Incentivare le assunzioni è giusto, ma non è gratis

Incentivare le assunzioni è giusto, ma non è gratis

In suo articolo pubblicato su La Stampa, il professor Luca Ricolfi ha lanciato una proposta, elaborata assieme alla Fondazione Hume, abbastanza radicale su come curare l’emergenza occupazionale italiana. L’analisi di Ricolfi è centrata sulla constatazione che, in un periodo di risorse pubbliche scarse, continuare a lamentarsi degli inesistenti margini di manovra di politica fiscale rischia di far dimenticare che una politica di forte riduzione del cuneo fiscale potrebbe aiutare sia a rilanciare l’occupazione e il prodotto che il gettito per lo Stato.

Vediamo brevemente in cosa consiste la proposta. Ricolfi propone un abbattimento radicale dei contributi previdenziali e sociali o del carico fiscale, limitatamente ai posti di lavoro addizionali nelle imprese esistenti o per le quelle di nuova creazione, per un massimo di quattro anni, secondo uno schema per cui il lavoratore riceve in busta paga l’80% del costo aziendale (anziché il 50% come oggi), mentre il restante 20% affluisce allo Stato, sotto forma di Irpef e di contributi sociali. L’idea sarebbe perciò quella di sussidiare, da una parte, la creazione di occupazione netta e, dall’altra, di aumentare il potere di acquisto dei salari. Secondo Ricolfi questo genererebbe, se ben congeniato, gettito fiscale aggiuntivo con cui fiscalizzare gli oneri sociali così abbattuti.

Tecnicamente, la proposta si può inquadrare come un “marginal stock subsidy”, ovvero un sussidio all’espansione, al margine, dell’occupazione delle imprese. Questi sussidi non sono nuovi, esiste un’ampia casistica di utilizzo di programmi simili nei paesi Ocse e hanno il pregio, rispetto a incentivi generalizzati ai nuovi assunti, di limitare le perdite nette di gettito dovute al semplice fatto che per effetti di “porte scorrevoli”, le imprese che comunque avrebbero aumentato l’occupazione, avrebbero diritto lo stesso al sussidio. Ciò ne limiterebbe il potere incentivante di creazione di occupazione netta e aumenterebbe il costo in termini di gettito fiscale perso. Credere però, come Ricolfi sostiene, che questo avvenga senza altri tipi di costi, ceteris paribus, potrebbe rivelarsi una chimera.

La ragione dello scetticismo risiede in quello che in economia è conosciuto come “equilibrio generale dei mercati”. Vediamo brevemente il perché. In un mercato del lavoro, anche in recessione, la maggior parte delle transizioni di contratti avviene fra imprese in contrazione (perché scarsamente innovative) e imprese di successo (che invece aumentano l’occupazione a seguito di maggiore innovazione organizzativa, o di più alta penetrazione nei mercati). La maggior parte della dinamica occupazionale è, perciò, riallocazione lorda di posti di lavoro. Gran parte dei nuovi contratti sarebbero stati conclusi anche senza il sussidio. Da ciò scaturisce l’impossibilità economica di aumentare sia l’occupazione che il gettito. I nuovi posti di lavoro sarebbero, infatti, secondo il nuovo regime, con contributi bassissimi, con ovvi effetti sul gettito incamerato. È la nota proposizione che non esiste in alcun modo un free lunch.

Per di più, se si lasciasse aperta la porta alla possibilità di sfruttare gli incentivi anche per le imprese di nuova creazione, ciò diminuirebbe l’effetto sull’occupazione netta dello schema. Infatti, uno dei problemi conosciuti del “marginal stock subsidy” è l’incentivo perverso dato alle imprese di praticare outsourcing occupazionale, diminuendo l’occupazione fittiziamente nelle imprese esistenti per creare nuove scatole imprenditoriali che hanno il solo effetto di incamerare il sussidio. Se si volesse migliorare la proposta, bisognerebbe prevedere un double marginal stock subsidy”, per cui l’incentivo sarebbe diretto sia al nuovo posto di lavoro creato, che agli eventuali posti “salvati” nelle imprese, in modo da evitare gli effetti perversi di outsourcing sopra delineati.

Tra l’altro, si dimentica spesso (e questa è una colpa anche di noi economisti che usiamo impropriamente il termine cuneo fiscale) che i contributi non sono una tassa generica, ma servono a coprire il valore atteso attuariale di spese future. Il livello di servizi a cui accede un lavoratore dipendente è superiore a quello di una partita IVA proprio in virtù dei contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro.

Ad esempio, una parte di contributi serve a finanziare l’erogazione futura della pensione, l’indennità malattia, la pensione di invalidità e così via. Proprio per questo motivo, i contributi dovrebbero essere determinati in maniera attuariale per coprire il valore atteso di tale prestazione. Quindi, nel caso di un nuovo lavoratore giovane, i costi dei servizi previdenziali e assistenziali a cui accede in virtù del contratto di lavoro dipendente non saranno immediatamente visibili, ma la Pubblica Amministrazione prima o poi i soldi li dovrà tirare fuori. Ad esempio, quattro anni di contributi previdenziali in meno, su una vita lavorativa di 40 anni equivalgono ad un buco del 10% nella copertura delle pensioni future. Con la Fornero siamo riusciti a mettere in equilibrio la spesa pensionistica; vogliamo ributtare tutto a mare? Se si vogliono ridurre i contributi, sarebbe più trasparente ridurre le prestazioni e sostituire i contributi obbligatori con un sistema volontario di coperture assicurative private.

Lo schema di Ricolfi è ben congeniato, seppur come visto migliorabile, e rispetta appieno le best practices conosciute in letteratura. Tuttavia, sarebbe più onesto dire che il gettito perso andrebbe coperto da un taglio di spese pubbliche, oppure che tale operazione è da finanziarsi in deficit, soprattutto se la dimensione del sussidio assume la grandezza relativa, decisamente alta, della proposta. Onestamente le evidenze empiriche ci consentono di poter affermare che questi programmi di politica attiva del lavoro (così come categorizzati da Ocse e Eurostat) aiutano nel  breve periodo la creazione di occupazione a costi ragionevoli. Per altro, ogni sussidio, per quanto ben congegnato, ha un costo in termini di risorse pubbliche spese, quindi se davvero si volesse metterlo in pratica, bisognerebbe avere l’onestà di ammettere che il moto perpetuo non esiste nemmeno in economia.

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