Il “nuovo” Dylan Dog: intervista a Roberto Recchioni

Il “nuovo” Dylan Dog: intervista a Roberto Recchioni

Un istante atemporale

Venerdì scorso, al Blue Note di Milano, Bonelli Editore non ha semplicemente organizzato una presentazione, ha pensato, organizzato e messo in scena un rito, un passaggio di consegne che segna la storia del fumetto italiano. Contemporaneamente sul palco si sono trovati Tiziano Sclavi — classe ’53, creatore di Dylan Dog nonché uno dei più grandi maestri della sceneggiatura in Italia — e Roberto Recchioni — classe ’74 , uno dei più interessanti sceneggiatori degli ultimi anni, creatore di serie come John Doe e Orfani (insieme a Emiliano Mammucari).

In un istante quasi atemporale, oscillante su un crinale tra il passato e il futuro, Sclavi ha appoggiato una mano sulla spalla di Recchioni e ha di fatto ufficializzato un passaggio di consegne storico per Bonelli, nonché l’inizio di un nuovo ciclo per uno dei suoi più grandi personaggi: Dylan Dog.

«La sfida sarà quella di tradire il personaggio rimandogli fedeli», ha detto a un certo punto Recchioni, visibilmente emozionato. E la sfida non poteva essere più delicata. Dylan Dog, infatti, il cui primo numero uscì 28 anni fa, poggia la sua fortuna – come tutti i grandi classici – sull’affetto di un fandom, una comunità di affezionati lettori dai palati esigenti, che all’annuncio delle novità in arrivo probabilmente storceranno il naso.

Ma che Dylan Dog fosse in crisi esistenziale, o quanto meno a corto di fiato, non è un segreto per nessuno. Negli ultimi anni le vendite si erano abbassate, inquietando i vertici della Bonelli (Dylan Dog è il secondo fumetto più venduto della casa editrice milanese, dopo Tex) e facendo maturare la decisione di iniettare nuova linfa nella serie, nuove idee, nuovi stimoli e nuovi modi di raccontare.

Questo è il compito affidato a Roberto Recchioni, che è ormai al lavoro da un anno abbondante, e che firma la prima storia ufficiale del “nuovo ciclo”. Spazio profondo, che altri chiamano 337, è in qualche modo il corrispondente di carta di quello strano istante atemporale in bilico tra passato e futuro a cui abbiamo assistito sul palco: è tutto a colori, è scritto da Roberto Recchioni e disegnato da Nicola Mari e, in continuità con la grande storia di Dylan, esce in edicola con una copertina realizzata da Angelo Stano, niente meno che il disegnatore de L’alba dei morti viventi, il primo numero di Dylan Dog, nell’ottobre 1986.

Chiariamo subito: Spazio profondo è una storia a sé stante, con un valore più programmatico di questa nuova stagione di Dylan Dog che altro. Personalmente l’ho trovata potentissima, anche se non mi piace il Dylan tutto a colori. È una storia veramente straniante e con una dimensione allegorica che giustifica l’utilizzo di un’espressione inesistente e cacofonica di cui chiedo subito perdono: ovvero meta-dylandogghiana.

Sarò onesto, non ci sono arrivato da solo a questa interpretazione. Anzi, direi che non è proprio farina del mio sacco. Il merito è di un lettore che ha pubblicato un commento su un forum, commento che Roberto Recchioni ha poi riportato sulla sua bacheca di Facebook. Lo riporto così com’è qua sotto:

Due chiacchiere con Roberto Recchioni

Quando è uscito il primo numero di Dylan Dog avevi circa dodici anni, e ne sei subito diventato fan, come ti senti ora che Tiziano Sclavi ti ha ufficialmente nominato suo “erede”?
Certo, all’inizio, come molti ragazzini nella seconda metà degli anni Ottanta, ero semplicemente un grande fan, poi circa vent’anni dopo ho iniziato a sceneggiare delle storie e la cosa già mi sembrava incredibile. Quando poi mi sono trovato nella situazione di doverne diventare addirittura il curatore, beh, il sogno è diventato realtà. Oggi sul palco ero emozionatissimo, una cosa da non credere. È la realizzazione di un sogno, ma è anche l’accettazione di una gigantesca responsabilità.

Come è successo?
Chiaramente non è stata una decisione improvvisa, anche perché operazioni del genere necessitano mesi di preparazione (abbiamo già il primo anno di storie pronte) ma è maturata dopo lunghissime chiacchierate tra me e Tiziano Sclavi dopo l’uscita della mia storia sul personaggio e sul mondo di Dylan Dog. Nel parlare di Dylan ci siamo ritrovati ad avere molte idee in comune, ma soprattutto condividevamo molte idee su quel che credevamo giusto per la sua evoluzione. Io in realtà credevo che la cosa fosse finita lì, che fossero soltanto delle chiacchiere, sebbene molto suggestive. Ma mi sbagliavo: da lì in poi gli eventi sono, se possiamo dire così, “precipitati” e a un certo punto Tiziano — supportato anche da Cristina, sua moglie — mi ha chiesto se volevo diventare il curatore di Dylan Dog. Non sapevo bene cosa dire, ma quando di quella magnifica suggestione si è convinto anche Mauro Marcheselli, il direttore editoriale della Sergio Bonelli, non potevo proprio dire di no. Sì, perché al di là del fatto di essere sempre stato un fan, e che quindi per me quello era molto più di un sogno che si realizzava, ero fermamente convinto — come lo sono tuttora — che servisse qualcosa per ridare a Dylan lo smalto degli albori. Non potevo rifiutare di prendermi le mie responsabilità e provare a mettere in atto quel che credevo fosse giusto e ora, beh, eccoci qui…

Come si lavora con un maestro come Sclavi al rinnovamento del suo più grande personaggio?
Abbiamo lavorato all’inizio su un documento iniziale per capire cosa andasse rivisto e cambiato del personaggio. Poi ci siamo confrontati a lungo su quelle che erano le sue e le mie idee, fino al momento in cui ho redatto un documento riassuntivo con un corpus di idee. Partivano dal riportare Dylan a una condizione di maggiore minaccia, di maggiore instabilità, ovvero eliminare tutti quegli elementi che gli rendevano la vita troppo semplice e tranquilla: da qui la decisione di mandare in pensione Bloch, che, chiariamo ancora una volta, non smette di essere un personaggio della serie, anzi, acquista un ruolo ancora più importante. L’idea era anche quella di riportare Dylan ad essere un personaggio complesso, percepito un po’ come eroe e un po’ come minaccia. Un personaggio che deve combattere ogni giorno per vivere e per essere rispettato, non un eroe amato tout court dall’opinione pubblica.

Cosa c’è da innovare in Dylan?
Io sono convinto che Dylan sia un personaggio che deve farsi le domande, non deve dare le risposte. E nel farsi le domande Dylan racconta il mondo. Non deve spiegare cosa è giusto e cosa è sbagliato, lui al massimo deve porre la questione centrale, ovvero: «C’è qualcosa di strano? Nel nostro mondo è sensato che funzioni così o c’è un’alternativa?» Soprattutto in questo periodo il ruolo di un personaggio come Dylan deve essere questo.

Tiziano ha raccontato perfettamente gli anni Ottanta, li ha stigmatizzati, e ha anticipato gli anni Novanta, quella generazione X raccontata poi da Douglas Coupland. Oggi secondo me manca un personaggio in grado di raccontare quel che sta accadendo, e Dylan rimane il miglior cantore possibile del presente. Questo è lo scopo dell’operazione di rinnovamento: riportarlo a raccontare lo spirito del tempo, del nostro tempo, riportare il mondo dentro Dylan Dog.

Una delle cose di cui si è parlato molto dell’operazione di rinnovamento è l’inserimento della tecnologia, cosa mi dici a proposito?
In realtà questa è una cosa che va spiegata: non vogliamo mettere semplicemente uno smartphone in mano a Dylan solo perché tutti ce l’hanno. Dal mio punto di vista uno smartphone è il corrispettivo di un blood diamond:noi compriamo un oggetto a un prezzo che ci sembra altissimo — ma che in realtà, per la tecnologia che contiene, è abbastanza basso — ma dobbiamo sempre aver presente che se può avere quel prezzo e se può arrivare sul mercato in quelle quantità, il prezzo è la sofferenza di una parte di mondo. Pensa alle fabbriche di Shenzhen — una fabbrica di suicidi ambulante — o a un tipo di minerale ultratossico che c’è all’interno degli smartphone, e chi lo estrae in miniera ci muore. Ora noi viviamo in un universo talmente lontano da quello, che quasi tutti noi non ci poniamo nemmeno più la domanda. Tornando a Dylan: diciamo che può avere uno smartphone, ma per averlo deve prendersi il carico della responsabilità etica e morale di averlo, deve vedere anche quell’aspetto del mondo.

Come farete?
Abbiamo costruito un nuovo antagonista che si chiama John Ghost che è esattamente questo: è il mondo. Non è il male, come hanno scritto alcuni, ma è semplicemente la rappresentazione attuale del mondo e delle sue forze. È un personaggio che serve il caos e, nel servire il caos, mette tutto a posto e niente in ordine. È un personaggio che amo molto, anche perché è molto nelle mie corde, somiglia ai miei tipici personaggi e ha una funzione decisiva: serve per veicolare il lato cattivo. Quindi, nella contrapposizione tra Dylan e John Ghost, nasce uno dei nuovi baricentri del mondo di Dylan. E questo è solo uno dei nuovi piani narrativi orizzontali che saranno presenti nella nuova serie, anche perché ogni autore coinvolto è chiamato a raccontare il mondo attraverso la propria sensibilità.

Da quanto ho capito cercherete di innestare dei piani narrativi orizzontali pur mantenendo la verticalità dei singoli episodi, un procedimento che deriva dalle serie tv e che hai già usato in altre serie. Come ci sei arrivato?
Ho iniziato a fare questi ragionamenti sulla scrittura ai tempi di John Doe, una serie di 100 albi, divisa in stagioni da 24 albi ciascuna, che è stata la prima serie fumettistica italiana per la quale si è iniziato a parlare di stagioni. Poi l’hanno fatto anche altri, però è un primato che mi piace rivendicare, anche perché per una volta c’ero arrivato veramente per primo. La scrittura americana e inglese delle serie è oggi la frontiera della scrittura, si sperimenta più su un programma HBO che in tutta Hollywood, dietro lavori come Mad Men o Sopranos c’è veramente tutta la grande tradizione drammaturgica americana. Gli strumenti che usano loro per me sono importantissimi, ma è chiaro che non possiamo mettere in un prodotto che vive soprattutto in edicola — e che quindi vive anche di lettori casuali — una struttura narrativa troppo orizzontale. Diventerebbero non fruibili, e non è nella tradizione Bonelli, né nel nostro interesse. Io penso all’orizzontalità che sta dietro a opere come il Doctor House, che è perfettamente funzionale al tipo di fruizione di Dylan: lo spettatore “casuale” può fruire ogni singolo episodio e lo capisce perfettamente, mentre lo spettatore fidelizzato, quello che vede tutti gli episodi in ordine, apprezza il progresso del personaggio, il cambio emotivo, i collegamenti, le sottotrame. Secondo me questo è il modo per rendere Dylan un personaggio fedele a sé stesso, ma anche al passo — narrativamente parlando — con il presente.

Allargherai la squadra di sceneggiatori a esordienti?
Quando ho detto che non prenderemo nuovi autori su Dylan, qualche tempo fa, ero stato un po’ frainteso. Nel senso: io non credo che se giochi a Fifa poi puoi andare ad allenare al Juve. E Dylan Dog è la seconda testata più venduta d’Italia, io voglio che gli autori che scrivono le sue storie siano autori di esperienza. Però attenzione, non significa che quella esperienza sia stata per forza maturata all’interno di Bonelli Editore. Io sto prendendo autori nuovi, anche molto più giovani dello standard, però li prendo non sulla base della loro volontà di “fare fumetti”. No, li prendo dopo aver letto un libro loro e averlo trovato spettacolare.

Mi fai un esempio?
Trama, di Ratigher. Ratigher è un autore giovane, che non ha ancora pubblicato tanto, ma ha pubblicato Trama, che per me è un capolavoro e non ci ho pensato un attimo a coinvolgerlo, anche se Trama è un fumetto che chiaramente Bonelli non avrebbe mai pubblicato perché ha tutto un altro tipo di linguaggio, Lo stesso vale per Niccolò Pellizzon, autore giovanissimo, a cui ho chiesto di realizzare una storia breve di Dylan perché ha un talento fantastico e una voce molto interessante. Quello è il mio interesse, non l’esordiente assoluto che arriva su Dylan. Anche perché questo è un momento in cui siamo veramente sommersi di lavoro, sarebbe una scelta sbagliata. Un esordiente ha bisogno di essere seguito costantemente per crescere e strutturarsi, e ora non ci sono le condizioni, sarebbe inutile per lui, oltre che per Dylan. Quindi sì ai nuovi autori, ma per il momento no agli esordienti assoluti. Certo, il caso Paola Barbato, che ha esordito su Dylan Dog ed è stata un’esordiente assoluta sarebbe la dimostrazione pratica che ho torto o che mento, però è entrata nei ranghi in un momento in cui Mauro Marcheselli l’ha potuta seguire e l’ha fatta crescere molto. Quindi il suo è un caso particolare, in quel momento c’erano le condizioni.

Come farete a conquistare nuovi lettori e, nello stesso tempo, a non deludere i fan di sempre?
Ora ti risponderò dicendoti una cosa che sembra molto retorica, ma non lo è: noi cerchiamo di fare delle buone storie. Non è retorica perché le buone storie portano il pubblico ad allargarsi, al di là della comunicazione — importantissima — al di là dell’effettistica, degli annunci e di tutto il resto, se poi alla base non ci sono buone storie, ben scritte e ben disegnate, non riuscirai mai a invertire la tendenza. Lo scopo unico e principale di Bonelli è fare buone storie. Se saremo in grado il resto verrà di conseguenza. Anche per i puristi è la stessa cosa: all’inizio magari si lamenteranno dello scarto dalla tradizione, ma se le storie sono buone sono certo che smetteranno, perché quel che criticano non sarà un nuovo Dylan Dog, sarà semplicemente Dylan Dog.