Pizza ConnectionCarminati a Milano, da “Fausto e Iaio” alla ‘Ndrangheta

Carminati a Milano, da "Fausto e Iaio" alla 'Ndrangheta

CARMINATI A MILANO

Una svastica d’oro tempestata di diamanti. Da appendere al collo con una catenina. Bisogna partire da questo gingillo che portava Francis Turatello, storico boss della mala di Milano, prima nemico e poi testimone di nozze di Renato Vallanzasca, ucciso brutalmente in carcere nel 1981, per capire i legami del Re di Roma Massimo Carminati con Milano. Il Cecato, il Nero della Banda della Magliana, il protagonista dell’inchiesta su Mafia Capitale, è infatti nato nel capoluogo lombardo nel 1958. Di origini bergamasche, è qui che ha iniziato a coltivare sin da giovanissimo la passione per la destra eversiva che lo ha portato poi nei Nuclei Armati Rivoluzionari, i temibili Nar. Carminati si trasferisce nella Capitale insieme con la famiglia negli anni ’70, ma continua a mantenere rapporti con il Nord, con la città che in quegli anni vede in piazza San Babila l’avamposto della destra milanese negli scontri con la sinistra antagonista.

«Faceva parte dei Nar con cui noi della destra missina abbiamo avuto sempre da polemizzare. Erano schegge impazzite. Lui per di più teneva i rapporti tra una certa destra militarizzata e la malavita organizzata, quella di Francis Turatello e della mafia del Brenta di Felice Maniero»

E’ la trincea nera dei picchiatori, tra Ordine Nuovo, Terza Posizione o esponenti del Msi di Giorgio Almirante. Il nome di Carminati spunta persino nell’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, i due ragazzi diciottenni del Leoncavallo, uccisi il 18 marzo del 1978. Il Re di Roma, in sostanza, non è un personaggio qualunque. «E’ sempre stato un personaggio border line» spiega un camerata milanese che lo ha conosciuto e che chiede rassicurazioni sull’anonimato. «Faceva parte dei Nar con cui noi della destra missina abbiamo avuto sempre da polemizzare. Erano schegge impazzite. Lui per di più teneva i rapporti tra una certa destra militarizzata e la malavita organizzata, quella di Francis Turatello e della mafia del Brenta di Felice Maniero…». Fu Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, condannato per la Strage di Bologna, a descrivere nei numerosi processi Carminati come un killer spietato, al soldo dei servizi segreti e della Banda della Magliana.

Oltre ad aver conosciuto Giusva a Roma, i due erano compagni di scuola, Carminati può vantare le conoscenze dei Nar milanesi. E’ il collante tra il Nord e il Sud, in quel mondo fatto di rapine, spaccio di droga e politica. Tra i suoi sodali c’è Gilberto Cavallini, ora rinchiuso nel carcere di Terni o Lino Guaglianone, ex tesoriere del gruppo terroristico, condannato nel 1992, dalla quarta Corte d’Assise di Milano per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata. Guaglianone non è personaggio da poco. Proprietario di alcune palestre di boxe, tra cui la Doria in pieno centro, è stato candidato più volte in regione Lombardia e ha vantato in questi anni appoggi politici nel centrodestra – in particolare Alleanza Nazionale di Ignazio La Russa – che lo hanno portato a sedersi in consigli di amministrazione di importanti società pubbliche.

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MILANO, I NERI E LA ‘NDRANGHETA 

Del resto se Milano è diventata provincia di Reggio Calabria lo deve anche a quel legame forte tra il colore nero e la criminalità organizzata calabrese, in particolare il clan De Stefano. Tra i Nar con una carriera fulminante sotto la madonnina c’è appunto Guaglianone. L’ex tesoriere costituisce diverse società, partecipa ad altre, si candida al Pirellone e a Palazzo Marino senza essere eletto, ma arriva a sedersi nel consiglio di amministrazione di Ferrovie Nord Milano, società pubblica gestita al 57% da Regione Lombardia e nel collegio sindacale di Fiera Congressi Milano, altra partecipata lombarda. Negli anni ’90 per lui arriva una condanna per banda armata e riciclaggio. Anni dopo finisce nelle carte dell’inchiesta della dda di Milano “Redux-Caposaldo” per alcuni suoi incontri con Paolo Martino, definito dagli inquirenti come il tramite tra i De Stefano di Reggio Calabria e le cosche insediate al nord. Ambienti che non a caso ritornano poi nell’inchiesta su Mafia Capitale, con indagini per associazione a delinquere persino sull’ex sindaco Gianni Alemanno, esponente storico della destra italiana. 

Ambienti che non a caso ritornano poi nell’inchiesta su Mafia Capitale

Grattacapi più grossi però per il giro “nero” arrivano con le indagini su Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega Nord. Qui le indagini toccano uno dei punti nevralgici dell’intreccio: lo studio Mgim di via Durini. Non è un mistero che i pm di Reggio Calabria nell’inchiesta sui conti della Lega Nord sia arrivata a contestare anche l’associazione segreta.Secondo il pm Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio della Direzione Nazionale Antimafia le indagini proverebbero la caratteristica di segretezza della presunta associazione fra professionisti e imprenditori in odore di ‘ndrangheta, tanto da rientrare nella fattispecie prevista dalla Legge Anselmi. Non è un caso, tra l’altro, che la vicenda delle società riconducibili alla galassia sia ricostruita anche nella relazione dei commissari prefettizi che portò allo scioglimento del comune di Reggio Calabria. Si legge nelle carte: vi sono i “noti professionisti” Bruno Mafrici (calabrese classe 75, non è neppure avvocato è indagato per riciclaggio, ma compare pure in altre indagini della Dda calabrese, tra queste pure un omicidio del 2008), Guaglianone e Giorgio Laurendi, amministratore unico della società Milasl e subentrato a Guaglianone nel ruolo. Milasl è una delle società citate nel decreto di scioglimento del comune di Reggio Calabria, con sede in via Durini 14. Lo stesso Laurendi detiene il 20% dello studio Mgim e figura insieme a Michelangelo Tibaldi, nella compagine di Multiservizi, società partecipata al 51% dal comune di Reggio Calabria, sciolta per mafia alcuni mesi fa per infiltrazioni della cosca.

Proprio in uno dei locali milanesi della Milasl in via Pareto, gestito dalla società Brick di Tibaldi ha trovato posto la sede di “Lealtà e Azione”, dietro la quale si muovono anche gli Hammerskin, movimento neonazi internazionale. Leader degli Hammer milanesi è Domenico Bosa, detto Mimmo Hammer, gelese classe ’67 e un passato con qualche guaio con la giustizia. Bosa, non indagato, verrà comunque pizzicato da due recenti inchieste del Gico della Guardia di Finanza perché in rapporti con il narcotrafficante montenegrino Milutin Todorivic, che a sua volta intratteneva rapporti con il boss della ‘ndrangheta Pepè Flachi. A fare da sfondo la “bamba” e una malavita che anche a Milano incrocia criminalità organizzata e ambienti dell’estrema destra.

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L’OMICIDIO DI FAUSTO E IAIO

Alla fine degli anni ’80 due giornalisti, Fabio Poletti e Umberto Gay scrivono una controinchiesta sull’omicidio di Fausto e Iaio, che fu rivendicato proprio dai Nar come vendetta per la morte di Sergio Ramelli. La vicenda non si è mai risolta. «La nostra fu un’inchiesta sull’ambiente in cui era maturato quell’omicidio, non avevamo individuato i colpevoli», ricorda Poletti. Non ci riusciranno neppure i giudici dopo aver indagato proprio su Carminati, Mario Corsi, detto Marione, ex capo della curva della Roma pure lui tra le carte dell’inchiesta di Mafia Capitale e Claudio Bracci, cognato del Re di Roma. Stefano Dambruoso, nel 1999, ha archiviato l’inchiesta per insufficienza di prove. Eppure anche in quella storia di due ragazzi di diciotto anni trucidati con otto colpi di pistola s’incrociano i misteri d’Italia che ritornano di attualità dopo l’arresto di Carminati, uno degli esponenti più importanti della Banda della Magliana, cerniera tra la malavita organizzata, l’estremismo di destra e servizi segreti deviati. C’è infatti un lato inquietante inella morte dei due ragazzi. E riguarda via Montenevoso, strada dove negli anni ’70, al numero 9, c’era un covo delle Brigate Rosse. Fausto Tinelli viveva al numero 8.

Anche in quella storia di due ragazzi di diciotto anni trucidati con otto colpi di pistola s’incrociano i misteri d’Italia che ritornano di attualità dopo l’arresto di Carminati

E proprio in quella palazzina, come ricostruirà in una puntata Chi l’ha visto (il primo a parlarne fu Daniele Biacchessi nel libro “Fausto e Iaio, la speranza muore a 18 anni” Baldini&Castoldi”), che i servizi segreti hanno una piccola mansarda da dove spiano i brigatisti: dalla finestra della camera di Fausto si vedono le finestre del rifugio brigatista. In via Montenevoso quasi 12 anni dopo sarà ritrovato il memoriale di Aldo Moro, lo statista democristiano rapito il 16 marzo del 1978, due giorni prima di quel massacro di via Mancinelli. Danila Angeli, madre di Fausto, in diverse interviste alla fine del 2000 tirò in ballo i servizi segreti. Dopo l’omicidio di mio figlio», raccontò la madre di Tinelli, «ognuno offriva la sua versione. Chi parlò di regolamento di conti tra spacciatori di droga, oppure una faida tra gruppi della sinistra extraparlamentare. Negli anni ho riannodato i fili della memoria, i pezzi di un piccolo mosaico che mi ha permesso di raggiungere la vera verità che io conosco. Mio figlio è stato vittima di un commando di killer giunti da Roma a Milano, nel pieno del rapimento di Aldo Moro, in una città blindata da forze dell’ordine. Un omicidio su commissione di uomini dei servizi segreti. Gli apparati dello Stato avevano affittato un appartamento al terzo piano del mio palazzo, in via Monte Nevoso 9, esattamente davanti all’appartamento in cui risiedevano appartenenti alle Brigate Rosse, responsabili del rapimento Moro, dove vennero rinvenuti i memoriali del presidente della Democrazia cristiana». Un altro tassello nella storia di Carminati che non ha mai avuto risposta. 

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