PARIGI Costretta all’esilio per aver partecipato ad una produzione americana (il film di Ridley Scott Nessuna verità con Leonardo Di Caprio) e per essersi presentata, alla prima del film, con la testa scoperta, l’attrice iraniana Golshifteh Farahani è oggi rifugiata politica in Francia. Al “Forum des Images” di Parigi l’esuberante attrice parla dell’Iran, del suo esilio, del cinema, della gioventù di Teheran.
Cosa l’ha portata a fare cinema?
Non sono io che ho scelto di fare cinema è il cinema che ha scelto me. La mia famiglia aveva investito molto su di me. Io dovevo diventare una musicista malgrado il fatto che mio padre avesse fatto cinema e teatro. Un giorno la mia famiglia si riunì e decise che io dovevo essere una musicista. Fu una decisione severa. Per me non doveva esistere altro che una cosa: il pianoforte. Eppure già da quand’ero piccola mi furono proposti diversi ruoli per alcuni film. Mio padre però non ne voleva sapere. Un giorno, avevo 14 anni, sono venuti a parlare con mia sorella affinché io potessi partecipare ad alcuni casting perché temevano di parlare con mio padre che s’innervosiva facilmente e alzava la voce. Da quel giorno ho cominciato a fare dei casting di nascosto. Per me era come un gioco, non l’avevo preso sul serio. Poi pian piano divenne una cosa seria e bisognava dirlo anche a mio padre. Ma io non sapevo come dirglielo. Allora un giorno un gruppo di persone tra cui registi, produttori ed attori, sono venuti a parlare con mio padre e l’hanno convinto a darmi il suo assenso. Mia madre piangeva perché diceva che io avrei abbandonato la musica classica. Mi fece addirittura spedire un piano nel villaggio dove si girava il film e tutti ridevano di me e di lei. Mi rasarono la testa per quella parte e fu il mio primo film.
Nonostante ciò il suo percorso di musicista sembrava segnato…
Vinsi un premio cinematografico importante in Iran (al festival di Fajr per il film Derakhte Golabi, ndr) e tre anni dopo ricevevo decine di proposte per film, tutti volevano lavorare con me. Ma per me era finita nel senso che mi ero oramai rassegnata al fatto che dovevo essere musicista. Dunque rifiutai diverse proposte e abbandonai definitivamente il cinema. A 17 anni tutto era pronto per la mia partenza per Vienna, dove dovevo cominciare la mia carriera di musicista. Una sera mi guardai allo specchio e mi chiesi: «Golshifteh, vuoi davvero diventare una pianista, fare musica classica? Questo vuoi fare nella vita?». Cominciai a riflettere seriamente. Io ero l’enfant terrible della famiglia, mi vestivo di nero, amavo i Metallica, andavo ai concerti punk, saltavo facendo headbutt, non riuscivo a stare seduta più di venti minuti su una sedia e per me era davvero impossibile diventare una pianista anche se suonavo bene. Allora una sera mi avvicinai a mia madre e le dissi dolcemente: «Mamma io non voglio partire per Vienna». Lei mi guardò e capì che era inutile insistere. E così il cinema è ritornato nella mia vita. Ma ho l’impressione di non aver fatto sforzi per diventare attrice, è il cinema che si è imposto nella mia vita. Ho fatto anche molto teatro, continuavo a farlo senza crederci poi pian piano qualcosa in questo mestiere mi ha toccato nel profondo.
Come ha vissuto l’esilio, lo sradicamento dalla sua terra, l’Iran?
Quando guardo all’Iran oggi mi viene tristezza. Vedo che vengono introdotte nuove parole, i prezzi aumentano, il paese s’evolve, la gente viene e mi racconta le novità dal Paese ma è come se mi parlassero del Giappone, di un Paese che oramai non riconosco più. Mi sento ancora così ferita, ho sofferto tantissimo il fatto di essere stata costretta a lasciare l’Iran da non avere parole per descrivere questa sensazione. Non avrei mai voluto lasciare l’Iran. Mi hanno letteralmente cacciata dal mio Paese. Ho fatto ventitré film prima di andarmene. A volte volevo lasciarmi andare a questa nostalgia della mia terra e alla tristezza. Noi iraniani amiamo molto la tristezza e la nostalgia. Poi ho deciso di farmi forza e di andare avanti ed ora sono qui in Francia. A volte mi immagino una scena. Tutti gli artisti che sono stati costretti a lasciare il Paese si ritrovano all’aeroporto sorridenti. Mi immagino cinematograficamente la scena e anche la musica. Alla fine penso che morirò qui anche se non credo ci sia posto per me al cimitero di Père Lachaise (ride, ndr).
Com’è vivere in Europa rispetto all’Iran?
Molto diverso. Come molti altri popoli mediorientali noi Iraniani non pensiamo assolutamente al futuro perché per noi in realtà non c’è futuro. In Iran si vive intensamente il presente, noi ci divertiamo tantissimo. Quando gli europei o gli stranieri vengono in Iran pensano che l’Iran sia un paese folle. È perché vedono un popolo che vive intensamente il presente, che non pensa minimamente al futuro. In Francia, in Europa tutti pensano a costruire il proprio futuro. Cosa farò? Cosa diventerò? La gente è troppo concentrata sul futuro e non sul presente. In Europa tutto è solido, fisso. In Iran si muove tutto, non ci sono punti di riferimento allora ci si adatta alla situazione. Siamo come dei camaleonti ma è anche una necessità per sopravvivere.
In Europa si favoleggia spesso della gioventù “ribelle” di Teheran.
Per me Teheran è la New York del Medio Oriente. Bisogna partire da un dato. Circa 40 milioni di iraniani hanno un’età che oscilla tra i 18 ed i 32 anni. È una società giovanissima, dinamica. Queste generazioni però hanno a che fare con un regime molto duro, che ha radici profonde ed è organizzato capillarmente. Non c’è un re o un dittatore che può essere rovesciato come accaduto in diversi paesi arabi, in Iran ci sono migliaia di organizzazioni che fanno una pressione enorme sulla società. Questo ha fatto sì che, ad esempio, l’arte in Iran diventasse una cosa essenziale, pura. Per la società iraniana l’arte è ossigeno perché senza di essa non ci sarebbe alcuna valvola di sfogo, questa gioventù ribelle di Teheran non avrebbe modo di esprimersi. In Iran ci sono grandi scrittori, intellettuali, poeti, musicisti e tutta la società è in continuo movimento rispetto ad un regime sempre più cristallizzato. Il teatro, il cinema, tutto è vietato in Iran. La danza ad esempio è oramai scomparsa. Allora l’arte è diventato il fuoco della nazione.
Come vede il ruolo della donna nella società iraniana?
In Iran c’è una pressione enorme sulle donne. Sono le donne che hanno pagato il prezzo della rivoluzione e di quest’idiozia di dover essere costrette a portare il velo. Alcune settimane fa hanno giustiziato una donna solo perché ha reagito a un tentativo di stupro. Ci sono decine di donne vittime di aggressioni con l’acido perché rifiutano di sposare un uomo o semplicemente respingono un pretendente. Le donne non hanno diritto a cantare. Non si può nemmeno dipingere il seno di una donna o mostrare in alcun modo le curve anatomiche femminili, nemmeno se la donna è coperta. È davvero difficile essere una donna in Iran.
Cosa rappresenta invece per lei il cinema?
Inizialmente pensavo che dovevo fare cinema per cambiare le masse e seguire le orme di mio padre che era un uomo di sinistra. Pensavo cioè alla funzione civile del cinema, in grado d’istruire e formare le masse. Poi ho capito che il cinema è anche altro. Il momento in cui sei davanti ad una telecamera è un momento di verità, un momento eterno. Con il pubblico si è nella sincerità più assoluta. È come una sorta di meditazione, si abbandona il proprio io per fondersi totalmente nel proprio ruolo. Il cinema è estasi.