I puristi della boutique e della griffe storceranno il naso. Ma la sharing economy, il consumo collaborativo, o meglio l’economia della condivisione, sta contaminando anche il mondo della moda. Il risultato è una parola difficile da pronunciare, sharing fashion. Ma il principio è vecchio: condividere i vestiti con gli amici. Questa volta, però, si fa online, e la vostra gonna preferita potrebbe finire nell’armadio di un perfetto sconosciuto a migliaia di chilometri da voi. Così come avviene per le stanze, le case, le auto e persino le competenze (leggi alla voce Skillshare), in Rete si possono condividere i vestiti di qualcun altro, scambiarli o semplicemente noleggiarli. Se, soprattutto con la crisi, pensavamo di non poterci permettere quella bella camicia in vetrina, la sharing arriva in soccorso, non solo del nostro portafoglio ma anche del nostro look. A costi ridotti, e zero sprechi. Come ha scritto il Guardian il nuovo must-have sono i siti web di sharing.
«A quanti è capitato, davanti a un armadio stracolmo di vestiti, di sentirsi dire “Non ho niente da mettermi”?», ha raccontato durante la Fashion Week milanese Marta Mainieri, tra i fondatori del sito Collaboriamo.org. «È venuto il momento di condividere. Con la crisi e l’aiuto delle nuove tecnologie, il consumo collaborativo sta prendendo piede». Anche in Italia, e non solo nell’abbigliamento. Nel 2013 in Italia la spesa in vestiti e calzature è diminuita del 6,7%, mentre sono aumentati gli acquisti di abbigliamento in Rete (+60% per Zalando). Secondo il rapporto Coop 2014, la disponibilità degli italiani a condividere i vestiti online tocca quota 21%, molto più di Germania (6%), Francia (10%), Gran Bretagna (5%) e Spagna (15%). «Con la sharing c’è uno sfruttamento pieno del bene, che si può cedere il bene temporaneamente o in maniera definitiva, e i questo caso parliamo di riuso», ha spiegato Mainieri, «ci può essere una transizione di denaro o no, ma la moneta principale è la fiducia. È fondamentale la reputazione di ciascun utente all’interno della community e i siti si stanno anche attrezzando con pacchetti assicurativi ad hoc».
Il 21% degli italiani si dice disponibile a condividere i vestiti online
Un esempio di successo nella sharing fashion italiana è My Secret Dressing Room, progetto nostrano che da Milano ha già colonizzato altre due capitali della moda come Londra e Parigi. Il senso è questo: mettere online il nostro armadio ed entrare in quello di qualcun altro, sfruttando al meglio anche quella tshirt dimenticata nell’angolo più nascosto del cassetto. La piattaforma è un guardaroba infinito online che dà agli utenti la possibilità di noleggiare anche abiti firmati. Chi dà qualcosa in noleggio può arrotondare e chi noleggia può risparmiare. Non tutti possono permettersi di comprare un abito, soprattutto griffato, ma con la sharing economy la platea dei consumatori si allarga. Qualcuno la chiama redistribuzione.
Il funzionamento è semplice: chi vuole dare in noleggio gli abiti riceve a casa lo staff di My Secret Dressing Room che scatta un servizio fotografico all’utente o a una modella che indossa i vostri abiti. Una volta finito il servizio, gli abiti tornano nell’armadio della proprietaria, poi sul sito vengono suddivisi per taglia, tipologia e colore, pronti per essere noleggiati. E se la paura che spinge a non condividere è veder tornare a casa il proprio abito costoso strappato o sdrucito, il sito copre con una assicurazione tutto il vostro “fashion item”, cioè gli abiti “caricati” online, guadagnando una percentuale su ogni noleggio andato a buon fine.
Il funzionamento è simile a quello del gigante americano del settore, Rent The Runway, che al momento della partenza, nel 2009, ebbe sul mondo della moda lo stesso effetto che Uber ha oggi su quello dei trasporti. Dopo cinque anni di lotte, ora sono le grandi case di moda a sgomitare per esser presenti sulla piattaforma creata dalle due ex studentesse di Harvard, Jenny Hyman and Jennifer Fleiss. E negli alberghi di Las Vegas sono stati creati dei punti di noleggio offline. A febbraio 2014, Rent The Runway aveva più di 4 milioni di membri, 250 dipendenti e più di 200 designer. Il noleggio di abiti e accessori d’alta moda va dai 4 agli 8 giorni, a prezzi scontati del 90% rispetto al cartellino originale. Una volta scelti, i vestiti vengono recapitati direttamente a casa in due taglie diverse, per essere sicuri che almeno una delle due sia quella giusta. Scaduto il noleggio, l’abito viene rimesso nella busta che Rent The Runway ha spedito insieme al pacco e restituito al mittente, che lo manda in tintoria, pronto per un altro noleggio. Per un abito che da cartellino costa 1.390 dollari, se ne spenderanno solo 70 per il noleggio. E la favola di Cenerentola per una sera potrà avverarsi.
Altro nome da mettere tra i “Preferiti” del vostro computer è Poshmark. Ma non tentate di iscrivervi, per il momento gli 1,5 milioni di prodotti catalogati sono disponibili solo per gli utenti che si connettono dagli Stati Uniti. Basta iscriversi e scaricare la app, fare una foto al prodotto che si vuole mettere in vendita, usare i filtri che il sito offre per rendere le immagini più accattivanti e il lavoro è fatto. E se non vi fidate, Poshmark non rilascerà il pagamento al venditore finché non sarà arrivato l’ok da parte di chi ha acquistato il prodotto. Gli utenti possono postare semplici foto dei prodotti, o foto di se stessi con indosso i prodotti, suggerendo anche il modo di usarli. Sbirciando tra scarpe, borse e abiti messi in vendita, si trovano marchi come Manolo Blahnik, Louis Vuitton e Gucci.
Dall’Olanda arriva invece Rewear, che sarà lanciato nel mese di ottobre 2014. Il senso, intuibile già dal nome, è quello di valorizzare i capi di abbigliamento, facendo sì che qualcun altro li ri-indossi quando a noi non vanno o non piacciono più. Per fortuna, il gusto è labile. E dall’altra parte del mondo, o anche solo della città, ci sarà qualcuno che impazzirà per quella gonna che abbiamo volontariamente dimenticato. E che magari è pure firmata.
Non solo. Dai social e dalle piattaforme, ci si può spostare anche offline. A Milano gli swap party sono ormai realtà: riunioni a casa di qualcuno con tanto di cocktail e salatini in cui ciascuno porta i suoi vestiti da scambiare. Si entra con un paio di scarpe e una gonna, si conosce gente nuova, e si esce – magari – con un paio di scarpe Chanel. Della voglia di risparmio e riutilizzo se ne stanno accorgendo anche le catene della grande distribuzione low cost, da H&M alla italiana Intimissimi, che nei negozi di tutta Italia stanno creando angoli dedicati alla raccolta dei prodotti usati. Meno sensibili, ancora, le grandi case di moda.
Non tutti possono permettersi di comprare una Louis Vuitton, con la sharing economy la platea dei consumatori si allarga
Per i genitori, il sito di sharing consigliato è swap.com, dedicato all’abbigliamento per bambini. È possibile comprare o barattare vestiti, abiti in maschera e accessori che, come noto, vengono usati solo per periodi molto brevi. E quindi si possono riutilizzare. È la stessa logica che sta dietro ad “Armadio verde”, progetto tutto italiano di acquisto e scambio di prodotti per bambini, che offre anche la possibilità di condividere i prodotti offline tramite gli swap point, veri e propri negozi di sharing adatti a chi ancora non si fida degli acquisti online.
Ma la sharing economy non fa bene solo agli utenti attenti allo spreco o alle fashion victim. Le piattaforme online permettono anche agli aspiranti designer, maker e stilisti di far conoscere i propri lavori, realizzarli ed eventualmente venderli. Rewear ha uno spazio dedicato ai giovani fashion designer, “The Next Stella McCartney”. Ma ci sono piattaforme ad hoc come Openwear, “piattaforma collaborativa” per le creazioni di moda finanziata anche dalla Commissione europea, con la collaborzione – tra gli altri – anche dell’Università degli studi di Milano. L’idea di base è quella dell’open source applicata alla moda: si può aprire il proprio “showbox” con i propri cartamodelli, incontrare la community ed eventualmente vendere i prodotti. Con questo meccanismo è già nata una collezione, Forward to Basics, la prima “collezione collaborativa” (cosa che forse farebbe rabbrividire i grandi stilisti abituati allo one man show). D’altronde nella moda, loghi a parte, la maggior parte dei capi non è coperta da copyright ed è facile da replicare. E se le passerelle delle fashion week sono riservate solo ai grandi nomi, la Rete rende tutto più democratico, anche per gli aspiranti Giorgio Armani.
Ma a volte le idee non bastano. Per realizzare una collezione servono i soldi. Nasce con questo obiettivo Wowcracy, sito di crowdfunding dedicato alla realizzazione di collezioni di moda. Sottotitolo: “Endless Fashion Week”, fashion week senza fine. Tanto che la celebre rivista Vogue ha appoggiato da subito il progetto dei cinque ragazzi italiani. I designer iscritti sono 25mila, da ogni parte del mondo. «I progetti che arrivano dall’Italia sono i più belli», confessa Lucas Vigliocco, tra i fondatori di Wowcracy. Basta caricare l’idea in Rete. E se piace, vedrete crescere il vostro budget per realizzarla. Uno dei progetti più apprezzati è stato quello della baguette bag, realizzata grazie al crowdfunding da una designer ucraina per trasportare il pane francese. La borsa è stata acquistata fino in Giappone. Anche la baguette bag, quando non vi piacerà più, potrà essere scambiata a uno swap party o caricata su uno dei siti di sharing fashion. È la condivisione, bellezza.