Cosa succede quando il rapporto tra paziente e medico non poggia più su solide basi di fiducia del primo verso la figura professionale del secondo e della struttura in cui opera? E quali conseguenze porta al sistema sanitario l’estensione dei confini della responsabilità medica?
Negli ultimi anni l’aumento della consapevolezza sociale del problema della medical malpractice e l’estrema facilità di accesso a informazioni specialistiche mediante Internet, hanno modificato l’interazione medico–paziente al punto da indurre sempre più i medici ad adottare comportamenti di “medicina difensiva” per tutelarsi nell’esercizio della loro pratica.
Cosa è la medicina difensiva. La medicina difensiva, in base alla definizione dell’Office of Technology Assessment americano, si «verifica quando i medici prescrivono test, procedure diagnostiche o visite, oppure evitano pazienti o trattamenti ad alto rischio, principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre la loro esposizione a un giudizio di responsabilità per malpractice. Quando i medici prescrivono test o procedure in eccesso, essi praticano una medicina difensiva positiva; quando, invece, evitano certi pazienti o trattamenti, praticano una medicina difensiva negativa».
Le conseguenze di questa pratica sono molte e influiscono non solo sui medici e sul sistema sanitario, ma sui pazienti stessi. Per quanto riguarda la medicina difensiva “positiva”, l’incremento di interventi diagnostici e terapeutici rispetto a quelli ritenuti appropriati determina un aumento dei rischi a carico dei pazienti (ogni intervento inutile, ogni farmaco aggiuntivo o ogni radiografia superflua portano con sé rischi concreti) e un incremento di spesa senza un conseguente incremento dei benefici per i pazienti e per il sistema sanitario. L’aumento dei confini della responsabilità dei medici, quindi, determina ingenti costi e soprattutto non determina alcuna riduzione della malpractice medica.
In sostanza, la medicina difensiva espone i pazienti a rischi non collegati alle loro condizioni mediche. Ad esempio, un medico può rifiutare di trattare il cancro per evitare di essere citato in giudizio da parte del paziente per gli effetti collaterali, o un bambino può essere troppo esposto alle radiazioni, nel tentativo di “escludere” rischi futuri. In molte interviste condotte per capire gli effetti dei comportamenti da medicina difensiva, spesso i medici hanno riferito che preferiscono praticare comportamenti che “eliminano medicine” piuttosto che eliminare “medicina diagnostica”, per paura che essi possano essere accusati di non aver effettuato una diagnosi o aver ritardato la diagnosi. Questo crea a lungo andare un’incapacità dei medici di avere fiducia nei propri giudizi clinici e nei primi test effettuati. I risultati di questa realtà sono ulteriori test ordinati per confermare i risultati iniziali.
Inoltre, ricadono sui pazienti anche le conseguenze della medicina difensiva “negativa”, a causa della riduzione dell’offerta sanitaria nei settori a maggior rischio di risarcimento danni (soprattutto medicina d’urgenza, chirurgia, anestesia e rianimazione, ortopedia, ginecologia e ostetricia), e dell’aumento nei rifiuti di prestare cure o intervenire su pazienti ad alto rischio di esito infausto. Nei casi più estremi si assiste addirittura ad un ridisegno del mix di offerta sanitaria da parte delle organizzazioni ospedaliere, con la sostituzione di aree ad alto rischio di contenzioso in favore di attività a rischio contenuto.
Sebbene non esistano dati certi che possano fornire stime sui trend di tali comportamenti nel tempo, l’esperienza condotta in vari Paesi testimonia una tendenza in crescita sia per la parte di medicina difensiva “positiva” che per quella “negativa”. In particolare, la pratica della medicina difensiva “negativa” sembrerebbe essere in aumento, anche a causa della difficoltà di riuscire a trovare polizze assicurative che garantiscano una ragionevole copertura dei rischi a prezzi ragionevoli.
Quanto costa la medicina difensiva. Secondo quanto riportato nella relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari, nel 2012 il costo della medicina difensiva in Italia sembra esser stato pari a 10 miliardi di euro, ovvero lo 0,75% del Pil, la stessa cifra incassata nello stesso anno per l’Imposta municipale unificata (Imu), somma solo di poco inferiore a quanto investito in ricerca e sviluppo nel nostro Paese.
Tuttavia, queste stime non risultano attendibili per almeno due motivi. Il primo ha a che fare con la definizione di costo della medicina difensiva. Il secondo per il modo con il quale spesso si tende a misurare il fenomeno. Relativamente al primo punto, i costi da considerare sono almeno di tre tipi: I) i costi legati ai risarcimenti e quelli legali; II) i costi dovuti all’eccesso di prestazioni legate alla medicina difensiva attiva; e III) i costi legati alla medicina difensiva negativa. A oggi non sono state condotte ricerche che siano riuscite a quantificare congiuntamente le tre voci di costo. Inoltre, in tutti i casi in cui delle stime sono state prodotte, queste sono sempre state affette da un problema di errore di misurazione, in quanto o la stessa veniva fatta attraverso questionari in cui si chiedeva di fornire una stima del fenomeno, o raccogliendo informazioni più precise ma su campioni ristretti di professionisti. A tal proposito, basta considerare ciò che accade negli Usa, dove a dispetto di un impegno maggiore nella misurazione del fenomeno, le stime fino a oggi prodotte dei costi della medicina difensiva variano da un massimo di 650/850 miliardi di dollari a un minimo di 50/60 miliardi di dollari.
Gli aspetti giuridici del problema. Guardando all’aspetto giuridico del problema, è necessario prendere atto dell’inefficienza della vigente disciplina della responsabilità medica e della necessità di un suo ripensamento, non nella prospettiva di favorire qualcuno degli attori della prestazione dell’assistenza medico-sanitaria, ma di incentivare il funzionamento “corretto” del sistema, a maggior tutela di tutti i suoi attori, in particolare dei medici e dei pazienti/utenti.
A livello “micro”, esistono ambiti nei quali la responsabilità medica deve essere radicalmente ridimensionata (non è pensabile, ad esempio, che un medico che si trova in vacanza possa essere chiamato a risarcire il danno cagionato da un suo sostituto), proprio perché in questi casi l’imposizione di una responsabilità in capo al medico non discende da una sua colpa individuale nell’evento produttivo del danno, ma anche ambiti in cui essa deve essere rafforzata (mediante un più attento utilizzo della disciplina deontologica). A livello “macro”, è invece necessario procedere a un radicale ripensamento della responsabilità medica fondata sull’atto medico e sul rapporto medico-paziente e ricostruire il sistema interno al nuovo paradigma di prestazione dei servizi sanitari, soprattutto ospedalieri, come servizi integrati in organizzazioni complesse, in particolare considerando l’errore medico non necessariamente in termini di “colpa” ma come un rischio tipico dell’attività.
Il contributo della ricerca nel settore. Riuscire a quantificare correttamente i costi del fenomeno sarebbe un primo passo per permettere di adeguare le politiche pubbliche di finanziamento e spesa. Allo stesso modo consentirebbe di risolvere il problema dell’abbandono del mercato della responsabilità civile medica da parte delle compagnie assicurative, che dipende non tanto (e non solo) dall’incremento del relativo contenzioso e dell’ammontare dei risarcimenti quanto, piuttosto, dalla impossibilità di predeterminare modelli di copertura dei rischi in ragione dell’assenza di informazioni complete e attendibili su quanti e quali eventi risarcibili si sono verificati in passato.
Per fare ciò è però necessario investire di più in ricerca in questo settore. Il CEIS Tor Vergata (che il 18 dicembre terrà una tavola rotonda sul tema), con l’Università Tor Vergata di Roma e l’Università Giustino Fortunato di Benevento, ha inaugurato la propria iniziativa di ricerca in materia di responsabilità medica e medicina difensiva istituendo un centro ad hoc che guarderà al fenomeno lungo due direttrici. Da un lato quella di ispirazione economica, che intende procedere a una quantificazione attendibile del fenomeno della medicina difensiva e definire meglio la struttura degli incentivi che la determina. Dall’altro, contribuire a una riduzione del fenomeno nella prospettiva della indagine giuridica. Tutto ciò avverrà con un approccio multi-discplinare, che è l’unica strada da seguire per provare a trovare una soluzione a un problema di enorme impatto economico e sociale e intrinsecamente complesso.
*Vincenzo Atella è direttore CEIS Tor Vergata e professore associato di Economia all’Università Tor Vergata
**Emiliano Marchisio è professore associato di Diritto commerciale all’Università Telematica Giustino Fortunato