificare grandi investimenti in reti di negozi». Le griffe hanno, piuttosto, preferito rimettere a posto i negozi esistenti. «Il fatto che cresca l’online provocherà riduzioni del numero di negozi anche in futuro – spiega Nicola Misani, membro del team di ricerca e ricercatore presso il Dipartimento di management e tecnologia dell’Università Bocconi -. In parte la selezione è già in corso: si va verso un’ottimizzazione della resa dei negozi e verso lo spostamento di quelli con le performance non soddisfacenti».
Wholesale contro retail: ovvero, distribuzione presso negozi di altri contro vendita presso negozi di proprietà. Non c’è dubbio su quale sia la formula vincente: la seconda. Le aziende retail-oriented sono premiate da tutti gli indicatori reddituali, confermando una tendenza in corso da tempo.
Fonte: Fashion & Luxury Insight, Sda Bocconi. Per guardare la tabella ingrandita cliccare qui
Quello che invece è cambiato negli scorsi anni è lo stato di salute del franchising (che nello studio viene fatto rientrare nel wholesale). Fino a qualche anno fa è stata la leva principale dello sviluppo delle reti. Tuttavia, nota Misani, «da 3-4 anni c’è la tendenza, da parte delle aziende, a gestire maggiormente i negozi in proprio».
La congiuntura premia i ricchi, ma soprattutto i super-ricchi. La conseguenza, per il settore, è che nel lusso i risultati più brillanti si hanno nella fascia superiore, o high end. Questo vale nella moda, dove le società di fascia alta hanno avuto un Roi medio del 20,8%, contro una media del cluster del 15,3%, come nella pelletteria (Roi al 22,2%). Le aziende nelle categorie medium e mass market sono cresciute, inevitabilmente, al di sotto della media, segno, spiega la ricerca, che «la grande qualità dei prodotti e l’innovazione sono ancora fattori chiave per il successo». Fanno eccezioni, in questa tendenza, società del lusso accessibile come Micheal Kors, che appare nelle prime posizioni di tutti gli indici reddituali. «È una società giovane, che ha avuto una crescita straordinaria e imprevista – nota Misani -. È riuscita nell’impresa di far apprezzare un marchio di moda statunitense in Europa, mentre è più facile che avvenga il contrario. È un marchio che è riuscito a occupare bene una fascia di lusso accessibile, che è un peccato lasciare agli americani, perché in quella fascia potrebbe fare molto di più un marchio italiano come Tod’s».
Il fashion retail è arrivato al picco?
I risultati assoluti sono ancora formidabili, ma la tendenza per i fashion retailer (incluse le grandi catene di fast fashion) è di un rallentamento. «Nel 2013 – si legge nello studio – la crescita delle vendite è scesa drasticamente al 3,5% (nel 2012 era stata dell’8,7%), ma il capitale operativo è stabile. Il deterioramento della performance (pure ancora eccellente in termini assoluti) suggerisce che il fenomeno del fashion retail potrebbe aver raggiunto il suo picco. L’aumentata concorrenza e la saturazione della domanda potrebbero mettere pressione sui margini e ridurre la crescita e la profittabilità, almeno per gli operatori più deboli».
I department store sono vivi e vegeti
In Italia non se la passano troppo bene, tanto che la Rinascente è finita qualche anno fa in mani coreane. Ma i department store, nel resto del mondo, sono ancora in salute e fanno segnare una crescita dei ricavi nel 2013 in linea con gli altri comparti. Vale per l’Asia (Cina e Corea del Sud su tutti) ma anche per gli Stati Uniti. «Abbiamo incluso nella ricerca insegne quasi solo statunitensi, come Saks e Nordstrom – spiega Misani -. Questi negozi hanno tutti effettuato negli scorsi anni ristrutturazioni dei negozi e tagli dei punti vendita meno efficienti. Oggi godono dei benefici di tali interventi e possono affidarsi a una clientela che è tipicamente molto affezionata. Questi punti vendita sono anche dei veicoli per i marchi di lusso, come, per citare un italiano, Brunello Cucinelli».
Gioielli e pelli, fine del digiuno
In un contesto di crescita ancora abbondante a stonare è la frenata del comparto degli occhiali (-0,7% le vendite), per l’andamento poco brillante di Luxottica (al centro in questi giorni di una tempesta in Borsa per il secondo cambio di ad in un mese dopo l’uscita di Andrea Guerra) e di Safilo. Vanno molto bene, invece, il settore della pelletteria e dei gioielli. Per borse e affini c‘è poco da stupirsi: il settore va bene da anni, anche per i buoni risultati delle aziende italiane. «Negli ultimi anni ci siamo rafforzati – commenta Misani -. I marchi hanno fatto investimenti sulle concerie italiane, si sono concentrate sul recupero dell’artigianalità, sull’efficienza dei processi e dal punto di vista ambientale. Spesso hanno comprato aziende minori, consapevoli dell’importanza della qualità del prodotto». Per i gioielli e gli orologi, invece, i dati positivi tornano dopo anni di difficoltà. Merito del minor prezzo di oro e argento nell’ultimo anno, cosa che ha liberato risorse per lo sviluppo, e di consumi in crescita nei Paesi asiatici. Per gli orologi di lusso i primi acquirenti al mondo sono i cinesi. Finché comprano loro (leggi sulla corruzione permettendo) i produttori possono stare tranquilli.