Lo scorso 12 settembre, in Inghilterra, è uscito nelle sale «Jack to a king». Un docu-film che racconta la storia di un club di calcio gallese arrivato in pochi anni dal rischio fallimento in quarta serie alla vittoria in Coppa d’Inghilterra, il tutto grazie al trust dei propri tifosi. Tutto vero: è la storia dello Swansea. Così come è vero che il Bayern Monaco è riuscito, con 16 anni di anticipo, a d estinguere il mutuo per la costruzione dello stadio di proprietà. Anche qui, grazie a una gestione economica attenta nella quale i tifosi hanno più di una voce in capitolo.
L’autarchia nel calcio esiste, dunque. Ed è quasi necessaria: «Le spese eccessive hanno determinato l’insolvenza di un ampio numero di società di calcio, e in alcuni casi hanno determinato il fallimento. Sino al 2012, vi sono state 92 richieste di dichiarazione di insolvenza di società sportive partecipanti ai campionati delle prime 5 divisioni inglesi, a partire dalla costituzione della Premier League nel 199229; inclusi Leeds United, Portsmouth e (in Scozia), Glasgow Rangers. In Italia, tra il 2002 e 2012, 103 società professionistiche dalla quarta divisione in su sono state escluse dai campionati, tra le quali Parma Associazione Calcio e Società Sportiva Calcio Napoli nel 2004 e Torino Calcio e A.C Perugia nel 2005» spiega il documento di Supporters Direct Europe, il movimento che riunisce i trust del Vecchio Continente.
E in Italia, sull’esempio soprattutto del modello inglese, stiamo provando a raggiungere l’indipendenza economica nel pallone, con alcuni esperimenti di azionariato popolare che coinvolgono i tifosi, per risolvere i nostri problemi finanziari.
Repetita iuvant: siamo in crisi
Il calcio italiano è in debito d’ossigeno e fatica a produrre utili: lo slogan lo sentiamo ripetere da mesi, anni. I numeri sono impietosi. E fotografano una situazione che produce uno slogano ancora più duro: salgono i debiti, diminuiscono gli spettatori. Il rosso totale del fu campionato più bello del mondo è di 3 miliardi di euro, a fronte di 22mila tifosi di media a partita negli spesso poco accoglienti stadi italiani. Per renderci conto di quanto poco valiamo, basta fare un raffronto con il fussball tedesco, dominatore in Europa. Il pallone made in Deutschland vede gravitare attorno a sé un giro di affari di 2 miliardi di euro: 2.170 milioni per la precisione, + 4,4% rispetto alla stagione passata. Su 17 club della Bundesliga, 18 hanno chiuso il bilancio in risultato positivo a livello di Ebitda, ovvero la differenza tra ricavi caratteristici e costi operativi, al netto di player trading, ammortamenti, interessi sul debito e tasse.
E poi c’è la Serie B. Già, perché i club della Bundesliga 2 hanno registrato il più alto fatturato di sempre grazie a ricavi pari a 419,4 milioni, in crescita del 9,1% di aumento rispetto alla scorsa stagione. Anche in Italia la B prova ad essere un’isola felice, tra nuovi modelli di sponsorizzazione collettiva e piattaforme per condivise con i club per la costruzione di nuovi impianti. Ma è un caso isolato: più si scende di categoria, più il nostro pallone è in crisi economica.
Se anche gli stranieri in Italia si adeguano al modello del conduit
Non che le cose, lassù, siano messe bene. Anzi. Il calcio italiano non riesce ad uscire dai suoi vecchi vizi. E l’arrivo di investitori stranieri non sta facendo scattare il cambio di rotta: tutto ruota sempre attorno al modello economico del conduit. Conosciuto anche con il termine di “società veicolo”, il conduit è un modello che in Italia è stato spesso utilizzato da molti club in crisi per ottenere nuovi finanziamenti dalle banche, tramite società create ad hoc (le società veicolo, per l’appunto) alle quali i club di calcio cedono lo sfruttamento dei diritti d’immagine, da usare come garanzia per incamerare mutui bancari ed appianare i buchi di bilancio. Negli anni passati lo hanno fatto Inter e Milan. I nerazzurri, per esempio, cedettero il marchio alla Inter Brand srl per 158 milioni di euro, 120 dei quali finanziati dalla Banca Antonveneta. Poi l’affare è stato fatto anche dalle “provinciali” e medie squadre. Dalla Lazio (marchio ceduto alla Lazio Marketing & Communication per 95 milioni) al Brescia (cessione alla BresciaService srl per 20 milioni), passando per la Sampdoria (25 milioni a Selmabipienne).
Il caso dell’Inter, in particolare, è sintomatico del mancato cambio di rotta. L’arrivo di Thohir non ha cambiato le cose. Per produrre 33 milioni di utili nell’ultimo bilancio, il magnate indonesiano si è dedicato alle operazioni infragruppo. Un escamotage portato a termine grazie alla creazione di Inter Media, che ha inglobato gli accordi di sponsorizzazione e di gestione del brand nerazzurro. Così si è creata quella garanzia economica che ha permesso al club di ottenere prestiti bancari fino a 230 milioni di euro, con il debito di dell’Inter e di Inter Brand assorbiti successivamente dalla nuova controllata. Un modello che sarebbe pronto a seguire anche James Pallotta, investitore statunitense proprietario del pacchetto di maggioranza della Roma. L’ultimo cda del club ha infatti dato il via ad un colloquio serrato con Goldman Sachs, per trattare sull’apertura di una linea di credito per ottenere finanziamenti con i quali affrontare con più serenità l’indebitamento da 111 milioni di euro. Una linea di credito che confluirà in una società veicolo creata appositamente ed alla quale verranno ceduti a garanzia i contratti di sponsorizzazione, come nel caso dell’Inter. Secondo il “Sole 24 Ore”, «in futuro un pensierino magari potrebbe farcelo il Milan che al 31 dicembre 2013 aveva invece un posizione finanziaria netta negativa per 256 milioni (di cui 144 milioni verso le banche)».
Un movimento che nasce dal basso: il caso inglese
Non è un caso che l’amministratore delegato alla parte economica del club rossonero, Barbara Berlusconi, negli ultimi tempi abbia anche ipotizzato un’apertura del club verso l’azionariato popolare. Difficile però che accada. Perché in un contesto in cui non esiste una legge che impedisce la cessione dei pacchetti di maggioranza ad investitori stranieri, come nel caso tedesco in cui si è per certi versi “obbligati” all’autarchia, l’azionariato popolare nasce dal basso.
Un caso che ha fatto scuola, in questo senso, è quello dello Swansea. Nel 2002, il club gallese giocava in quarta serie ed era ad un passo dal fallimento, con non meno di 4 milioni di sterline di debiti. Tanti, per una squadra di non professionisti. Per non vederla morire, i tifosi si sono costituiti in un supporters’ trust, ovvero in un’associazione che con l’aiuto di alcuni uomini d’affari ha rilevato la proprietà del club, salvandolo dal rosso e portandolo pian piano prima in Championship (la Serie B inglese), poi in Premier League, vincendo la Coppa d’Inghilterra nel 2013 e conquistandosi così un posto in Europa League. Ma soprattutto, arrivando a realizzare circa 20 milioni di euro di ricavi. Il tutto grazie al lavoro del trust, che possiede il 20% delle quote del pacchetto azionario ed assicurandosi così un posto di rappresentanza nel consiglio d’amministrazione.
In Inghilterra, i trust dei tifosi sono una realtà consolidata, nata per fronteggiare il rischio di scomparsa di molte squadre risucchiate da crisi economiche e gestioni finanziarie disastrate. Oltre allo Swansea, in questo senso un apporto fondamentale dei tifosi ha fatto sì che un’altra squadra, il Portsmouth, venisse salvata dal crack che l’aveva visto addirittura perdere lo stadio di proprietà. Dall’esperienza di queste realtà, oltremanica si è sviluppato il movimento dei Community club, ovvero delle squadre che vedono la partecipazione dei propri tifosi attraverso dei trust. Tutte le squadre del movimento hanno le stesse caratteristiche, tra cui: il possesso del minimo del 50% più uno dei diritti di voto del club da parte del supporters’ trust e il rispetto del principio di democraticità mediante il modello di un voto per testa, a prescindere dall’apporto economico, oltre all’impegno nell’adottare un business sostenibile (cioè niente spese pazze).
E poi c’è la Bundesliga, dove alcuni club, grazie alla presenza dei tifosi all’interno del board e all’uso di un business sostenibile, sono diventati veri e propri potentati economici. Un risultato ottenuto grazie ad una legge approvata nel 199 dal Governo tedesco, che prevede che un singolo azionista non può possedere da solo più del 50% del pacchetto di un club.
Il Bayern Monaco, ad esempio, è al 73% di proprietà dei tifosi, con il restante 27% equamente diviso in tre parti, tra Audi, Allianz e Adidas. Il risultato? Un anno fa, alla fine dell’assemblea annuale dei soci, il Bayern ha annunciato i dati delle entrate record. Parliamo di un fatturato monstre di 432.8 milioni per l’anno finanziario 2012-13, rispetto ai 373.4 milioni dell’anno precedente. I risultati arrivano alla fine di una stagione in cui il Bayern ha tenuto a distanza la rivale Borussia Dortmund sia in Bundesliga che in Champions League, oltre ad essersi aggiudicati la Coppa di Germania, per il primo Triplete nella storia del Bayern in 113 anni. Nel dettaglio, i ricavi da sponsorizzazione e commercializzazione hanno superato i 102 milioni di euro, rispetto agli 82 milioni della stagione precedente. Le entrate alla voce merchandising sono aumentate da 82.8 milioni a 57.4 milioni. L’utile netto è aumentato a 14 milioni di euro , con un incremento di circa il 30 % sul 2011-12. Da notare che il Bayern da 21 anni chiude sempre gli anni finanziari con profitto.
Nel pieno rispetto della tradizione inglese, anche in Italia i supporters’ trust nascono dal basso. E sono in aumento, di pari passo con il debito totale del nostro pallone. Molti trust proliferano nelle cosiddette periferie del pallone, lontano dalla Serie A. L’ultimo Report Calcio sottolinea come, osservando i dati sul triennio si nota una leggera tendenza all’apertura degli assetti proprietari, con una crescita del numero di società in cui il socio di riferimento possiede meno del 50% (dal 15% delle società nel 2010-11 al 20% nel 2012-13) e viceversa una riduzione del numero di quelle in cui oltre il 90% è nelle mani di un singolo socio (dal 47% al 44%). Tale tendenza è particolarmente accentuata nella Seconda Divisione di Lega Pro, nella quale nel triennio la quota si è ridotta dal 42% al 25% delle società partecipanti al campionato.
A fronte di un abbassamento delle quote detenute da soci unici di riferimento, sta diminuendo anche il numero di squadre che non possono iscriversi ai campionati, per i mancati requisiti economici. Nel luglio 2009 erano otto le società non iscritte e in bilico tra il ripescaggio e il fallimento, contro le quattro del 2012. Ed è qui che intervengono i trust. I casi italiani più clamorosi degli ultimi anni restano quelli di Ancona e Taranto.
Nelle Marche, i tifosi hanno avuto un ruolo fondamentale nel salvataggio del club dalla sparizione. Una vicenda complicata, quella dell’Ancona. Una squadra che dalla promozione in Serie A si è ritrovata presto alla sentenza di radiazione da parte della Federcalcio da tutti i campionati, per non essersi presentata a 4 gare del campionato di Terza Categoria, dove nel frattempo il club era sprofondato causa fallimento. Nel 2010, i tifosi si costituiscono in un’associazione, la Sosteniamo l’Ancona. Nasce l’Unione Sportiva Ancora, che l’anno successivo diventa Società Sportiva Dilettantistica Unione Ancona 1905, dentro la quale vengono eletti nel cda due membri rappresentanti dei tifosi.
Il Taranto è stato salvato da una quasi certa cancellazione dal campionato dai propri sostenitori ed oggi diventato uno dei punti di riferimento del movimento italiano. Nel 2011/12, il Taranto si ritrovò nel giro di pochi giorni dal lottare nei playoff per la B al rischio sparizione. L’imprenditore Vincenzo D’Addario, proprietario del club pugliese, si trovò costretto per difficoltà economiche a non poter iscrivere la squadra al campionato di Prima Divisione. I tifosi non restano a guardare e grazie alla consulenza dell’avvocato Diego Riva, appartenente al Supporters Direct Europe, studiano un progetto di salvataggio del club attraverso la costituzione di un supporters’ trust.
Nasce così la Fondazione Taras, che inizialmente prevede 32 soci che si federano con una sottoscrizione da 1000 euro ciascuno. La Taras fonda un nuovo club, il Taranto 1927, che si iscrive grazie al Lodo Petrucci al campionato di Serie D. «Ad oggi, la Fondazione Taras, possiede il 10,14% del capitale sociale ed in riconoscimento dell’importante ruolo dei tifosi e del valore aggiunto da essi rappresentato, gode di diritti particolari, ben descritti nello statuto del club», spiega il sito della Fondazione. A prescindere dalla quota posseduta, la Fondazione Taras ha diritto di eleggere un amministratore del club se il cda è composto da 3 membri, o due amministratori un tutti gli altri casi. Inoltre, gli associati della Fondazione hanno diritto di veto su molti aspetti della vita del club, dai trasferimenti di sede, liquidazione della società ed eventuali cambi di colore e marchio del club.
Sull’esempio di Ancona e Taranto, è nato un progetto azionariato popolare anche a Lucca. I guai della Lucchese cominciano nel 2008, con il primo fallimento della storia del club. E proseguono nel 2010, quando l’ex proprietario siriano Fouzi Hadji viene arrestato dalla Guardia di Finanza: tre le accuse, bancarotta fraudolenta e falso in bilancio: nel giro di 40 mesi, arriva il secondo fallimento per i rossoneri. Anche qui, ad aiutare la squadra a riemergere ci pensa un trust di tifosi: nel giugno 2013, il movimento Lucca United acquista il vecchio nome del club, Lucchese Libertas. Lo statuto del trust prevede un meccanismo delle quote acquistate mediante i cosiddetti “pack” di sottoscrizione, che variano da 50 a 500 euro: «Avranno diritto di voto in apposita assemblea del Lucca United nella quale sarà eletto l’organo amministrativo. Maggiore sarà il numero di soci che entreranno nella cooperativa, maggiore sarà il capitale disponibile per acquisire quote della FC Lucchese 1905 e maggiore sarà il peso dei membri della cooperativa all’interno della FC Lucchese 1905».
In comune quindi, molti trust hanno in comune l’esperienza dolorosa di uno o più fallimenti alle spalle. Come nel caso del Mantova. I biancorossi, spariti dal grande calcio dopo un glorioso passato in Serie A, nel decennio scorso hanno vissuto il doppio salto dalla C2 alla B, rischiando addirittura di salire subito in Serie A ed attestandosi poi come una delle realtà migliori della seconda serie. Nel 2010 però, il Mantova viene risucchiato dai debiti del presidente Fabrizio Lori, ex ambizioso uomo d’affari proprietario dell’industria di materiali plastici Pansac con il vizio della bella vita. Mentre Lori amava farsi riprendere mentre atterrava al campo d’allenamento in elicottero come un Berlusconi di provincia, la Pansac andava incontro ad una grave crisi. E nel 2010, il Mantova fallisce. Nel nuovo club confluisce anche il trust del Mantova United, che ottiene nel tempo dal club – come nel caso di Taranto – di gestire le giovanili biancorosse. Il tutto con l’obiettivo di scaricare il bilancio del Mantova del peso del costo di gestione delle giovanili, attraverso la creazione di una squadra dilettantistica, l’Atletico Mantova, gestito dai tifosi. La squadra esiste tutt’oggi ed è interamente gestita dai sostenitori del Mantova, dal quale il trust è uscito quest’anno.
Altro fallimento, altro trust: succede lo stesso a Gallipoli, dove la squadra giallorossa passa in breve tempo dalla promozione in Serie B al crack e alla costituzione di una nuova società, l’Asd Gallipoli, sostenuta dall’associazione di tifosi “Il mio Gallipoli”, che sta seguendo da vicino le sorti di un club che ha visto i diritti sportivi ceduti al sindaco della città dopo le dimissioni dell’ultimo presidente. A Rimini, dal 2011, è attiva l’associazione “Amici del Rimini”, che dopo l’atto di nascita ha acquistato l’1% del club biancorosso, dopo il fallimento e la nascita dell’Ac Rimini 1912, che oggi gioca in Serie D. Anche in B è attiva un’associazione di tifosi: è il caso della cooperativa Modena Sport Club, che possiede l’1% del club emiliano ed è patrocinato da Provincia e Comune locali. Ed altri caso si registrano a Barletta, Arezzo e l’Aquila.
In Inghilterra, il Governo sta collaborando con la federcalcio inglese e le associazioni di tifosi, per capire come aiutare gli stessi trust nei loro processi di ingresso nelle governace. Per questo a novembre di quest’anno è nato “The Supporter Ownership and Engagement Expert Group”, un gruppo di lavoro con l’obiettivo di «vedere cosa possiamo fare per dare ai tifosi una voce più forte su come è gestito il proprio club, così come ricercheremo modi con cui possiamo contribuire a rimuovere alcuni degli ostacoli alla fan ownership», come spiegato dal ministro dello Sport inglese, Helen Grant.
In Italia, lo scorso aprile è stato presentato un disegno di legge che regolamentasse l’ingresso dei tifosi nelle governance dello sport italiano. L’obiettivo del ddl è ambizioso, perché si andrebbe a modificare una delle leggi cardine dello sport del nostro Paese, la legge 91/1981 sul professionismo, nelle sue parti relative a proprietà e board di un club sportivo. Attualmente il ddl, tra i cui firmatari c’è anche l’ex portiere del Varese Giancarlo Giorgetti, è fermo in Commissione Cultura della Camera.