I food lab, dove si sperimenta la cucina del futuro

I food lab, dove si sperimenta la cucina del futuro

Dal momento in cui i cuochi hanno cominciato a “smanettare” con le attrezzature tipiche dell’industria alimentare, ogni chef che si rispetti si è sentito in dovere di schierarsi. Da una parte quelli convinti che nessuna cucina possa dirsi tale senza una centrifuga, un forno combinato a vapore e convezione termica, una pompa aspiratrice con circolatore a immersione da 5mila euro, indispensabile per cuocere un uovo sottovuoto per 22 ore.

Per gli aderenti al partito avverso è invece una questione d’onore vietare l’accesso nelle proprie cucine a tutti questi gadget e a ingredienti come i bagni di idrocolloidi e calcio, semplicemente perché gadget e polverine industriali non hanno nulla a che vedere con la gastronomia. Dopo almeno dieci anni di idee e tecniche della cucina modernista, una nuova generazione di chef rifiuta di giurare fedeltà a entrambe le filosofie. Per quanto mi riguarda, i cuochi più interessanti del momento sono quelli che non salgono sulla barricata, ma si mettono alla ricerca di nuovi sapori servendosi di metodi a bassa tecnologia come la fermentazione e soprattutto cuocendo i cibi sul fornello.

I cuochi davvero ambiziosi – quelli che aspirano a conquistarsi un posto sul mappamondo dell’arte culinaria – realizzano questi nuovi sapori in laboratorio, nei cosiddetti food lab. Finora i due nomi più frequentemente associati all’idea del laboratorio alimentare sono affiliati al partito della cucina modernista. I nomi in questione sono quelli di Heston Blumenthal, del ristorante Fat Duck di Berkshire (Inghilterra) e Ferran Adrià, che è stato chef del ristorante modernista più celebre in assoluto, il catalano El Bulli, e che ha presieduto la commissione consultiva del Centro Culinario Basco. Entrambi i laboratori sono stati qualcosa di più di una cucina sperimentale: erano luoghi in cui venivano inventate nuove tecniche di preparazione. I risultati ottenuti hanno raggiunto ristoranti, libri di ricette, centri di studio e (almeno nel caso del centro basco) sono stati condivisi con i soci industriali che finanziavano le iniziative.

Ferran Adrià durante la dimostrazione di un piatto all’uovo a Tokyo nel 2009 (TOSHIFUMI KITAMURA/AFP/Getty Images)

Negli Stati Uniti, la figura più prossima a questi due creatori è quella di David Chang, eroe dei cuochi americani più giovani. La sua catena di ristoranti, Momofuku Group, sussidia un “laboratorio culinario” affidato a un apposito staff, il cui obiettivo è la scoperta di nuovi ingredienti. Chang e i suoi cuochi collaborano con i micobiologi e gli ingegneri di università come il Mit, Harvard e Yale; la collaborazione, secondo Ryan Miller, responsabile dello sviluppo prodotti del laboratorio, ha lo scopo di colmare il divario tra «le modalità di apprendimento, visuali e tattili, del cuoco» e una «comprensione concettuale» dei processi enzimatico-microbici alla base di preparazioni come la salsa di soia o il miso.

Lo chef David Chang durante la fiera “Madrid Fusion” del 2009 (PIERRE-PHILIPPE MARCOU/AFP/Getty Images)

Una casa galleggiante a Copenhagen

Poi c’è il Nordic Food Lab, ospitato a bordo di un casa galleggiante lungo un canale di Copenhagen, raggiungibile percorrendo un tratto di acciottolato a breve distanza da un ristorante chiamato Noma. Il laboratorio è la creatura di René Redzepi, le cui ricerche condotte al Noma sull’estrazione di nuovi gusti da piante, funghi, licheni o sottoprodotti animali hanno scatenato a livello globale una vera e propria ossessione per la caccia a ingredienti nuovi, ma di discutibile edibilità.

Le ricerche di René Redzepi hanno scatenato a livello globale un’ossessione per la caccia a ingredienti nuovi, ma di discutibile edibilità

Il laboratorio è una struttura no profit e non percepisce sostegni finanziari dal Noma. Il capitale di avviamento è stato assicurato dal governo danese e dal fondo innovativo del gruppo Nordea, una società finanziaria svedese. Oggi il direttore Michael Bom Frøst, docente di scienze sensoriali presso l’Università di Copenhagen, per quadrare i conti si rivolge regolarmente a fondazioni, atenei, grandi aziende, enti pubblici e all’Unione Europea.

Lo chef Rene Redzepi del ristorante Noma di Copenhagen, in una visita in Australia assaggia della carne di canguro (Lisa Maree Williams/Getty Images)

Questo meccanismo di finanziamento è uno dei motivi che recentemente hanno indotto il Nordic Food Lab a focalizzarsi sugli insetti, argomento che ricorre in quasi tutta la copertura mediatica del laboratorio. L’interesse nei confronti degli insetti non ha niente a che fare con i principi fondanti dell’iniziativa: la mission originariamente definita da Redzepi consisteva semplicemente nell’«identificare ed esplorare la scienza del gusto». Si tratta piuttosto di una conseguenza del finanziamento più cospicuo ricevuto finora dal laboratorio, i 655mila dollari investiti dalla fondazione elvetica Velux, che sostiene la ricerca scientifica applicata e di base per «esplorare il gusto come argomento a favore dell’entomofagia».

Gli insetti, beninteso, sono la miracolosa proteina del nostro futuro: chiunque si chieda come riusciremo a nutrire il pianeta, non può fare a meno di citarli. E chi frequenta i ristoranti alla moda, non può sfuggire a una portata a base di taco di cavalletta, o a una bavarese di finferli cosparsa di grilli. Tra autunno del 2013 e autunno del 2014, i capitali della Velux hanno foraggiato Ben Reade, ex stagista promosso a responsabile dell’R&D (ricerca e sviluppo, ndr) gastronomico (sostituito da qualche mese da Roberto Fiore nel ruolo di head chef R&D), e Josh Evans, laureato a Yale e uno dei tre dipendenti full time del laboratorio, nel loro itinerario attraverso Uganda, deserto australiano, Messico, Perù e Sardegna, nonché Olanda e Danimarca, per individuare e filmare cavallette, coleotteri, api, grilli e altri insetti da servire come pietanza.

«Le larve di ape sono il caviale degli insetti». «L’esoscheletro può conferire croccantezza, per esempio in una cavalletta arrostita»

Reade e Evans sono diventati bravissimi nel tracciare impressioni di viaggio del tipo: «le larve di ape sono il caviale degli insetti» o «l’esoscheletro può conferire croccantezza, per esempio in una cavalletta arrostita». L’équipe del laboratorio trascorre lietamente intere giornate nell’escogitare graniglie con larve di ape, semi di avena e altre piante rivestite di miele. Le larve di ape, osserva Evans con entusiasmo, sono costituite per metà da proteine e da un 20 per cento di grassi mono e poli-insaturi (quelli buoni, insomma), con «un bel po’ di vitamine e minerali». Inoltre, gli insetti possono venire modificati geneticamente per ottenere livelli ancora più elevati di proteine e lipidi ritenuti salutari.

Dalla tecnologia alla ricerca del diverso

Al laboratorio certe idee non vengono sponsorizzate in modo acritico. Reade diffida da chi considera gli insetti «la prossima macchina mangiasoldi» nel settore degli alimenti proteici, sostenendo che mentalità di questo tipo «non fanno mai bene alla biodiversità e alla sicurezza alimentare». Non ritiene che quanti finora non li hanno mai mangiati, finiranno per apprezzarli un giorno. Il futuro agroalimentare immediato degli insetti è nei mangimi animali: una dieta del genere è sicuramente più adatta ai polli, già abituati a becchettare insetti, rispetto alle farine di pesce che gli vengono somministrate attualmente. Il laboratorio, conclude Reade, desidera solo esplorare e affinare nuovi percorsi alimentari, non stravolgere intere culture.

Il futuro agroalimentare immediato degli insetti è nei mangimi animali

Quotidianamente, il personale e il piccolo gruppo di quadri interni lavorano anche ad altri progetti, finanziati o meno. Gli attrezzi principali nel laboratorio non sono il rifrattometro, il termometro o le bilance digitali e gli altri strumenti di misura. Ormai persino la centrifuga, simbolo di ogni cucina ben attrezzata, è stata accantonata. Al posto di tutto ciò il gruppo brandisce «una rastrelliera per le spezie popolata di microbi» utilizzati per fermentare ogni genere di granaglia o frutto. Nel laboratorio, i risultati di queste operazioni diventano garum di cavalletta, strani surrogati del cioccolato, ma soprattutto birre che bene si sposano alle pietanze e che sono, insieme agli insetti, il principale obiettivo delle ricerche sponsorizzate.

Molto di tutto ciò è un gioco che mescola scienza e tecniche culinarie con antropologia, sociologia e storia culturale: un tipo di sperimentazione che ha già avuto un duraturo impatto sulle nuove generazioni di chef e di cuochi. 
 

Coscia di cervo “mummificata”, ricoperta di cera d’api. Fotografia: per gentile concessione di Chris Tonnensen

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