Il testo presentato in Parlamento sulla riforma del lavoro, il Jobs Act, su cui ieri il governo ha posto la fiducia, prevede – tra le altre cose – di estendere all’industria l’utilizzo dei voucher, i buoni lavoro finora usati per pagare colf, badanti e lavoratori agricoli stagionali.
I voucher permettono di pagare il singolo lavoratore per ora lavorata, senza bisogno di stipulare alcun contratto. Valgono 10 euro ciascuno, e comprendono la contribuzione in favore della Gestione separata dell’Inps (13%), l’assicurazione all’Inail (7%) e un compenso all’Inps per la gestione del servizio. In tasca al lavoratore restano quindi 7,50 euro all’ora. I buoni prevedono limiti. Ciascun lavoratore non può guadagnare più di 5000 euro netti all’anno attraverso voucher, e ogni datore non può superare le 3000 euro di pagamento totale annuo per ciascun impiegato.
L’intento, spiega Marco Leonardi, professore di Economia politica dell’Università Bocconi di Milano, è quello di fornire uno strumento utile a far emergere dal nero lavori saltuari o secondi e terzi impieghi. «È una decisione fatta nell’intento di ridurre il ricorso abusivo ai cococo, cocopro e partite Iva, e pagare in modo legale piccoli lavoretti», dice, «anche quelli dei pensionati».
Ma l’estensione dei buoni lavoro anche al settore industriale, che attende di essere meglio regolata nei decreti attuativi che seguiranno l’approvazione della legge delega (il Jobs Act, appunto), può rivelarsi un’arma a doppio taglio e un ulteriore mezzo di precarizzazione.
È quel che insegna almeno la lezione tedesca dei mini-job, cui i voucher sono stati paragonati dal governo stesso.
La lezione tedesca dei mini-job
La riforma del cancelliere tedesco Shroeder (Agenda 2010), spesso citata come possibile modello per la flessibilizzazione del mercato del lavoro italiano, ha introdotto i mini job come strumento per tamponare l’alta disoccupazione, che allora, nel 2005, coinvolgeva il 12,5% della popolazione.
Un mini job è un lavoro che risponde ad almeno uno di questi due requisiti: non più di 10 ore di lavoro alla settimana o non più di 450 euro di retribuzione netta a settimana.
«La cosa buona dei mini-job», spiega la giornalista economico-finanziaria tedesca Patricia Szarvas, autrice di Ricca Germania, poveri tedeschi (Università Bocconi Editore, 2014), «è che hanno davvero permesso a molta gente di uscire dalla disoccupazione stagnante. L’idea di Shroeder era quella di offrire alle aziende uno strumento a bassa imposizione fiscale e ad altissima flessibilità». E in questo i mini-job hanno funzionato. Il mercato ha ripreso a funzionare, la disoccupazione è scesa. Ma la situazione poi è in qualche modo degenerata. «Nonostante la ripresa, le aziende hanno continuato ad avvantaggoarsi di questo strumento, pagando operai, infermieri, muratori e anche camerieri in questo modo». E si è creata con il passare del tempo una fascia di popolazione “mini-job dipendente”. Lavoratori che – rifiutata da parte del datore la possibilità di trasformarli in dipendenti regolari e full time – si sono messi a fare due mini job insieme, guadagnando un massimo di 900 euro al mese. È il fenomeno che la Szarvas descrive nel suo libro come «multi-job». Un circolo vizioso in cui i lavoratori cadono, passando di datore in datore senza crescere professionalmente e vedendosi negare costantemente la possibilità di trasformare il mini-job in un vero contratto di lavoro.
Tanto più che, spiega Szarvas, lo strumento ha ridotto sì la disoccupazione, ma non ha creato più lavoro. «Il totale di ore lavorate oggi è identico a quello del 1997», afferma la giornalista. Di fatto, lo stesso lavoro di 40 ore settimanale che un datore poteva offrire a un singolo con contratto regolare è stato semplicemente diviso tra tre o più persone.
«Non è successo – come sperava Shroeder – che con la ripresa i lavoratore più bravi potessero passare da un mini-job a un contratto di lavoro dipendente. Le aziende hanno continuato ad avvantaggiarsi di questo strumento a basso costo fiscale. A danno però dei lavoratori. E della società tedesca, che, racconta Szarvas nel suo libro, ha visto crescere la percentuale di tedeschi a rischio povertà dal 12,2% del 2005 al 16,1% del 2012. I lavoratori a rischio povertà (i cosiddetti working poor), inoltre, sono aumentati dal 4,7% del 2005 al 7,8% del 2012.
E parliamo delle Germania.
Uso improprio dei voucher in Italia
Nulla impedirebbe in Italia a un datore di sfruttare i buoni lavoro per sostituire un singolo lavoratore dipendente con più persone capaci di coprire lo stesso numero di ore lavorative. Perché le aziende non hanno limiti (né si prevede ad oggi di inserirne) sul numero totale di persone che può essere pagata con i voucher. Ciascun datore potrebbe prenderne 10 o anche 100 e pagarle tutte con i buoni lavoro senza sforare i 3.000 euro di reddito a testa (che diventeranno forse 5.000 nei nuovi decreti legge attuativi del Jobs Act). Può usare più lavoratori pagati con voucher contemporaneamente, oppure sostituire il vecchio con uno nuovo nonappena sfora i limiti di reddito.
Del resto, l’Italia è il Paese in cui anche gli stage vengono spesso usati per coprire necessità produttive reali, sfruttando un ampio bacino di manodopera intercambiabile, persino in settori che necessitano di personale qualificato (si prendono stagisti a catena nei negozi di abbigliamento, ma anche nelle redazioni, negli studi di architettura).
Nessun controllo effettivo sull’abuso
Il sindacato Uil solleva poi il tema del controllo. Un tema già emerso per i contratti di lavoro intermittente, salvati dalla vecchia riforma Fornero nonostante l’ampio uso illegale che ne viene fatto soprattutto nel settore della ristorazione e del commercio (Lo raccontavamo in questo articolo).
«Il datore di lavoro acquista dei voucher, comunica le ore presunte e poi sceglie un lavoratore. Quando l’ispettore arriva, è sufficiente che il datore mostri i voucher acquistati per essere in regola. Ma l’ispettore non può controllare in alcun modo il numero di ore lavorate dal singolo, perché non esiste alcun registro», spiega Guglielo Loi, segretario confederale Uil. Significa ammettere che lo strumento non basta, così com’è, a far emergere il lavoro nero. Che è invece lo scopo primario della sua estensione anche al settore industriale.
Non solo. Già la legge Fornero aveva provato a regolare l’uso dei buoni. «E prevedeva che nell’arco di qualche mese fosse fissato il valore orario minimo per ciascuna categoria. Cosa mai accaduta, se non nell’agricoltura. Nei fatti non si può scendere sotto le 10 euro orarie, ma nessuno può in realtà controllare se con un unico buono il datore si accorda con il lavoratore per pagare una oppure due, tre ore».
«Il vantaggio fiscale per le aziende – spiega Loi – sta nel non dover pagare l’imponibile Irap, che è attorno al 3-4 per cento». Una occasione troppo ghiotta per non essere sfruttata e abusata. Allo stesso tempo «i singoli lavoratori sono esenti dal pagamento dell’Irpef». Attrazione fatale anche per loro, ma piena di insidie.
Molto critico è anche il professor Giulio Sapelli, storico ed economista. «Non si devono più fare leggi sul lavoro», provoca Sapelli, «siamo di fronte a un delirio neoliberista. Serve una moratoria su tutte le leggi finora emerse per creare un nuovo sistema di relazioni sociali basate su contratti diretti tra parti sociali. Non bisogna più lasciare che siano i governanti a decidere, il rischio è di introdurre nuove forme di schiavitù», dice.
I danni per le casse dello Stato
La misura – finalizzata a far emergere il lavoro nero – si rivela controproducente anche per le casse dello Stato.
Già oggi, prima ancora dell’estensione al settore industriale dei buoni lavoro, l’utilizzo dei voucher per gli oltre 46 mila lavoratori impiegati con questa tipologia di lavoro provoca una elusione fiscale di oltre 70 milioni annui. In particolare, il mancato pagamento dell’Irpef da parte dei lavoratori – comprese le addizionali regionali e comunali – ammonta a 57,8 milioni di euro. Il mancato versamento dell’Irap da parte delle aziende è di 12,2 milioni di euro all’anno (dati Uil 2014).