Guardare le cose dallo spazio può essere un buon modo per ridimensionare ciò che accade sulla Terra: o perlomeno può essere una buona metafora. Ma la Terra è un pianeta duro da lasciare: lo sapevano Giulio Verne, i vari Hermann Oberth, Konstantin Tsiolkovsky e Robert Goddard; lo sanno gli ingegneri aerospaziali, e in ultimo proprio gli astronauti, costretti a dibattersi quali sono, ancora oggi, fra le condizioni di vita a cui lo spazio li sottopone e le buone e vecchie abitudini terrestri.
Strappato al conforto così terreno della gravità, l’astronauta è costretto a modificare lentamente le proprie abitudini, non ultime quelle alimentari. Anche il cibo, dal pane quotidiano qual era sulla Terra, si è dovuto adeguare alla nuova situazione, a cominciare dalla consistenza: gli alimenti, si sa, in condizioni di microgravità non devono fare briciole, perché potrebbero essere inalate e causare infezioni oppure provocare danni alle apparecchiature (come sa bene Homer Simpson); mentre i liquidi, per ragioni analoghe, devono essere tenuti in appositi contenitori o fluttuerebbero nell’ambiente in tante piccole sfere come è ben descritto da Ron Howard in Apollo 13, nella scena in cui due astronauti giocano a rincorrere gocce di aranciata spremuta da un sacchetto.
Ma procediamo con ordine, in questa breve rassegna del cibo spaziale.
Passato
Il primo pasto consumato nello spazio – più che altro uno spuntino – consisteva in tre tubetti simili a quelli per il dentifricio: due riempiti di purea di carne e uno di crema al cioccolato. Era il 12 aprile 1961 quando Jurij Alekseevič Gagarin divenne famoso come il primo uomo a compiere un’orbita completa intorno alla Terra. Il suo viaggio a bordo della capsula Vostok 1 durò solo un’ora e quarantotto minuti, ma ebbe comunque modo di assaggiare un po’ di cibo spaziale, sfatando con ciò l’ipotesi che in assenza di gravità mangiando si corresse il rischio di morire strangolati.
Il primo americano a nutrirsi nello spazio fu invece John Herschel Glenn. Dopo aver compiuto tre orbite terrestri in quasi cinque ore di volo, Glenn – che tornerà nello spazio nel 1998, a ben settantasette anni – riuscì ad assaggiare da alcuni tubetti una crema a base di manzo e verdura e della polpa di mele.
In generale, nel corso del programma Mercury (1961-1963) di cui Glenn faceva parte, gli alimenti di cui gli astronauti americani potevano disporre consistevano principalmente in cibi frullati contenuti in tubetti, polveri liofilizzate oppure piccoli cubetti di cibo (rivestiti con una pellicola commestibile per evitare la produzione di briciole), simili ai cubetti colorati di Star Trek, sostituiti poi nelle serie successive dai replicatori, che creavano su comando vocale pietanze (terrestri e aliene) più simili a quelle tradizionali.
L’espediente del cibo a cubetti fu utilizzato anche per il successivo programma Gemini (1963-1966), mentre i tubetti, spesso più pesanti del loro contenuto, furono abbandonati in favore di un packaging in polietilene. Fu durante il volo di Gemini 3 che l’astronauta John Young – che faceva coppia con Gus Grissom – riuscì a introdurre a bordo un sandwich con carne in scatola, a rischio di compromettere la missione, che gli valse una bella lavata di capo.
È la volta del programma Apollo, che di lì a pochi anni avrebbe portato Neil Armstrong e Buzz Aldrin (Apollo 11) a calpestare il suolo lunare. Gli astronauti delle missioni Apollo furono i primi a poter utilizzare l’acqua calda, che rese possibile la reidratazione degli alimenti, migliorando il gusto del cibo. Ma è con il progetto Skylab che la tecnologia utilizzata per la conservazione degli alimenti raggiunse un certo grado di sofisticazione con la presenza nel menu di alimenti congelati o refrigerati. Per bere, invece dei classici sacchetti, venivano usate delle bottigliette comprimibili ed espandibili, mentre per mangiare si potevano utilizzare comodamente le posate, fissate al vassoio tramite un magnete.
Un ulteriore cambiamento si ebbe con lo Space Shuttle, utilizzato dalla Nasa dal 1981 al 2011. Come navetta spaziale progettata per missioni di breve durata (circa due settimane) non aveva lo spazio e la potenza necessari per poter ospitare frigoriferi o congelatori; la Nasa concentrò quindi i propri sforzi sullo sviluppo di un sistema alimentare a lunga conservazione senza catena del freddo che culminò, a partire dal 1998, in una cinquantina di nuovi prodotti termostabilizzati (attualmente il miglior sistema), preferibili rispetto a quelli liofilizzati perché, a differenza di questi, non richiedevano l’uso di acqua.
Presente
Nel capolavoro di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio (1968) il pasto viene consegnato da una hostess che cammina su un set cilindrico in movimento per mimare l’assenza di gravità. Il vassoio a scomparti contiene un cibo che ha la forma di una purea colorata, che in effetti è un tipo di consistenza molto adatta al cibo spaziale: è l’opinione di Stefano Polato, chef ufficiale della missione Futura, il progetto dell’Esa che ha portato in orbita Samantha Cristoforetti.
È un’azienda piemontese, l’Argotec di Torino, a creare piatti su misura per gli astronauti dell’Esa diretti sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Per Luca Parmitano ha prodotto versioni particolari di lasagne, risotto, caponata, parmigiana di melanzane e tiramisù, a dimostrazione che, anche nell’immaginario cinematografico, le previsioni più lungimiranti non sono state quelle più apertamente avveniristiche (come i vassoietti di pillole in La conquista dello spazio) ma quelle che più tengono conto delle esigenze di normalità (come il pranzo a base di verdure e birra in Alien), così importanti quando la distanza da casa è incommensurabile.
Stefano Polato lavora con Argotec dal 2012 (per realizzare la dieta personale di un astronauta servono da uno a due anni) e si è occupato personalmente del bonus food di Samantha Cristoforetti, tutto improntato a una dieta sana, realizzata con alimenti dei presidi Slow Food, come la lenticchia di Ustica. Tutti i pasti sono racchiusi in pouch impermeabili all’aria e all’umidità, buste multistrato che conservano i prodotti per 24 mesi a temperatura ambiente, e per la missione Futura è stata anche predisposta, da Argotec e Lavazza, una nuova macchinetta per espresso in orbita.
Al di là delle specialità introdotte dai gourmet italiani, fra i cibi preferiti dai cosmonauti bisogna annoverare gli alimenti piccanti, perché a detta di molti il senso del gusto risulta ridotto o alterato nello spazio, anche se, spiega Polato, si tratta di una percezione del tutto soggettiva, che varia da astronauta ad astronauta. Altri alimenti molto apprezzati sono lo yogurt, perché ricco di calcio e quindi in grado di contrastare la perdita di massa ossea che si verifica in assenza di gravità, e le M&M’s, protagoniste del siparietto comico tra il capitano Jim McConnell e il giovane Phil Ohlmyer nel thriller di Brian De Palma Mission to Mars (2000), in cui le noccioline vengono disposte a forma di doppia elica di Dna. D’altra parte qualcosa del genere sembra essere accaduto davvero, come testimonia una foto di Loren J. Shriver, comandante della STS-46, in orbita intorno alla Terra nell’agosto 1992.
Tra i cibi che invece non è possibile portare nello spazio, troviamo tutti gli alimenti friabili – cracker, patatine, pane (tranne la piadina o tortilla), “gelato spaziale” –, così come le bibite gassate e la pizza, che nello spazio rimarrebbe sempre molle e gommosa. A spedirla in orbita ci hanno provato solo i Russi della vecchia stazione spaziale Mir, ma da allora nessuno l’ha più richiesta.
Futuro
Eppure è proprio l’idea di portare “la pizza su Marte” uno degli obiettivi privilegiati verso cui si stanno muovendo le ricerche più avveniristiche in termini di space food. Due sono gli itinerari principali, entrambi i quali legati alla futura possibilità di viaggi spaziali più lunghi e impegnativi, come su Marte. A questo fine la quantità di cibo deve essere maggiore e si deve provvedere a metodi di conservazione migliori, senza gravare sulla spedizione in termini di spazio e costi di gestione, il tutto cercando di rispondere in maniera sempre più efficiente al fabbisogno fisiologico dell’astronauta, perché col perdurare della missione la sua efficienza non decresca e, in genere, sia sempre più possibile ricreare nello spazio quella che è una quotidianità terrestre.
Il primo itinerario di ricerca vede l’utilizzo della cosiddetta additive manufacturing: si tratta della versione industriale della stampante 3D, già da qualche anno impiegata nella costruzione di componenti in plastica e metallo, non da ultimo a fini aeronautici e aerospaziali e, più recentemente, alle prese proprio con la stampa del cibo per gli astronauti (e la pizza sembra il banco di prova più importante) a partire da carboidrati, proteine e altri nutrienti in polvere di cui si stima la conservazione fino a trent’anni. Un investimento di $125,000 per la Nasa, che ritiene tuttavia assai prematuro il suo impiego in un prossimo viaggio, mentre è attualmente attivo il progetto denominato 3D in Zero-G Technology Demonstration per testare l’efficacia della tecnologia in condizioni di microgravità sull’ISS.
Il secondo itinerario, condotto nel quadro dell’Exploration Habitat Academic Innovation Challenge (un bando dedicato allo sviluppo di tecnologie che interessano l’ambiente delle stazioni spaziali), si inserisce invece nel solco del cosiddetto Veggie Experiment dell’anno scorso; in quel caso si trattava di mandare in orbita un’unità capace di coltivare vegetali utili al fabbisogno nutritivo dell’equipaggio sull’ISS – oltreché rappresentare un’attività ricreativa che gli astronauti hanno mostrato di gradire. Sul continuum, quest’anno è il progetto dal titolo ‘Plants Anywhere: Plants Growing in Free Habitat Spaces’ a far parlare di sé: si tratta della messa a punto, da parte di un team di studenti dell’Università del Colorado, di un dispositivo utile alla coltivazione di frutta e verdura (detto SmartPop o SPOT) e di un rover (Remotely Operated Gardening Rover, or ROGR) in grado di prendersene cura – un vero e proprio robot giardiniere.
L’idea è certamente compatibile con le esigenze alimentari sollevate dalle nuove frontiere dell’astronautica (produzione in loco, si vorrebbe dire, a km zero, di cibo agilmente trasportabile e nutriente, battendo con ciò i costi dell’impresa alla radice): ma probabilmente c’è di più: forse la progressiva ottimizzazione di un’agricoltura spaziale non risponde alle sole esigenze nutritive ma, per così dire, fa levitare il discorso sulle esigenze terrestri nello spazio, e suggerisce che l’era in cui ci si portava il cibo da casa è conclusa, ed è venuto il momento di pensare a come portarsi nello spazio tutte le proprie esigenze, le abitudini, le idiosincrasie; a come fare dello spazio casa propria – o perlomeno un giardino di casa.