Umbria, cuore verde d’Italia. Ma, sempre più, anche cuore pulsante degli interessi della ‘ndrangheta. Traffico di stupefacenti, armi, prostituzione. Tutto nelle mani di criminali impiantatisi da anni nella regione che, forti di un saldo sodalizio con la mafia albanese, gestiscono i commerci illegali, minacciando, intimando. E uccidendo, se è il caso. A trasferirsi in Umbria, infatti, non sono solo gli ‘ndranghetisti ma anche il bagaglio di metodi mafiosi che si portano dietro. E il giro, ora, si allarga: emerge dalle due nuove operazioni dei Ros e dei Carabinieri che hanno portato a 40 arresti compiuti tra Perugia, L’Aquila e la Calabria, legati a doppio filo all’ordinanza di poche settimane fa di cui Linkiesta si è occupata. Insomma, contro tutte le grida di chi vorrebbe più sicurezza nel capoluogo umbro, più studenti a riaffollare il corso cittadino principale (corso Vannucci) e le università, la realtà continua ad essere ben diversa: in una provincia che resta apparentemente tranquilla, la droga inonda le strade mantenendo canali di approvvigionamento privilegiati, resistenti al tempo e alle mutazioni. Tutto scorre, ma i codici della mafia restano. Nello spaccio, come negli omicidi.
È l’alba del 14 gennaio, quando a Perugia scattano le manette per 21 persone, 15 delle quali arrestate per traffico di droga e detenzione di armi da guerra. Parallelamente a L’Aquila ne vengono fermati altri 19. Il mercato, dunque, si allarga. Ma ciò che stupisce è che tra gli arrestati anche sei per un episodio di sangue risalente a dieci anni fa. Parliamo dell’omicidio di Roberto Provenzano, freddato a Ponte Felcino, frazione di Perugia, da un colpo di arma da fuoco nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2005. Un omicidio per il quale, fino al momento di questi nuovi arresti, vi era alla sbarra un solo imputato in attesa del giudizio in Cassazione (e proprio lo scorso 20 gennaio è stato assolto definitivamente), e per il quale ora gli inquirenti individuano mandanti ed esecutori materiali. A riprova del fatto che il sistema criminale calabrese era già saldo già dieci anni fa.
In una provincia che resta apparentemente tranquilla, la droga inonda le strade mantenendo canali di approvvigionamento privilegiati, resistenti al tempo e alle mutazioni
E ad operare, come già emerso nell’operazione Quarto Passo, ancora loro: i membri della cosca ‘ndranghetista dei Farao-Marincola di Cirò. Da anni, dunque, il gruppo di calabresi riesce a rigenerarsi. E se gli attuali capibastone (Cataldo Ceravolo, ritenuto dagli inquirenti il “boss” della criminalità perugina, insieme a Cataldo De Dio e Vincenzo Martino) sono finiti alla sbarra poche settimane fa, oggi veniamo a conoscere anche i boss di allora, i pregiudicati Salvatore Papaianni, Vincenzo Bartolo e Francesco Elia. Erano loro, dicono oggi gli inquirenti, a gestire il mercato, a far pagare gli “sgarri” a chi sbagliava, a regolare i “pagamenti”.
SETTE MILA EURO PER SPEZZARE LE GAMBE
I due distinti procedimenti che hanno portato agli arresti delle 40 persone partono da alcuni spari su un negozio di Ponte Felcino. Poi scattano i pedinamenti e le intercettazioni. Si scopre così che la droga veniva portata a Perugia in trolley dalla Calabria, due volte a settimana, sui numerosi autobus che fanno la spola tra le due regioni per accompagnare frotte di studenti, parenti, amici, lavoratori pendolari ormai stanziati in Umbria. Arrivano a trasportare fino a 10 chili a viaggio: spacciatori e ganci sul mercato, per avvisarsi del carico, parlano di “patate rosse”, o si dicono “dobbiamo andare dal dottore”. E dalle intercettazioni si scopre anche a quanto ammontano i compensi per altri tipi di reati: spezzare le gambe o appiccare un incendio costa infatti 7 o 8 mila euro. Insomma, un mercato criminale immane quello perugino, in cui rientra, come se non bastasse, anche il traffico di armi. Specie da guerra, come d’altronde già emerso da precedenti inchieste: i calabresi acquistavano dagli albanesi anche lo “sniper” o la TT-33 Tokarev, arma da guerra prodotta nell’ex Unione Sovietica e oggi disponibile solo in Albania e Russia.
Ma è ovviamente nel traffico degli stupefacenti che i clan attivi in Umbria fanno affari, e non da oggi. Già nel 2001, a seguito dell’operazione Omnibus che portò a 72 ordinanze di custodia cautelare per reati collegati allo spaccio di stupefacenti, l’allora sostituto procuratore di Perugia, Dario Razzi, dichiarò: «abbiamo accertato che a Perugia circola droga di buona qualità e a prezzi contenuti rispetto alle altre piazza nazionali». Una piazza dove la “roba”, nonostante si trovi ad un prezzo più alto che altrove, ha il vantaggio di essere venduta anche in tagli più piccoli rispetto a città come Roma o Napoli. Ecco che allora la “specialità umbra” è richiesta in tutta Italia.
Una piazza dove la “roba”, nonostante si trovi ad un prezzo più alto che altrove, ha il vantaggio di essere venduta anche in tagli più piccoli rispetto a città come Roma o Napoli. Ecco che allora la “specialità umbra” è richiesta in tutta Italia
Non a caso è proprio nei gangli dello spaccio su piazza che si collegano gli altri arresti del 14 gennaio scorso. A rivelarlo l’operazione Drugs in the City della Squadra Mobile dell’Aquila. La polizia è riuscita a ricostruire la tratta attraverso cui la droga arrivava in Abruzzo, oltreché da Napoli e Roma, anche da Perugia. A gestire il tutto, ancora una volta, la criminalità italiana e quella albanese. L’Aquila era stata così divisa in zone, dove la droga, acquistata dai principali fornitori, veniva poi smerciata. Da Perugia arrivavano ogni settimana 2 chili e mezzo di droga, in particolare cocaina, marijuana e hashish. La prima costava anche fino a 100 euro al grammo, la marijuana 6 o 8 euro, l’hashish 8, l’amnesia 20.
Ma non è finita qui. Dalle carte emerge anche un collegamento diretto ad un omicidio caduto nel dimenticatoio. La sera del 28 maggio 2005, Roberto Provenzano, piccolo imprenditore edile del perugino, compra un dolce in una pasticceria di Ponte Felcino, rientra in casa intorno alle 19 e lo mette in frigo. Per cena si prepara un piatto di pasta al sugo, poi non esce di casa. Resta in boxer, a guardare la tv. Forse qualcuno bussa alla sua porta, e lui la apre. Va in bagno, a sciacquarsi il viso. Il suo assassino a quel punto gli spara un solo colpo alla tempia, mentre l’acqua del rubinetto ancora scorre. Provenzano muore così. Per debiti di droga si dirà poi. Per la morte dell’uomo originario di Maida, della provincia di Catanzaro – il quale, secondo gli inquirenti, era anche invischiato nel reclutamento di manodopera in nero per alcune aziende del perugino – proprio ieri è arrivata la definitiva assoluzione in Cassazione di Gregorio Procopio, ritenuto dall’accusa l’esecutore materiale dell’omicidio. Ma oggi scopriamo qualche tassello in più. Un tassello determinante, dato che parliamo dei mandanti, ovvero Salvatore Papaianni e Vincenzo Bartolo.
Non solo: sopra di loro Giuseppe Affatato, che avrebbe per primo ricevuto qualche “sgarro” da Provenzano, e che avrebbe così riferito tutto a Papaianni, votando per l’omicidio dell’imprenditore edile. E ancora: al gruppo si aggiungono anche Platon Guasi e Francesco Elia, rispettivamente chi avrebbe pedinato la vittima quella notte e il “palo”; e Antonio Procopio, che avrebbe accompagnato l’omicida a casa di Provenzano e nascosto poi l’arma. La Procura generale non è convinta, in realtà, nemmeno dell’assoluzione di Gregorio Procopio, soprattutto dopo quanto emerso dalle ultime indagini e dalle ultime intercettazioni rese pubbliche. In un’ambientale Procopio dice a Platon: “Basta che vieni tu però. Tu solo vieni perché se mi dice certe cose mi dispiace spararlo. Ci sei tu sparo, ma se non vieni tu no”. Una cosa, però, è certa: la ‘ndrangheta era attiva e violenta nella “felice isola” umbra già dal 2005.
UN RIFIUTO? LA MORTE IMMEDIATA
Ed è ancora il fiorente traffico di droga al centro della vicenda. Il nome dei Farao-Marincola a Perugia, infatti, è collegato non solo a investimenti fiorenti nelle attività commerciali del centro perugino, ma anche e soprattutto ai giri di prostituzione e droga. Per i quali non obbedire significa morire. All’istante. È esattamente quanto capitò già nel 2001 quando furono arrestati in 105, anche per aver ucciso alcune “lucciole” ribellatesi al racket. Poi il silenzio. Finchè la pax mafiosa non viene nuovamente interrotta da un altro sgarro, quello di Provenzano. “L’omicidio – si legge nelle dichiarazioni – era stato necessario per dei problemi legati ad una partita di stupefacente”. L’imprenditore sarebbe stato punito per essersi impossessato di una partita di droga, senza poi restituire il ricavato. Uno sgarro intollerabile per la ‘ndrangheta umbra e così Papaianni e Bartolo decidono di eliminare Provenzano. Un disegno ben chiaro quello che alla fine compare da alcune intercettazioni di telefonata avvenute poco prima della morte di Provenzano:
Francesco Elia: Lo dovete tummare?
Gregorio Procopio: mh!
F: Ah lo dovete tummare?….Lo ha detto Salvatore? Lo ha detto?…Papaianni?
F: Si pensa che qua fa un’altra fine (alludendo a Roberto Provenzano)
G: Ma mi dispiace perché è oggi, però stasera me lo gioco a Robertino